LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e scrittore, in libreria con "Amarcord Fellini. L'alfabeto di Federico" (Il Mulino ed., 2020)

Non c’era pace tra gli ulivi. Un libro di Agus e Castellina sul Sud nel dopoguerra

Giuseppe De Santis per molto tempo e fino alla morte nel 1997 coltivò l’idea di girare un film dedicato ai «Fatti di Andria», come si intitola il soggetto inedito ritrovato tra le sue carte.  Nessun produttore volle finanziarlo e in seguito nessun cineasta «impegnato» e fru fru ha mai neppure pensato di rispolverarlo. Evidentemente, il regista di Riso amaro, Roma ore 11 e Italiani brava gente aveva intuito il valore storico e politico, ma al tempo stesso epico – la cifra narrativa che gli fu propria nell’ambito del neorealismo – delle giornate pugliesi culminate nel 7 marzo 1946. D’altronde, un altro dei titoli celebri di De Santis avrebbe ben potuto simboleggiare la questione: Non c’è pace tra gli ulivi.

Siamo in un dopoguerra tanto furente quanto caotico, nella nostra terra segnata dall’atavica disperazione di masse bracciantili ancora estranee alla Storia. Una Puglia, oltretutto, attraversata all’epoca da migliaia di sbandati, reduci, disertori, profughi, esuli, fuggitivi. Erano orientali, mitteleuropei e in gran parte ebrei, in attesa di tornare nei Balcani donde erano fuggiti durante il conflitto o, nel caso dei sopravvissuti alla Shoah, speranzosi di imbarcarsi verso la nuova Terra promessa, alla volta del nascente Stato di Israele.
Il 7 marzo ‘46, alla vigilia della prima Festa della Donna nell’Italia libera dal fascismo e dalla guerra dopo un quarto di secolo, Giuseppe «Peppino» Di Vittorio, il leggendario sindacalista di Cerignola divenuto segretario della Cgil, avrebbe dovuto tenere un comizio in piazza Municipio ad Andria. L’aspettativa era che il gigante buono, l’unico comunista che non mangiava i bambini, venerato come un santo proletario nelle stamberghe dei miserabili, riuscisse a sedare il clima infuocato nei giorni precedenti dagli scontri tra forze dell’ordine e manifestanti. Ma qualcuno sparò un colpo di fucile o due contro la folla che in piazza attendeva Di Vittorio. Da dove? «Dal tetto del palazzo Porro», gridarono. La massa inferocita andò all’assalto della magione nobiliare che già un paio di giorni prima era stata occupata e messa a soqquadro. Si rincorsero voci che le sorelle Porro avessero nascosto delle bombe a mano nelle valigie; proprio loro: innocue, inermi, caritatevoli, timorate di Dio, serrate nelle laconiche memorie di famiglia come nello scialle nero che sempre ne accompagnava i passi dal palazzo alla chiesa. Certo, erano agrarie, possidenti, ricche e, in quanto tali, erano nemiche di classe per i braccianti disoccupati e affamati, costretti a sottoporsi prima ancora dell’alba al rito del caporalato in piazza Catúma (che per altri versi ancora vige in Puglia).

Alla fine del tumulto, due delle quattro sorelle cinquanta-sessantenni, Luisa e Carolina Porro, furono ritrovate orrendamente trucidate in strada. Altre due, Vincenzina e Stefania (l’unica sposata delle quattro), pur ferite durante il tardivo tentativo di fuga, sopravvissero alla violenza. Né l’ondata di sovversione e di sangue si placò nei mesi e negli anni successivi in vari centri della Puglia tutta, con morti e feriti ad Altamura, Lucera, Ascoli Satriano, Corato, Minervino Murge, Francavilla Fontana, Terlizzi… Sono vicende spesso ignorate dalla storiografia «ufficiale» che tuttavia i Lettori della «Gazzetta del Mezzogiorno», negli ultimi lustri, hanno conosciuto o rivisitato grazie alle ricerche di Vito Antonio Leuzzi, il quale interpreta il lavoro dello storico «come l’orco della fiaba» secondo l’invito di Marc Bloch: «là dove fiuta la carne umana, là sa che è la sua preda». Tenace Leuzzi nel sottrarre all’oblio persone ed eventi del ‘900 pugliese; un secolo lungo, lunghissimo, altro che «breve»!

Il delitto delle sorelle Porro racchiude e proietta oltre il suo stesso tempo tutte le contraddizioni di quella Puglia rossa e nera, dalla luce implacabile e dalle ombre brune. Tagli netti e zone grigie. Perciò continua a calamitare l’attenzione, come nel caso dell’accurato volume Una famiglia borghese meridionale. I Porro di Andria di Riccardo Riccardi (Rubbettino ed., 2013). Adesso, sui fatti di Andria, è in libreria Guardati dalla mia fame di Milena Agus e Luciana Castellina (nottetempo ed., pp. 207, euro 15,00). Un dittico dichiaratamente sulla falsariga dell’Adelchi manzoniano. Da una parte c’è La tragedia privata e familiare delle «signorine» Porro, sublimata in una  fiction della Agus. La scrittrice sarda di Mal di pietre e Sottosopra concepisce il personaggio immaginario di un’amica e coetanea delle sorelle andriesi, partecipe dei loro stessi privilegi di classe, eppure attratta dal fascino quasi erotico di Giuseppe Di Vittorio, amante onirico in grado di riscattarla dal matrimonio senza palpito con un uomo più anziano. D’altro canto, ecco Il coro di Luciana Castellina: la scansione dei fatti storici che precedettero i giorni di Andria e oltre, fino al processo per l’omicidio delle Porro. A sua volta autrice di recenti raffinate prove narrative, una delle quali è giunta fino alla cinquina dello «Strega» (La scoperta del mondo), Castellina ha fatto della militanza comunista la sua ragione di vita, annodata alla Puglia per vari motivi, dal matrimonio col barlettano Alfredo Reichlin che per un decennio a cavallo del ‘68 fu segretario regionale del Pci, fino all’«eresia» del «Manifesto» che, come rivista, vide la luce a Bari per i tipi della Dedalo di Raimondo Coga.

Non a caso Castellina, che si è avvalsa dell’«insostituibile aiuto» di Leuzzi, parla senza mezzi termini di una «guerra civile in Puglia» tra il 1943 e il 1948, «una storia quasi sconosciuta nel resto del Paese». Eppure in quelle stagioni la Puglia è «il palcoscenico dove si recita il dramma di tutti», parafrasando una celebre definizione dell’America coniata da Cesare Pavese. Già, la Russia e l’America. Qui  appaiono «vicine», in una paradossale alternativa politica. Il Tavoliere brullo può ricordare in sedicesimo le steppe dei cosacchi e le ribellioni antizariste dei contadini. Mario Alicata – cerbero colto del Partito – evocò Tolstoj sull’«Unità» commentando il processo di Trani ai responsabili dei fatti di Andria, conclusosi – giusto il 14 luglio 1948 dell’attentato a Palmiro Togliatti – con una messe indistinta di condanne, in gran parte revisionate dall’appello. Quanto all’America, scrive Castellina, vi fu chi tramò per aggiungere una stella pugliese sulla bandiera statunitense o chi sognò un’annessione agli Usa e un destino alla Polvere di stelle di Sordi e Vitti, pur di  scongiurare il pericolo bolscevico.

Agus e Castellina riservano entrambe una scrittura nitida, sobria, efficace, nondimeno avvolgente. Un bell’esempio di docu-drama, ovvero di alternanza fra narrativa e saggistica in cui l’autenticità letteraria si ottiene proprio sottraendosi all’«ordine del racconto». Al contrario delle narrazioni ombelicate che vanno per la maggiore, Guardati dalla mia fame restituisce qualcosa di più della «semplice» memoria storica: è il senso del tragico, l’impotenza del potere, il destino del vano lottare, l’umanità predatoria del lutto (Elias Canetti) che i nostri anni tendono a rimuovere.

Articolo pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 19 maggio 2014

 

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