IL SOTTOSCRITTO

Gianni Bonina

Giornalista e scrittore. Vive a Modica. Ha pubblicato saggi di critica letteraria, romanzi, inchieste giornalistiche e reportage. È anche autore teatrale. Ha un blog all'indirizzo giannibonina.blogspot.com

E gli influencer divennero i nuovi critici letterari

Il giudizio di un critico letterario non si forma dopo la lettura del libro ma prima, perché è influenzato dal «pregiudizio dell’arte». Vantando gelosamente un personale canone, è a quello che confà ogni valutazione, anche quando si sforzi di spogliarsi di ogni preconcetto. Tuttalpiù si rifà a una scuola di pensiero cui aderisca che comunque non si muove se non seguendo parametri propri, gusti già stabiliti e tendenze che impongono requisiti di gradimento. Del resto la storia della letteratura dimostra come siano state le correnti a determinare il successo o meno di un autore: ma sulla base del merito.

Il critico è come un architetto, che vede una casa quando non è ancora nata, sicché la progetta secondo la propria visione: tanto più è bravo quanto più riesce a piegare ai propri principi i desideri del committente, all’oscuro delle regole dell’arte. Così il critico, il quale immagina il libro non solo in forza dell’aderenza di esso al suo metro ma anche sulla base di elementi che non sono comuni ai lettori e che dovrebbero essere estranei anche alla sua natura di esperto: il genere, l’editore, la tiratura, il background, l’allestimento grafico, il gusto prevalente del pubblico, il lancio promozionale, le informazioni editoriali e non ultimo il proprio interesse tornacontistico.

Il critico è insomma sempre prevenuto anche perché, come teorizzano Giacomo Debenedetti e George Steiner, è egli stesso un artista, cioè un preveggente. Quando gli arriva in mano il libro, la sua scelta – se leggerlo o no – è già in qualche modo stata fatta, per modo che a quel punto il suo compito non è più deduttivo ma induttivo: deve dimostrare una tesi anziché avanzare un teorema. Questo capita al critico che sia portato a comprendere il libro non per il suo contenuto o il suo autore, ma secondo la logica dell’editore, dacché egli tiene pregiudizialmente conto del giudizio dell’imprenditore perché è da lui che possono venirgli curatele, incarichi, contratti di edizione, inviti, viaggi e libri gratis.

Come si riconosce? Facile: basta cercare nelle recensioni quelle frasi a effetto, tipiche degli slogan, perlopiù valide per qualsiasi libro, che gli editori amano tanto perché funzionano come marchi di garanzia nelle loro inserzioni pubblicitarie, se associati a nomi noti. È pur vero che alcuni critici che figurano come testimonial sono involontari e inconsapevoli, ma è anche vero che i critici cooperatori crescono. E di conseguenza le stroncature calano.

Come l’elzeviro, una nota letteraria che sottendeva una censura politica, la stroncatura è un residuato storico. La logica prevalsa oggi nei quotidiani, nei siti specializzati e nelle trasmissioni radiotelevisive è intesa a ignorare i libri brutti o che meritino una critica qualsivoglia, nel fondamento che se un libro non piace a un recensore può piacere a un altro, per cui non vale parlarne male dal momento che se ne potrebbe parlare bene: principio che però dovrebbe valere anche nel caso di un libro che venga osannato, potendo essere anche stroncato. Questo però non succede perché se un critico autorevole o una testata di peso esprimono un giudizio positivo, chi dovesse dire il contrario apparirebbe un incompetente e non un cervello indipendente come dev’essere.

Per questa via il critico diventa un chierico, un embedded del sistema politico-editoriale, un integrato uscito vincente dallo scontro con gli apocalittici echiani. Uno insomma che suona il piffero ai dominanti, donde la gara a chi lo suona meglio. Tale processo evolutivo ha portato all’inconsistenza della critica letteraria, sia accademica che militante. Un libro non si vende più perché è stato acclamato dalla critica – anche perché i giornali non contano più come una volta – ma perché è stato celebrato dal passaparola soprattutto nei social: strumenti mass-cult che decretano il successo di un titolo quanto più esso sia popolare, anti-letterario, disimpegnato.

Venendo meno la figura del critico classico, si fa avanti quella dell’influencer che sui social promuove un libro gradito e ignora quelli non piaciuti facendo leva non su argomenti letterari, di comparatistica, di storia di correnti, di modelli e di scuole, ma su un gusto che si è esercitato sui canoni di soddisfacimento e gradimento di altri prodotti intellettuali, come un film, una mostra d’arte, uno show televisivo. Il linguaggio dell’influencer che si occupa di libri è lo stesso che se parlasse di dipinti e attori, fondato sul gusto personale e insistito sui personaggi, eletti a totem e considerati i veri autori. Lo stile letterario del critico classico si è perso dentro quello estemporaneo e mimetico dell’influencer di moda. Il quale privilegia la trama, ancor più l’intreccio, e nota il linguaggio dell’autore quanto più la lettura gli riesca facile. L’immedesimazione esterna fa premio su quella interna.

Ma mentre si fa sempre più largo il fossato tra critica accademica e commentistica social, quella militante resiste, sebbene su nuove vie molto accidentate e sempre più solitarie. I supplementi del Corriere della sera e di Repubblica, “La Lettura” e “Robinson”, usano la recensione per promuovere un titolo e non per giudicarlo. Quando si trovi un barlume di critica negativa, è così liofilizzato da apparire quasi una richiesta di scuse all’autore se il recensore si è permesso un appuntino. Con la proliferazione delle interviste, il trattamento di favore degli autori si è peraltro accresciuto, sicché non si leggono mai domande “cattive” ma solo attestati, encomi e riconoscimenti, quasi che non ci siano che geni e capolavori in giro.

La stroncatura non è più di moda perché è in contrasto con il metodo influencer, nato per incoraggiare il pubblico e non per sconsigliarlo. È successo che sono stati i giornali anche di nobile retaggio a piegarsi alla tendenza degli influencer abilissimi nel fare da megafoni di regime, quando ci si sarebbe aspettati che questi semmai ereditassero le acquisizioni di quelli. Ma non lo hanno potuto fare perché gli organi di stampa si sono, in fatto di cultura e in particolare di libri, trasformati in bollettini e depliant – anche perché solo così possono sperare nelle inserzioni pubblicitarie degli editori, la cui filosofia – ogni libro un successo – è simile a quella della pesca a strascico: raschiare il fondo, riempire le stive e non pensare al depauperamento del mare.

Non erano certo così i Giulio Einaudi, gli Arnoldo Mondadori, le Elvira Sellerio, i Valentino Bompiani, gli Aldo Garzanti, che operavano per la crescita qualitativa della letteratura e non per quella quantitativa delle casse.

I critici militanti, che avrebbero dovuto fare da argine a questa deriva, si sono conformati, rendendosi complici della fine di un mondo che se in Italia ancora è in qualche modo illuminato è grazie alle ultime luci che arrivano dai grandi fondatori. I critici si sono accontentati della promozione che ha offerto l’editoria, la quale anziché gli accademici ha via via preferito proprio loro per prefazioni, presentazioni, saggi e introduzioni anche dei classici. Così, anziché un buono studio critico, oggi si leggono articoli lunghi e di maniera, come generati da un’intelligenza artificiale arrivata anzitempo in un settore che richiede soprattutto cultura. Il vero male dell’editoria nazionale è proprio l’editoria nazionale, che ha cooptato l’intero carrozzone della critica militante.

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