Strage di Ankara: voto alle porte
e interrogativi di una società ferita

Da Reset-Dialogues on Civilizations

In una Turchia già scossa dalla ripresa del conflitto tra l’esercito e i ribelli curdi del Pkk, in perenne tensione per gli sviluppi al di là dei 911 chilometri che la separano dalla Siria, un attentato uccide 97 persone, facendo tremare un Paese fondamentale per gli equilibri di tutta la regione.
Due esplosioni a tre secondi di distanza l’una dall’altra, obiettivo un corteo pacifista, autori ignoti.

Il premier Davutoglu non ha avuto dubbi nell’indicare i principali indiziati in quattro organizzazioni terroristiche, diversissime tra loro: Pkk, Isis, Dhck-p e Mlkp.

Per le ultime due organizzazioni si tratta di pubblicità inaspettata, di ispirazione comunista, con i marxisti leninisti del Mlkp praticamente fuori dalla vita del Paese ed il Dhck-p autore negli ultimi anni di alcuni attacchi ad obiettivi significativi, ultimo il consolato americano lo scorso agosto, ma dagli esiti difficilmente letali.

Con la ripresa delle ostilità con il Pkk poteva sorgere spontaneo chiedersi se dietro non ci fosse la firma dei separatisti curdi. A partire dallo scorso 21 luglio infatti la conta dei morti di un conflitto che con la tregua sancita nel 2013 si era fermata alla drammatica cifra di quarantamila caduti, ha ripreso a subire dei drammatici aggiornamenti a cadenza pressoché quotidiana.
In base a quanto dichiarato dall’esercito, a seguito dei raid aerei ripresi a fine luglio, sarebbero morti “circa 2200 terroristi”, mentre 145 membri delle forze di sicurezza turche risultano deceduti a seguito di attacchi dei ribelli. Dallo stesso giorno 167 civili sono rimasti coinvolti negli scontri, perdendo la vita a seguito delle operazioni militari portate a termine da ambo le parti. Murat Karayilan, comandante del Pkk, aveva dichiarato una tregua in vista del ritorno alle urne del prossimo 1 novembre. Un cessate il fuoco rimasto unilaterale, e di conseguenza inutile, con i bombardamenti che sono continuati negli ultimi giorni con 49 morti tra le file del Pkk e 2 poliziotti uccisi in risposta dai separatisti.

Facendo un confronto tra la realtà di questo conflitto e il massacro di Ankara, emerge un dato su tutti: l’attentato del 10 Ottobre è quello che ha fatto più morti nella storia della Turchia. Tutti civili, un fatto che si scontra con la guerriglia portata avanti dal Pkk, che ha come obiettivo primario militari e polizia. Sono queste ultime il bersaglio dei ribelli dall’inizio della guerra nel 1984. Un dato che non combacia con i 9 poliziotti feriti lievemente nelle esplosioni di Ankara. Può un gruppo (terroristico per Usa e Ue) cambiare il proprio obiettivo così radicalmente fino a colpire dei pacifisti, tra cui moltissimi curdi?

Troppi elementi portavano da subito ad escludere la pista curda e infatti a due giorni dall’attentato, il premier Ahmet Davutoglu ha dichiarato che “tutti gli indizi portano all’Isis”. Secondo il premier ci sarebbe un filo conduttore tra questo e altri due attentati che hanno seminato il terrore nel Paese negli ultimi mesi. Prima la bomba che causò 4 morti durante il comizio di chiusura dell’Hdp, lo scorso 5 giugno a Diyarbakir, poi il kamikaze che uccise 33 attivisti lo scorso 20 luglio a Suruc. Entrambi attribuiti a cittadini turchi, ufficialmente riconducibili allo stato islamico.

Ha ragione il premier a far notare che le modalità d’esecuzione sono simili, ma quello che Davutoglu non dice è che questi tre tragici episodi hanno avuto un target sempre uguale. Le 4 vittime della bomba di Diyarbakir si trovavano sul luogo dell’esplosione per il comizio di chiusura della campagna elettorale del partito filo curdo dell’Hdp, i 33 attivisti di Suruc si erano radunati per un progetto a favore della città curda di Kobane; i 97 morti di sabato scorso si stavano radunando per una marcia contro la ripresa del conflitto tra turchi e curdi. Una manifestazione promossa dai sindacati, ma soprattutto dal partito filo curdo dell’Hdp.

Ciò che colpisce più di tutto è l’emersione in Turchia di un fenomeno terroristico che non colpisce piazze o metropolitane, turisti e cittadini secondo quel meccanismo random che del terrorismo è la quintessenza. La macchina del terrore funziona proprio perché tutti si sentono potenziali vittime, tutti si devono sentire vulnerabili, tutti devono avere paura. Non sembra certamente questo il caso,considerando che questi tre tragici eventi, così simili tra loro, hanno colpito quella parte della società civile che sta dalla parte della pace tra turchi e curdi, schierata al fianco dell’Hdp o, in misura minore, dei repubblicani del Chp. L’attentato di matrice islamista, tradizionalmente, tende a colpire obiettivi simbolici, luoghi o eventi che conservano una forza significativa, un valore emblematico e anche questo non è il caso di quanto accaduto in Turchia. Il comizio di Diyarbakir è stato uno dei tanti della campagna elettorale organizzati dall’Hdp, del meeting di Suruc non sapeva nessuno, mentre la marcia di Ankara non è stata l’unica manifestazione organizzata da quando il conflitto è ripreso.

Ciò che sembra emergere è il tentativo di far entrare nella vita della Turchia una nuova “organizzazione terroristica”, che in mancanza di rivendicazioni si può anche chiamare Isis, ma che di certo agisce in maniera differente da come ci si aspetterebbe dal califfato, con un obiettivo chiaro, costante e determinato, in controtendenza con quelli che da sempre sono considerati obiettivi sensibili in Europa, ma anche in Turchia. In Italia ad esempio, è più “logico” temere che l’Isis mandi un kamikaze nella metro di Roma o tra folla della marcia Perugia-Assisi?

Un attacco terroristico che colpisce Istanbul finisce con estendere i suoi effetti all’esterno della Turchia,in primis abbattendo il turismo e di conseguenza creando danni economici enormi. Un attacco ad Ankara tende a condizionare la vita all’interno del Paese. Una realtà che inevitabilmente proietta verso le elezioni del prossimo 1 novembre, un ritorno alle urne reso obbligatorio dal fallimento dei colloqui esplorativi seguiti il voto dello scorso 6 giugno. Un ritorno alle urne che potrebbe essere posticipato in caso nel Paese venga decretato lo stato di emergenza. Un’eventualità che potrebbe non dispiacere troppo ad Erdogan, sopratutto nel caso i sondaggi continuino a dire che nulla è cambiato negli equilibri di potere sanciti lo scorso giugno, quando il processo di pace con i curdi sembrava più di una speranza e la Turchia non aveva ancora conosciuto il terrore dei kamikaze.

“Se un solo partito avesse avuto 400 parlamentari il Paese non sarebbe in queste condizioni” ha detto Erdogan all’indomani di una strage di militari nel sud est del Paese un mese fa. I tredici anni al potere del partito della giustizia e sviluppo, Akp, cui il presidente appartiene ma che non nomina, sono stati infatti contraddistinti dalla stabilità, in un Paese che oltre all’economia ha giovato della tregua con il Pkk e della totale assenza di stragi di matrice terroristica.

A due settimane dal ritorno alle urne, viene spontaneo domandarsi se basta davvero che un partito ottenga 400 seggi in Parlamento per far tornare la Turchia alla normalità, perché se davvero fosse così di domande ne sorgerebbero molte altre.

Immagine: A Istanbul si scende in piazza per reagire contro il massacro di Ankara, 11 ottobre 2015

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