Dall’apertura al personalismo, e poi?
Come è cambiata la Turchia di Erdogan

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Dinamica eppure conservatrice, sempre più rivolta ad Oriente e tuttavia ancora attratta dall’opzione europea, affascinata dal presidenzialismo ma non dal modello totalitario iraniano, la società turca – così come la sua classe dirigente – sfugge alle categorie di pensiero occidentali, per le quali rappresenta un rebus complesso. Reset-DoC ne ha discusso con Valeria Giannotta, docente di Relazioni internazionali presso la University of Turkish aeronautical association di Ankara, a margine del convegno “Scommessa Iran”, organizzato da Cipmo (Centro italiano per la pace in Medio Oriente) a Milano.

La strana coppia costituita da dinamismo economico e conservatorismo sociale ha in Turchia un unicum, almeno per quanto riguarda il Mediterraneo. Qual è il suo punto di vista di studiosa che abita e lavora nel Paese da 7 anni?

In realtà, il motore trainante dello sviluppo economico turco e del suo lancio politico su scala internazionale è stata proprio la borghesia anatolica, cioè una forza conservatrice, portavoce di valori tradizionali, che il Governo Erdogan ha sdoganato aprendole scenari internazionali. In Turchia, li chiamano le tigri anatoliche. E infatti quando è salito al potere, l’Akp si è fatto portatore della conservative democracy, la democrazia conservatrice, tradizionale per modello culturale e liberale in economia. Possiamo parlare di una sorta di Calvinismo islamista, con uno spirito mercantilista molto forte che ha spinto la crescita fino a picchi del +11% e che ora, nonostante si parli di crisi, ottiene comunque il +5%.

Si può parlare di islamizzazione della società oppure è l’osservatore esterno a non aver colto in passato ciò che covava sotto la cenere?

Non parlerei di islamizzazione della Turchia perché queste componenti islamiste conservatrici ci sono sempre state nel Paese, solo che erano emarginate e contenute da altre, western oriented. La forza di Recep Tayyep Erdogan è stata quella di interpretare il pensiero del turco anatolico medio, cioè di una popolazione che abita in massima parte lontano dai grandi centri e che è interessata a un miglioramento tangibile della vita di tutti i giorni.
Va detto comunque che l’Akp si è trasformato nel tempo: è nato come partito formato da componenti diverse, anche curde, liberali, moderate; oggi è più conservatore nazionalista.

Fino a due anni fa, dunque, si potrebbe dire che l’Akp si è mosso con successo sia sul piano interno sia su scala estera. Niente a che vedere con gli islamisti egiziani, per esempio.

Sì, appena ne hanno avuto la possibilità, le forze conservatrici liberali turche hanno sfruttato con spirito business oriented il momento. Poi, nell’ultimo biennio hanno dovuto affrontare questioni interne serie che li hanno distratti.
Considerando la politica estera, poi, fino alla Primavera araba i rapporti con i vicini, per primi i siriani, sono stati ottimi: con Damasco erano stati aboliti i visti e sembrava che l’amicizia non dovesse mai scricchiolare. Così anche con gli europei, i cui investimenti sono stati incoraggiati senza remore.
Non dimentichiamo che fino al 2000 il motto più diffuso era “Il migliore amico del turco è un turco” e che la Turchia era un Paese isolato. Erdogan ha scardinato questa logica.

Gli sviluppi interni da Lei citati, però, paiono aver fatto perdere lucidità e lungimiranza alla dirigenza turca. A Suo parere il disegno della conservative democracy turca c’è ancora o è andato perduto?

Direi che gli affari sono ancora ciò che conta di più, quindi il disegno d’insieme è ancora quello. Però ormai il potere è nelle mani di un single man: per esempio nella Banca centrale, dove le nuove nomine sono state a suo favore.
Poi, quanto accade nel vicinato si riflette anche all’interno, ovviamente.

L’uscita di scena del primo ministro Ahmet Davutoglu è stata una sorpresa per chi segue la scena politica turca?

Tutti questi punti di rottura con la presidenza dall’esterno non si vedevano. L’impressione è sempre stata che Erdogan fosse più uomo politico e Davutoglu uomo di Stato. Con quest’ultimo scelto dal primo e a lui fedele. Credo che probabilmente Davutoglu non si svegliasse al mattino con in mente il presidenzialismo, mentre per Erdogan fosse – e sia ancora – il chiodo fisso. Anche se de facto il presidenzialismo c’è già adesso. Non ci sono ora i numeri in Parlamento, ci saranno dopo le prossime elezioni anticipate, è probabile.

Il presidente sembra dunque incontestato e incontestabile. È così o ci sono voci diverse interne al partito che nutrono il dibattito politico?

A me vengono in mente Abdullah Gul e il vecchio establishment, poi fatti fuori.
Però tutti, negli statement ufficiali – Davutoglu stesso – limitano le polemiche e, in un modo o nell’altro, rinnovano la fiducia e la vicinanza a Erdogan. C’è la consapevolezza anche che il partito Akp è assai carismatico, è l’unico a riuscire ad aggregare componenti sociali molto diverse. Direi che si è trasformato da partito dominante a “predominante”, anche nella sfera sociale, nell’istruzione, nell’informazione.
I partiti dell’opposizione per contro non sanno cogliere né le opportunità – come le rivolte di piazza – né i cambiamenti nella società. Non mutano le leadership e neanche la retorica, rimaste agli anni ’70.
E talvolta fanno il gioco di Erdogan, come nel caso dell’immunità parlamentare levata ai deputati curdi. Quindi, c’è una grossa responsabilità anche loro.

Per l’Unione europea Erdogan, con tutta probabilità, sarà l’interlocutore unico ancora per molto tempo. Ma conviene ancora ai turchi pensare all’Europa oppure è un sogno che è evaporato nel tempo?

L’Europa serve in termini regionali perché – e parlo da politologa – è l’unica fonte di ispirazione democratica. La Turchia non ha una tradizione democratica alle spalle. Anche il progetto di modernizzazione di Ataturk aveva una visione democratica di lungo periodo e un’impostazione autoritaria nel breve.
Poi, l’Europa nei confronti della Turchia a mio avviso ha delle grosse responsabilità: quando Ankara stava facendo i compiti a casa, e li faceva bene, e l’obiettivo era la piena membership, c’è stato un cambio di rotta e le è stata offerta una partnership privilegiata.

Adesso che sotto questo grande ombrello di Legge sul terrorismo c’è un po’ di tutto, è il momento peggiore per trattare con la Turchia, che ha delle lacune a livello di diritti umani, di libertà d’espressione. E l’Europa, in questo frangente storico, è in ginocchio. Non credo, però, che sia giusto mescolare tutto assieme nel negoziato: i criteri che i turchi devono rispettare, una settantina di cui alcuni inaccettabili per Ankara, la concessione dei visti e poi ancora la questione degli immigrati e i 3 miliardi stanziati dall’Ue.

E le giovani generazioni? Che cosa pensano di Bruxelles?

Ne parlo a volte con i miei studenti: molti ritengono che l’Europa abbia sbattuto loro la porta in faccia più volte. E sostengono che economicamente la Turchia non necessiti dell’Europa. D’altronde il nuovo ministro dei rapporti con l’Unione europea, nel suo primo discorso ufficiale, ha detto che “quella europea non è la nostra unica opzione”. E’ probabile che farà un lavoro per così dire di “differenziazione”.

Il sogno europeo da che cosa è stato sostituito allora?

È insita nel turco l’idea che non farà mai parte dell’Unione europea. E allora, per citare alcuni partner, Ankara vuole diventare il primo partner ufficiale dell’Iran. E in qualche modo si riaggiusterà la relazione con la Russia.

Per la Turchia lo sdoganamento politico dell’Iran è una opportunità preziosa.

Va detto che la normalizzazione dei rapporti con Teheran è avvenuta proprio con Erdogan e l’Akp nel 2002, quando il partito è arrivato al potere. Si tratta di rapporti in stile Guerra fredda, io uso il termine “frienemy”, cioè un’amicizia inimicizia. I due Paesi si guardano con sospetto ma riescono anche a collaborare. La collaborazione è “compartimentata”, in piena logica da Guerra fredda. L’interscambio commerciale ha raggiunto i 10 miliardi dollari, con un import di 6 miliardi e l’export a 4. E poi, accordi commerciali in aumento. Il 20% del gas che arriva dall’Iran. Missione turca in Iran nell’ultimo mese e accordi quadro in vari settori, anche joint venture per investire insieme in Cina e Giappone.
Nell’ultimo anno i turisti iraniani sono aumentati del 7,5%, andando a sostituire quelli russi.
Però in Siria l’impronta ideologica è opposta e ciascuno contiene l’avanzata dell’altro. E questo secondo me non sfocerà in un confronto diretto, perché entrambi sanno benissimo che il costo di uno scontro è molto superiore rispetto a quello di mantenere lo scacchiere attuale.

Ma fra i giovani come è percepito l’Iran?

In modo abbastanza negativo. Fra le frange più secolarizzate ritorna spesso il timore di “finire come l’Iran”, cioè una Repubblica islamica. Ma anche il turco più conservatore non lo è mai stato al 100% e quindi questa possibilità io non la vedo: quando c’è stata l’opportunità di votare per il partito islamista vero e proprio, ad esempio, non lo hanno fatto. I turchi sono pragmatici.
Poi, appunto, la questione economica è un altro discorso.

Che cosa vuol dire fare ricerca accademica in Turchia, in questo momento? E insegnare all’università?

Si è inseriti in un contesto estremamente polarizzato, lo vedo negli interventi degli studenti. Quando si discute di attualità, ad esempio, e si commenta un fatto come le dimissioni del primo ministro, si nota subito la spaccatura fra i ragazzi: chi ce l’ha a morte con Erdogan e chi mostra immediatamente un’espressione di profondo disappunto alle critiche dei compagni. Le posizioni sono opposte, è difficile trovare un punto intermedio.
Per quanto riguarda il mio lavoro di docente e ricercatrice, io non ho avuto difficoltà. Con i ragazzi fornisco un’analisi più strutturata della realtà, non prendo una posizione perché non è questo il mio ruolo. Cerco anche di evidenziare che siamo in un momento di transizione, sospendo i giudizi.
Se invece parliamo della vita in Turchia adesso, ciò che è pesante è ricevere continuamente avvisi su quali zone del Paese evitare per motivi di sicurezza. Uno scenario che fino a poco tempo fa sembrava riguardare di più altri paesi del Medio oriente e che speriamo sia solo temporaneo.

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