LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e scrittore, in libreria con "Amarcord Fellini. L'alfabeto di Federico" (Il Mulino ed., 2020)

Al Pacino a Venezia, ovvero “Qualunque cosa io dica, so che Shakespeare l’ha già detta”

Non c’è grandezza senza sconfitta. Ovvero, solo i mediocri vincono sempre, almeno finché non scompaiono dalla scena. Al Pacino, ieri mattatore a Venezia con due film da protagonista (Manglehorn in concorso e The Humbling fuori competizione), sembra incarnare tale segreta assonanza fra il genio e l’amarezza del vivere fino quasi alla somatosi nelle rughe, al festival dei tic sul volto e all’andatura lenta che ne accrescono il fascino. Egli predilige da tempo, se non da sempre, i personaggi perdenti. Ne incarna alla perfezione la perenne danza sull’abisso, che non va guardato troppo a lungo – ammoniva Nietzsche – per evitare che sia l’abisso a  guardare dentro di te. Dopo gli anni verdi con la baldanza seppur malinconica dell’oriundo siciliano Alfredo James Pacino nella sua New York, oggi il Nostro al cinema si attarda lungo le linee d’ombra delle paure inconfessabili e del disadattamento sociale (astenersi attraversamenti conradiani). D’altronde, già quarant’anni fa in Lo spaventapasseri di Jerry Schatzberg, al fianco di Gene Hackman, Pacino interpretava un vagabondo nel tormentato viaggio verso casa per conoscere finalmente il suo bambino nato cinque anni prima. Un nostos che si risolve in follia quando la ex moglie gli mente: “il bambino è morto”. Ecco, sullo schermo Pacino è l’uomo delle passioni forti, tuttavia finite naufragate negate e perciò sublimate nel disincanto, senza il ghigno cinico di Jack Nicholson o la duttilità emotiva di Robert De Niro, altri due giganti più o meno coetanei.

Pacino ha 74 anni, due ex mogli e tre figli, nonché una serie di ex compagne celebri (Beverly D’Angelo, Jill Clayburgh, Marthe Keller, Diane Keaton). Da qualche tempo sta con l’attrice argentina Lucila Solá, un’esuberante bruna più giovane di quarant’anni, che l’ha accompagnato a Venezia anche stavolta come nel 2011 per il debutto del suo Wilde Salomé. Dal vivo, Al è molto meno imbolsito che nella finzione e qui alla Mostra ha sfoggiato una crinierina “alla spina” da vecchio Leone non rassegnato alla senettute – vedi giacca in pelle e occhiali specchiati à la page -, che sotto sotto anela ancora a tirare tardi fra bevute, battute e un ballo in pista. Sebbene al Lido avrebbe difficoltà come chiunque non voglia subire la martellante musica house che – chissà perché – è l’unico ritmo diffuso dagli sparuti locali isolani fino a notte inoltrata, con un che di inutilmente apocalittico nell’aria.

“Qualunque cosa io dica, so che Shakespeare l’ha già detta”, confessava Pacino in un memorabile Riccardo III cinematografico (Looking for Richard, 1996) e ha fatto sua quell’eredità scespiriana sotto forma di “posterità” in azione, un monumento in vita alla stregua di quello reclamato per sé da Carmelo Bene. I personaggi che sceglie ed adotta sono di solito dei sopravvissuti a se medesimi oppure ingaggiano una lotta feroce nello specchio di esistenze sofferte, assurde, marginali o criminali. Così è da Panico a Needle Park a Il padrino, da Serpico a Quel pomeriggio di un giorno da cani, a Cruising, Carlito’s Way, Heat-La sfida, Insomnia, per citare soltanto alcuni titoli e senza menzionare le serie Tv e il teatro in cui continua a misurarsi con inesausta passione. Una passione ribadita ieri a Venezia nelle due affollate conferenze stampa per i film della Mostra, una dopo l’altra, durante le quali non si è sottratto alle domande più personali.  “Pensavo di voler abbandonare la recitazione ancora questa mattina. Ma devo dire che non ho rimpianti. Nella mia vita ho avuto sicuramente dei problemi, ma sento che l’aereo della mia carriera non sta ancora atterrando”. E, a proposito di sconfitte, ecco una specie di  confessione sul mal di vivere: “Fortunatamente non posso dire di essere depresso o almeno non ne sono consapevole. Certo, la vita è quella che è. E ci sono cose che mi rendono triste, ma la depressione è un termine sinistro, non mi piace usarlo. Comunque non lo so davvero se lo sono o meno, ci devo riflettere su. Ho tre figli e loro sono stati una fonte di illuminazione per me”.

Invece certamente è depresso Simon Huxler, il leggendario attore teatrale cui Pacino dà corpo e anima in The Humbling di Barry Levinson, dall’omonimo romanzo di Philip Roth (L’umiliazione, Einaudi 2010). Una figura che ricorda il collega Michael Keaton in Birdman di Alejandro González Iñárritu, il film inaugurale della Mostra. Stesso fallimento di un ego smisurato ma ormai in esilio persino al centro del palcoscenico. Stessa tragicommedia dell’età che reclama la resa, quando il desiderio non ha smesso di ululare (tema rothiano per eccellenza, deriva e approdo del suo nichilismo). L’esito di The Humbling? Un memoir e un abbrivo al viale del tramonto anche grazie alla relazione con una giovane lesbica (Greta Gerwig), mentre prova a portare in scena Re Lear (“Qualunque cosa io dica, so che Shakespeare…”).

Più contenuto e sotto le righe, accordato sulle frequenze della “sottrazione” appresa all’Actors Studio sulla 44.ma strada (oggi ne è presidente), è il fabbro Angelo Manglehorn interpretato da Pacino nel film diretto da David Gordon Green. Manglehorn è ossessionato da un amore perduto tanto tempo prima, una certa Clare cui continua a scrivere lettere che tornano al mittente e della quale serba le fotografie in uno stanzino del suo negozio di ferramenta. E’ un frammento impazzito del discorso amoroso che appare più aguzzo del legame col figlio avuto da un’altra donna e dell’affetto per la nipotina. Ex allenatore di basket, ormai Manglehorn è in preda alla rabbia e al rimpianto. Un uomo “invisibile” cui soltanto un’altra passione (Holly Hunter) riuscirà a restituire un po’ di concretezza. “Questa casa puzza come una discarica”, gli dice il figlio manager. “E’ bello sentirtelo dire”, replica Pacino. E poco oltre aggiunge: “Se voglio parlare con uno stupido, mi basta mettermi davanti allo specchio”.

Così, d’improvviso, affiora il dubbio che il mito di Al Pacino sia “della stessa sostanza dei sogni” (La tempesta), cioè del sogno americano per come è ridotto oggi. Un eroe che non sa più volare, però del volo custodisce il ricordo e l’anelito alla maniera di Birdman. O un colonnello cieco alla guida di una Ferrari, come Pacino in Profumo di donna. Una potenza impotente, un enigma sulla scena – intimamente “politico” – che ipnotizza eppure è impossibile smettere di amare.

Articolo pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 31 agosto 2014

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