Populismo: epidemia da capire
Scenari alternativi, risposte nuove

Da Reset Dialogues on Civilizations

Gli scienziati politici hanno a lungo sostenuto che nel momento in cui un paese riesce a portare a termine una transizione democratica, creando istituzioni stabili e garantendo un certo livello di ricchezza, il rischio di una violenta reazione autoritaria sia piuttosto basso. L’assunzione implicita è la presenza di un percorso naturale e, se portato a termine, irreversibile composto dalle seguenti fasi: 1) dittatura, 2) dictablanda, 3) democradura [2], 4) transizione democrazia, 5) democrazia consolidata. Quest’assunzione è sembrata essere valida per diversi decenni, corroborata dall’impressionante ondata di democratizzazioni iniziata nel 1990. Nell’ultimo quarto di secolo, infatti, sia il numero che la qualità dei regimi democratici è aumentato costantemente, portando a quella che sembrava essere una marcia trionfale della democrazia.

Per la prima volta nel corso dell’ultimo quarto di secolo, i regimi democratici sembrano oggi aver smesso di consolidarsi e questa apparente inversione traspare attraverso le procedure della liturgia democratica, cioè le libere elezioni. Lo scoppio dell’infezione populista, all’interno della maggior parte delle democrazie occidentali, sfida l’idea che le democrazie, una volta consolidate, siano immuni dalla possibilità di sperimentare un’inversione non democratica. I successi elettorali dei partiti e dei leader populisti rappresentano una sfida per la pratica e la teoria democratica. Le ipotesi sul consolidamento democratico possono ancora considerarsi valide? E soprattutto, quali sono le cause dell’infezione populista e come può essere curata?

Per quanto riguarda la prima domanda, l’analisi dei dati del World Value Survey (1995-2014) realizzata da due giovani e ambiziosi studiosi, Foa e Mounk [3], fornisce alcuni dati interessanti e allo stesso tempo sconcertanti circa i sentimenti e le percezioni dei cittadini verso la democrazia. Lo studio mostra che in Nord America e in Europa occidentale i cittadini sono diventati sempre più critici verso la democrazia e che una percentuale sempre maggiore non considera più la democrazia come l’unica forma di governo legittima. Ma soprattutto, aumenta la quota di coloro che iniziano a guardare con favore alle alternative non democratiche.

Secondo lo studio, mentre le generazioni più anziane continuano a pensare che la democrazia sia essenziale, quelle più giovani sono diventate assai più indifferenti. In Europa, circa il 52% dei cittadini nati dal 1930 al 1939 ritiene che vivere in un paese democratico sia fondamentale, ma solo il 45% circa tra quelli nati dal 1980 al 1989 condivide questa opinione. Negli Stati Uniti, il divario intergenerazionale è ancora più accentuato, e il 72% dei cittadini nati dal 1930 al 1939 ritiene che la democrazia sia essenziale, mentre solo il 30% circa dei nati dal 1980 al 1989 ha mantenuto tale convinzione. Una simile evoluzione è visibile per quanto riguarda il sostegno a forme alternative di governo non democratico: sia negli Stati Uniti che in Europa la percentuale di cittadini che ritengono che essere governati dall’esercito sia un’alternativa “buona” o “molto buona” aumenta costantemente, soprattutto tra i cittadini giovani e ricchi. Uno sguardo più attento ai dati originali conferma che in tutti i paesi ci sono ancora ampie maggioranze a favore della democrazia. Ma mentre ci sono schiaccianti maggioranze democratiche, vi è anche una forte disaffezione per le istituzioni come i partiti politici, i parlamentari e i sindacati. I cittadini che vedono con favore l’eventuale avvento di un leader forte sono ancora una minoranza, ma i numeri sono molto più alti che in passato negli Stati Uniti e in Spagna, in Svezia e anche in Germania.

Gli stessi studiosi, in un articolo successivo [4] arrivano ad affermare che tutti questi dati potrebbero essere un segnale della fallacia delle assunzioni rispetto alla democrazia e che essi possono rappresentare persino un segnale di un deconsolidamento democratico all’interno delle democrazie occidentali. I sistemi liberali sono stabili se una grande maggioranza dei cittadini sostiene direttamente le istituzioni democratiche come unica forma legittima di governo, ma ciò sembra essere meno vero che in passato.

È possibile che questa disaffezione possa minare le basi dei diritti civili e delle istituzioni democratiche? Esiste un rischio che i nuovi leader eletti corrodano sostanzialmente le istituzioni liberali, come già avvenuto in Europa nel periodo tra le due guerre? Finora, ciò è avvenuto solo nelle democrazie deboli e relativamente recenti, come nei casi della Russia e della Turchia, dove i governi sono riusciti a reprimere e addirittura imprigionare avversari reali o potenziali, limitare la libertà di stampa, e sottomettere il potere giudiziario, senza perdere molto del loro sostegno popolare. Può qualcosa di simile accadere anche nelle democrazie consolidate? C’è la possibilità che nuovi leader, con un forte sostegno popolare, usino il loro potere per attaccare le infrastrutture liberali, rompendo la regola d’oro del trionfo democratico, e portino le democrazie consolidate verso forme alternative di governo autoritario?

Fino ad ora, i nuovi leader politici hanno mostrato un sentimento anti-establishment piuttosto che un sentimento anti-democratico. Questi nuovi leader politici sono riusciti ad acquisire consenso elettorale usando un linguaggio aggressivo, soprattutto denunciando le malefatte dei politici in carica, e spesso trovando dei capri espiatori nei gruppi sociali ed etnici più deboli e marginali, ma lo hanno fatto attraverso le istituzioni politiche democratiche. Laddove sono riusciti a guadagnare potere, i leader populisti lo hanno fatto attraverso le elezioni libere, ricorrenti e competitive, presentandosi come i veri e autentici rappresentanti della popolazione. Quindi, la possibilità che i segnali evidenziati da Foa e Mounk possano o meno essere considerati un fattore predittivo di una possibile reazione non democratica, è ben lungi dall’essere accertata.

Tuttavia, siamo di fronte a due possibili scenari alternativi, entrambi plausibili: in quello ottimista, le nuove forze politiche diventeranno addomesticate e dopo un po’ si abitueranno ad usare il linguaggio e le strategie parlamentari. Il loro linguaggio e le politiche miranti a sfruttare l’attenzione dei cittadini insoddisfatti matureranno, ed essi diventeranno nuovi contendenti nella consueta competizione elettorale. E’ quello che è successo in Italia con la Lega Nord e in Francia con il Front National. Ma nello scenario pessimistico, essi potrebbero utilizzare il loro sostegno popolare per ridurre le libertà e modificare le istituzioni che dovrebbero garantire i controlli e i contrappesi democratici.

I sentimenti populisti, più o meno dormienti, sono sempre stati presenti all’interno delle democrazie occidentali, tanto quanto in tutto il resto del mondo, tanto che si potrebbe arrivare a supporre che essi siano sentimenti profondi appartenenti alla stessa natura umana. Può la democrazia riuscire a domarli? Fino a pochi anni fa, tali sentimenti sembravano riguardare solo una minoranza dei cittadini, ma il fatto che i nuovi movimenti politici riescano ad aumentare i loro voti, spesso in maniera alquanto rapida, sta generando una minacciosa corsa al ribasso. In tutti i paesi, i partiti politici tradizionali mostrano una pericolosa propensione a cercare di contrastare i successi elettorali del populismo discutendo le loro stesse questioni e utilizzando lo stesso linguaggio e la stessa retorica. Si tratta di una sorta di infezione e solo pochi politici riescono a resistere alla tentazione di seguire il popolo nei suoi istinti peggiori e, allo stesso tempo, ad essere rieletti. Per questo motivo, se non adeguatamente curata, l’infezione potrebbe finire per danneggiare in modo permanente il sistema democratico stesso.

La domanda di fondo a cui dobbiamo rispondere è dunque: perché, negli ultimi anni, il consenso populista è cresciuta così tanto? E qual è la base del suo successo?

Per rispondere a questa domanda, è utile adottare una prospettiva storica. I partiti populisti sono cresciuti nella maggior parte delle democrazie occidentali solo dopo la fine della guerra fredda, e la maggior parte di essi nel corso degli ultimi vent’anni. Nonostante alcune eccezioni, la loro percentuale di voti è rimasta al di sotto del dieci per cento per diversi decenni. Guardando i dati elettorali (Figura 1), il quadro cambia radicalmente, e dal 2007 i partiti populisti cominciano a guadagnare terreno. Dal 2007, il supporto ai partiti populisti è cresciuto sia in termine di voti che in termine di seggi parlamentari.

Negli Stati Uniti, la campagna elettorale conclusasi lo scorso novembre 2016 ha dimostrato come due “outsiders”, Donald Trump e Bernie Sanders, hanno cercato di prendere d’assalto i due partiti politici tradizionali, quello Democratico e quello Repubblicano. E uno di loro è riuscito nell’impresa. In altri paesi con sistemi politici più pluralistici e polarizzati, come la Spagna, l’Italia, l’Austria, la Francia e la Grecia, la recrudescenza populista ha coinciso con l’ascesa di nuovi movimenti sociali progressisti. Tuttavia, anche in questi casi i partiti populisti sono riusciti ad ottenere un notevole consenso elettorale. In Italia, il Movimento 5 Stelle ha ottenuto il 25,6 per cento dei voti nel 2013, risultando il partito più votato in quella che era la sua prima competizione elettorale parlamentare. In Grecia, il consenso di Syriza è aumentato dal 4,6 per cento nelle elezioni del 2009 al 35,5 per cento in quelle del 2015. In Svezia, il Sverigedemokraterna (SD), un partito populista di destra, è passato dal 2.9 per cento nel 2006 al 12.9 per cento nel 2014.

L’evoluzione temporale del populismo (figura 1) sembra indicare che la variabile economica ha giocato un ruolo importante sia nell’affermazione, che nella crescita del consenso dei partiti populisti. Da un lato, l’affermazione della maggior parte dei partiti populisti nel 1990 ha coinciso con una stagnazione economica, molto accentuata anche se non prolungata nel tempo, iniziata nel 1992/1993. D’altra parte, la loro crescita ha coinciso con la prolungata crisi economica scoppiata nel 2008. In entrambi i casi, i paesi occidentali hanno sperimentato un calo consistente dei tassi di crescita e un’importante stagnazione economica (figura 2).

Figura 1: Percentuale di voti ai partiti populisti in alcune democrazie occidentali selezionate 

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Fonte: Elaborazione degli autori su dati Wolfram Nordsieck [5].Disponibile all’indirizzo:                < http://www.parties-and-elections.eu/ >.

Figura 2: Tasso di crescita annuo nelle democrazie occidentali 1990-2015
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Fonte: Elaborazione degli autori su dati World Bank national account data, e OECD National Account data files. Disponibile all’indirizzo: <http://data.worldbank.org/indicator/NY.GDP.MKTP.KD.ZG >.

La differenza delle due crisi nel fomentare il consenso verso i partiti populisti può essere spiegata dal diverso impatto in termini di conseguenze. Mentre nel primo caso, la crisi è durata soltanto un paio d’anni, dopo di che le economie dei paesi occidentali hanno iniziato a riprendersi, nel secondo caso, la crisi ha prodotto effetti più pesanti e prolungati. Negli ultimi anni, nella maggior parte delle democrazie occidentali si è verificato un marcato peggioramento dei principali indicatori macroeconomici: i tassi di crescita nazionali, crollati nel 2009, stanno ancora lottando per tornare ai livelli pre-crisi, la disuguaglianza del reddito è aumentata notevolmente, e la disoccupazione (in particolare la disoccupazione giovanile) e la povertà sono salite a livelli preoccupanti.

Questa situazione ha generato un malcontento tra i cittadini delle democrazie occidentali, che non sono state in grado di contrastare, in maniera tempestiva ed efficace, gli effetti negativi della crisi. Dal punto di vista politico, l’ultima crisi economica ha avuto la conseguenza negativa di delegittimare il sistema democratico. Dato che i sistemi liberali sono stabili se una grande maggioranza dei cittadini sostiene direttamente le istituzioni democratiche come unica forma legittima di governo, il fatto che molti vantaggi materiali di solito forniti dalle democrazie non siano stati elargiti ha avuto la conseguenza che molti cittadini, delusi da ciò che non è stato garantito dai partiti politici tradizionali, stanno ora sostenendo nuove forze, nella maggior parte dei casi populiste. E come già successo in Europa negli anni 1920 e 1930, la parola “democrazia” sta diventando per troppi cittadini una sorta di scatola vuota.

Le cause alla radice della crescita del populismo dovrebbero quindi essere ricercate nella crescente incapacità delle democrazie occidentali di rispondere alle preoccupazioni dei cittadini e di garantire loro elevati livelli di benessere, ed è necessario prendere atto del fatto che questa incapacità sta avendo la conseguenza non solo di ridurre i consensi per i partiti politici tradizionali, ma anche di provocare una delegittimazione delle istituzioni democratiche e del sistema democratico nel suo complesso.

Cosa si può fare per evitare altri contraccolpi populisti e, possibilmente, evitare qualsiasi contraccolpo non democratico? In altre parole, cosa si può fare per curare l’infezione populista prima che diventi una malattia incurabile? Dal momento che la diffusione dell’infezione è dovuto principalmente, da un lato, all’incapacità delle democrazie occidentali di rispondere alle crisi economiche e d’altra parte, alla conseguente diminuzione della loro legittimità di fronte ai loro cittadini, è necessario impiegare una duplice strategia.

Da un lato, le democrazie liberali devono cominciare a ripensare i loro sistemi economici e gli strumenti da utilizzare in caso di gravi crisi economiche, sia a livello nazionale che internazionale. Abbiamo bisogno di ripensare agli anni successivi alla grande crisi del 1929, quando le democrazie liberali sono riuscite a sopravvivere solo grazie all’introduzione di importanti piani per l’occupazione e di politiche di sostegno al reddito (come è successo con il New Deal negli Stati Uniti). Quando i paesi democratici non sono riusciti a farlo, il risultato è stato l’aumento dei partiti politici totalitari. Proteggere la democrazia oggi significa prima di tutto osare di più nella sfera economica, in termini di creazione di opportunità di lavoro per i giovani e di protezione sociale per i più deboli.

D’altra parte, i partiti tradizionali, così come le nuove forme di partecipazione politica democratica, dovrebbero impegnarsi per riaccendere nei cittadini l’interesse per la politica e per gli affari pubblici in generale, soprattutto tra le classi più giovani, in modo da superare l’attuale crisi di legittimità che affligge i sistemi democratici. Per fare ciò, le forze democratiche devono diventare più sensibili alle preoccupazioni e le aspirazioni dei cittadini, approfondendo la loro inclusione nei processi politici interni. Inoltre, le forze democratiche devono approfondire la loro collaborazione internazionale, spingendo per l’inclusione dei cittadini anche nei processi decisionali internazionali. In altre parole, tutte le forze politiche democratiche, nuove e tradizionali, devono lavorare sodo per includere i cittadini in tutte quelle decisioni che riguardano direttamente la loro vita, sia rispetto agli affari nazionali che internazionali.

Può una dose maggiore di democrazia essere la vera risposta all’infezione populista? Negli Stati Uniti, il Partito Democratico ha già imparato la dura lezione che il candidato migliore contro il populismo non è necessariamente quello più vicino all’establishment, e che proporre vecchie soluzioni per nuovi tipi di problemi può essere controproducente. Ora la sfida per i partigiani democratici è quella di essere in grado di fornire risposte nuove, credibili e alternative in contrasto con quelle offerte dalla retorica populista. Pochi leader, tra cui Benoît Hamon in Francia, Jeremy Corbyn nel Regno Unito e, prima di loro, Alexis Tsipras in Grecia, sembrano aver accettato la sfida di ripensare le procedure e i risultati della democrazia. Oggi, la fede nella democrazia potrebbe essere nelle loro mani, e nella loro capacità di eseguire questa funzione.

Note: 

[1] Questo articolo nasce da un dialogo al 21° Global Dynamics presso l’Università della California a Santa Barbara.

[2] I regimi “democradura” e “dictablanda” si riferiscono a quei regimi che vengono anche detti “regimi Ibridi”. Vedi: Morlino, L. (2009). Are there hybrid regimes? Or are they just an optical illusion? European Political Science Review, 1(02), 273-296.

[3] Roberto Stefan Foa e Yascha Mounk (2016). The democratic disconnect. Journal of Democracy,27(3), pp. 5-17.

[4] Juan J. Linz e Alfred Stepan (1996). Problems of Democratic Transition and Consolidation. Baltimore: Johns Hopkins University Press.

[5] La classificazione dei partiti populisti si basa principalmente su quella fornita da Wolfram Nordsieck, in base alla quale i partiti populisti fanno parte dello spettro politico della destra: “partiti populisti di destra sono quei partiti di protesta che fanno appello alle paure e alle frustrazioni dei cittadini. Sono apparsi nei primi anni 1970. Questi partiti combinano posizioni nazionaliste con una retorica anti-elitaria e una critica radicale delle istituzioni politiche. Essi di solito preferiscono leggi rigorose e politiche anti-immigrazione”. Tuttavia, la limitazione della definizione dei partiti populisti comprendente solo i partiti di destra risulta problematica dal momento che possiamo rintracciare partiti di centro o di centro-sinistra che impiegano la stessa retorica anti-establishment e anti-elitaria, come nel caso di Podemos in Spagna. Inoltre, possiamo trovare istanze populiste in cui la frattura sinistra/destra è meno marcata, come nel caso del Movimento 5 Stelle in Italia, che propone politiche sia di sinistra che di destra, incorniciate da una retorica anti-establishment. Abbiamo quindi deciso di lasciare da parte la classificazione di sinistra/destra, per semplificare la definizione di partiti populisti, considerando più rilevante la presenza di una forte componente antisistema e anti elitaria.

Daniele Archibugi: Consiglio Nazionale delle Ricerche, Roma, e Birkbeck College, Università di Londra
Marco Cellini: Università LUISS di Roma

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