Kurdistan siriano, il grande gioco
delle donne contro l’Isis

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Nel ‘grande gioco’ che sta lacerando il Medio Oriente, e nel continuo muoversi di equilibri diplomatici e di dispiegamento di forze in campo per cercare di tamponare l’avanzata dell’Isis, l’unica attuale certezza riguarda il ruolo che i curdi si sono progressivamente ritagliati da sé e su mandato dei principali Paesi europei e degli Stati Uniti.

Non solo i peshmerga, i combattenti curdi iracheni di cui si continua a parlare, e che hanno svolto un’azione piuttosto efficace nel contrastare la penetrazione dello Stato Islamico sin da inizio estate, ma anche i curdi siriani, attivi almeno dal 2012, e certamente meno visibili almeno dal punto di vista mediatico.

Il Kurdistan siriano è un territorio a maggioranza curda nel nord della Siria, conosciuto anche come Rojava, che è di fatto la parte occidentale di quella che sarebbe la nazione del Kurdistan. Con l’inizio della guerra civile siriana, un po’ come accaduto in Iraq dal 2003, i curdi hanno guadagnato sempre maggior spazio e autonomia, sebbene non ci sia un riconoscimento formale come avvenuto col Kurdistan iracheno, e dopo aver combattuto contro le forze di Assad si sono scontrati con gli islamisti per salvaguardare la propria area, in una zona di confine con l’Iraq piuttosto fragile e soggetta alle infiltrazioni dalla provincia di Al Anbar.

Oggi, sono diventati uno degli strumenti contro i fanatici dello Stato Islamico grazie all’azione dell’YPG, il Yekîneyên Parastina Gel (nome curdo per le Unità di Protezione del popolo), un esercito regolare composto da circa otto brigate presenti in tutta l’area che rappresentano il braccio armato del Comitato Supremo Curdo. L’YPG, nella sua declinazione femminile si chiama YPJ, Yekineyen Parastina Jin, l’Unità di protezione delle donne. Dal 2013, da quando è nata l’unità, sono loro le nuove “protettrici” del Rojava: kalashnikov in mano e tuta mimetica, contano circa il 35% dei combattenti del YPG. La loro immagine resta, però, piuttosto controversa perché fanno parte dell’ala armata del Comitato Supremo Curdo che mantiene rapporti anche con il PKK inserito nella lista nera del terrorismo di Usa e Ue. Ma la milizia ha sempre negato di avere relazioni ‘compromettenti’, o invise all’Occidente, continuando a combattere e a svolgere un ruolo che serve anche a quelle stesse potenze.

A parlare di loro è anche un breve documentario intitolato “Un giorno in Siria”, disponibile in rete, in cui le donne della brigata – madri, figlie, sorelle, ragazze poco più che adolescenti, laureate e non – spiegano il perché di una scelta che non ha a che fare solo col desiderio di combattere contro gli integralisti, ma anche con la necessità di affermare il proprio valore e la propria indipendenza rispetto agli uomini, dimostrando di essere altro da “buone mogli”, chiuse in casa.

La loro nasce, dunque, come doppia battaglia di libertà: la prima contro un’impostazione sociale maschilista e limitante; l’altra come lotta per la salvaguardia della propria nazione e contro tutte quelle ulteriori restrizioni imposte alle donne prima da Jabhat al Nusra e poi dall’Isis, di cui parlava anche Human Rights Watch in un rapporto del gennaio 2014.

Già alla fine dello scorso anno, infatti, rifugiate curde provenienti sia dall’Iraq sia dalla Siria avevano riferito all’organizzazione per i diritti umani che Jabhat al-Nusra e l’Isis, forzando ed estremizzando l’interpretazione della Sharia, avevano cominciato a costringere, con punizioni e minacce, le donne a indossare il velo o l’abaya, il tipico abito lungo fino ai piedi che copre interamente il corpo femminile, impedendo, in alcune zone, anche di uscire di casa, di andare a scuola o al lavoro. La tragica conseguenza, registrata in alcuni casi, è stata la morte, durante i combattimenti, per il timore di abbandonare la propria abitazione senza un guardiano, membro della famiglia.

La guerra che combattono, però, è anche contro il regime siriano per difendere la propria identità di popolo. In questo caso gli strumenti utilizzati non hanno nulla a che fare con le armi, ma sono l’insegnamento della lingua curda, bandita nelle scuole, fatto nei momenti di pausa dall’addestramento. Le soldatesse dell’YPJ sono donne in guerra che parlano di “umanesimo” e che si definiscono ‘forza di autodifesa’, ma imbracciano fucili come gli uomini e come loro hanno avuto le loro cadute, le loro martiri.

Fra le combattenti del Kurdistan siriano ci sono, poi, anche le madri di Kobanê, anch’esse unite in un gruppo chiamato Şehîd Jîn’, fondato da Şemsa Mihemed, con lo scopo di proteggere la loro regione e una zona strategica come il distretto di Kobanê.

Kobanê è una delle città simbolo del Rojava. Parte del governatorato di Aleppo, in arabo ‘Ayn al-Arab, è dal luglio 2012 sotto il controllo curdo, riconquistato a Damasco. Una conquista che hanno dovuto difendere con i denti lo scorso luglio, sotto l’assedio dei miliziani dell’Isis.

Sull’altro fronte, quello iracheno, sono altre curde a combattere una battaglia simile: sono le soldatesse guidate dal colonnello Nahida Ahmed Rashid, la donna con il più alto grado militare nei peshmerga. Nahida Ahmed Rashid è a capo del 2° battaglione composto da 550 combattenti, fra madri, figli, sorelle; per loro il campo di battaglia non è un terreno sconosciuto visto che sono attive sin dal 1996 e, come tutti i curdi, sono abituate a combattere. Prima Saddam, ora l’Isis, la posta in gioco per i curdi è comunque alta.

Senza dimenticare, poi, sullo stesso lato della barricata, ma per ragioni diverse, le miliziane sciite che hanno risposto alla chiamata del grande ayatollah Ali Sistani: armi e velo, pronte al martirio.

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