Kobane, tra profughi e inerzia politica
ecco chi combatte e (ancora) resiste

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Suruc, Turchia – A Kobane si combattono tante battaglie: quella contro l’avanzata dello Stato Islamico che minaccia l’autonomia dei cantoni popolari di Rojava; quella contro la debolezza dell’intervento della coalizione internazionale; quella contro il palese ostruzionismo da parte delle autorità turche.

Tante battaglie combattute dalla gente, in Siria e in Turchia. In pochi chilometri si sta concentrando da un mese e mezzo la resistenza della popolazione di Kobane e il sostegno delle vicine comunità curde turche di Suruc, Urfa, Diyarbakir. La gente di Kobane la incontriamo al confine turco-siriano: da settimane, da quando l’assedio è cominciato, si ritrovano a poche centinaia di metri dalla frontiera per osservare gli scontri tra islamisti e Ypg e per monitorare le attività dell’esercito turco.

Donne, uomini, bambini. In piedi sui tetti o seduti a terra su pietre e piccoli sgabelli di plastica. In mano binocoli per vedere Kobane e la vicina postazione dell’esercito turco. “Veniamo qui ogni giorno per monitorare il passaggio di islamisti dalla Turchia alla Siria – ci spiega una parlamentare del Bdp, Ayla Akat Ata – Vanno e vengono, li vediamo, li fotografiamo. L’esercito non li ferma, li aiuta a passare mentre a noi negano qualsiasi forma di sostegno. Quando ci muoviamo da un villaggio all’altro, la polizia ci ferma sempre, ci controlla. Hanno evacuato i villaggi più vicini alla frontiera per impedirci di entrare”.

“Lo Stato turco? Non esiste qui. L’unico obiettivo di Ankara è la creazione di una zona cuscinetto per costringerci a spostarci e per isolare Kobane. Insomma, lo Stato c’è, ma si fa vedere solo per reprimere le proteste della popolazione”. Come quella di giovedì scorso: centinaia di persone hanno formato una catena umana e cercato di avvicinarsi alla frontiera, accompagnati dalla musica di un gruppo di artisti. Alcuni di loro hanno provato a entrare dentro Kobane per portare aiuti. La risposta dell’esercito è stata immediata: spari contro la gente. Una giovane attivista del Pkk di 28 anni, Kader Ortakaya, è stata colpita alla testa da una pallottola. È morta in ospedale.

“Il governo turco ha osato negare l’accaduto – ci racconta un’altra attivista, Burcu Çiçek Sahinli – Il governatorato di Suruc ha detto che al confine non era successo niente. Eppure era presente anche un parlamentare dell’Hdp, Ibrahim Ayhan. Per questo l’Hdp ha presentato un’interrogazione parlamentare e chiesto l’apertura di un’inchiesta. Si sono occupati anche dei funerali e della cerimonia di commemorazione”.

Se lo Stato non c’è sono i partiti curdi di opposizione e i Comuni del Kurdistan turco a fornire i servizi che Ankara non dà. Sono oltre 180mila i rifugiati siriani che all’inizio dell’assedio di Kobane sono entrati in Turchia, prima che Ankara chiudesse le frontiere. Di questi 120mila sono ospitati nella grande città curda di Urfa, gli altri si dividono tra le comunità più piccole. A Suruc il Comune ha aperto due campi profughi, ribattezzati “Kobane” e “Rojava”. Da solo fornisce i servizi indispensabili: alloggio, vitto, bagni e docce, coperte e vestiti.

Per le strette vie del campo di Kobane, i profughi ti accolgono, felici che si parli di loro. Chiedono foto, domandano interviste: “Le condizioni non sono male, non ci lamentiamo – ci dice un insegnante di Kobane, tra i responsabili della scuola appena aperta nel campo – Il problema è l’inverno in arrivo. Il Comune sta facendo un grande lavoro, ma non ha sostegno né dall’Onu né dal governo turco”.

Tutti celebrano i combattenti rimasti a Kobane, a lottare per l’esperimento politico in atto da due anni. E accusano Ankara di reprimere la resistenza per impedire che un giorno il progetto dei cantoni autonomi e popolari si allarghi alle comunità curde in Turchia. “A Rojava si è messa in pratica l’ideologia politica del Pkk – aggiunge la parlamentare Akat Ata – Il popolo governa se stesso secondo un modello di democrazia diretta, multietnica, di uguaglianza di genere e di rispetto per l’ambiente. Ecco perché spaventa la Turchia, che in questo mese e mezzo ha soltanto permesso il passaggio di 150 peshmerga”.

“Il ruolo dei peshmerga a Kobane non porterà in ogni caso ad un’unità su basi politiche – conclude. Le ideologie di Rojava e di Irbil sono agli antipodi. Ma in questo momento è importante che prendano parte ai combattimenti. Anche le Ypg di Kobane inviarono uomini la scorsa estate quando l’Isis minacciava il Kurdistan iracheno. Ma non si andrà oltre questo perché il presidente del Kurdistan in Iraq, Barzani, non intende fare pressioni sull’alleato turco. Eppure è quello che servirebbe: pressioni perché Ankara apra un corridoio umanitario verso Rojava”.

Che continua a resistere da sola. I profughi al campo lo ripetono ossessivamente: Kobane, una piccola città curda, non cade, combatte da un mese e mezzo, mentre comunità come Raqqa in Siria o Mosul in Iraq sono finite in mano islamista in 24 ore. È forse questa la ragione dei sorrisi ottimisti delle donne e degli uomini seduti fuori dalle tende del campo: Kobane è forte.

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