Erdogan Premier da dieci anni e la Turchia continua a crescere

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Il 14 marzo Recep Tayyip Erdogan taglia il traguardo dei dieci anni di premierato. L’avrebbe raggiunto a novembre, se non fosse che, nel momento in cui i turchi assegnarono il compito di governare all’Akp – correva il novembre 2002 – il nostro stava ancora scontando la condanna all’interdizione alle cariche pubbliche scattata a causa dell’ormai celebre discorso del 1997. «Le moschee sono le nostre caserme, i minareti le nostre baionette, le cupole i nostri elmi e i credenti i nostri soldati», disse Erdogan, all’epoca sindaco di Istanbul, protestando contro la decisione presa pochi mesi prima dai militari di dichiarare fuorilegge il Partito del benessere, a cui l’allora primo cittadino della metropoli turca era affiliato.

La chiusura del Partito del benessere e la condanna di Erdogan furono gli eventi salienti del cosiddetto “golpe post-moderno” con cui la casta militare, guardiana dell’ideologia laicista-repubblicana, intervenne ancora una volta a difesa dell’impianto politico-culturale impresso negli anni ’20 da Mustafa Kemal Ataturk. L’agenda politica del Partito del benessere, che nel ‘96 espresse il primo capo di governo islamico della storia turca, Necmettin Erbakan, fu bollata islamista dai militari e dunque ripudiata.

Sono passati diversi anni da quei fatti e dieci dall’inaugurazione del premierato di Erdogan, giunto al termine dell’interdizione e a quattro mesi delle elezioni generali del novembre 2002, vinta dall’Akp con il 37% dei voti (fu l’attuale presidente Abdullah Gul a guidare il governo nella primissima fase). L’istantanea sulla Turchia ci dice che oggi i rapporti di forza si sono rovesciati. I militari non hanno più il potere di una volta, né la forza di sfrattare Erdogan e l’Akp dal palazzo. Nell’arena politica turca l’Islam è predominante, mentre il kemalismo è in declino. Tuttavia Erdogan, come superficialmente dice qualcuno, non ha in mente l’islamizzazione del paese. Il suo obiettivo è trovare un modus vivendi tra Islam e democrazia, senza snaturare l’assetto repubblicano. Ci sta riuscendo? C’è chi dice sì, chi no. Il processo è ancora in corso e l’esito dipende da tanti fattori.

Ciò che è certo è che in dieci anni l’Akp – nato sulle ceneri del Partito del benessere con l’idea di farla finita con la verve antagonista – ha accresciuto il proprio consenso (qualcosa vorrà dire). Nel 2007 l’Akp ha ottenuto il 46%, mentre nel 2011 ha sfiorato il 50%.

È impossibile leggere la stagione dell’Akp senza l’analisi dell’economia. C’è infatti correlazione di diretta proporzionalità tra la curva del consenso di Erdogan e quella della crescita. Quando l’Akp salì al potere la Turchia era in condizioni pietose. Nel 2000-2001 ci fu una crisi economica durissima, che toccò il suo apice nel cosiddetto “mercoledì nero”, il 19 febbraio 2001: crollò la borsa, la lira turca si deprezzò spaventosamente e nelle settimane successive la gente ritirò i risparmi, causando enormi problemi di liquidità al settore bancario.

Quella pagina è stata rimossa. Il confronto tra i dati in tempo di crisi e quelli attuali è impietoso. Dal 2002 al 2007 la repubblica turca – attualmente la 17esima economia al mondo – ha conosciuto la fase di espansione ininterrotta più lunga della sua storia. Il Pil è cresciuto a una media del 6-7%. L’esplosione della crisi finanziaria ha causato una frenata nel 2008 e nel 2009. Poi è ripartita la crescita: +9,2% nel 2010 e +8,5% nel 2011. Adesso l’avanzata è più lenta, ma la ricchezza continua a registrare incrementi. Quella individuale, da quando Erdogan è primo ministro, è variata da 3500 a 10500 dollari.

Il Pil non è l’unico indicatore della marcia turca. Il deficit è sceso dal 15% del 2002 al 3,5% del 2010. Il debito pubblico s’è ridotto dal 77% (2001) al 40%. L’inflazione, schizzata alle stelle nel 2000-2001, è ora sotto controllo (6% circa).

Questi risultati sono il frutto delle politiche riformiste promosse dall’Akp. Liberalizzazioni, privatizzazioni, creazione di un ambiente favorevole per gli investimenti diretti dall’estero, sostegno alle medie imprese, riforma della disciplina fiscale della pubblica amministrazione e del settore privato. Il resto è venuto da sé.

Il boom economico ha immesso dosi di consenso nel serbatoio dell’Akp, ampliandone il tradizionale bacino, rappresentato dalle classi meno abbienti e dalla popolazione rurale. La nascente classe media urbana e l’imprenditoria delle città anatoliche, in grande sviluppo, sono diventati gli altri segmenti del blocco Akp. Un peso molto importante, almeno nel secondo caso, l’ha giocato il verbo di Fethullah Gulen. Predicatore e pensatore, da tempo residente negli Stati Uniti, Gulen è l’interprete di un modo di pensare l’Islam che accoppia la fede e gli affari, la devozione e la modernità, la coesione socio-religiosa, l’educazione e l’etica del lavoro. Una sorta di calvinismo musulmano. Il suo movimento, il gulenismo, è composto da una rete di associazioni che offrono tra le altre cose sostegno a questa nuova classe imprenditoriale, fatta di gente pia ma aperta al mondo e affamata di futuro, aiutandola a trovare nuovi sbocchi commerciali. Erdogan e l’Akp hanno sostenuto questa vocazione, appoggiando la voglia delle aziende dell’Anatolia a espandersi e a dare lavoro, a esplorare nuovi mercati e sentirsi globali.

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