Dal Pkk a Israele, tutte le paci della Turchia di Erdogan

Da Reset-Dialogues on Civilizations

«Zero problemi con i vicini». È tornato d’attualità lo slogan della politica estera turca inventato dal suo ministro degli esteri, Ahmet Davutoglu, dopo che Ankara è riuscita nel giro di poche settimane a siglare due paci – a loro modo – storiche. La prima, quella con il movimento indipendentista curdo, il Pkk. La seconda, con l’alleato di sempre nella regione mediorientale, Israele: uno stato con il quale la Turchia aveva rotto dopo l’incidente della Mavi Marmara, nel 2010, in cui furono uccisi dalla marina israeliana otto cittadini turchi e un americano.

Torna in auge, dunque, la politica di buon vicinato: dopo che il medioriente delle rivoluzione arabe era esploso improvvisamente, cogliendo di sorpresa prima di tutti la Turchia, che puntava su una politica di pacificazione regionale basata sul presupposto che i governi che erano al comando sarebbero rimasti saldamente al potere. Così non è stato. E non era facile prevederlo.

Certo, sono due paci diverse, quelle siglate da Ankara. Ma il sogno di un nuovo Medio Oriente si può accendere. La tregua con il Partito dei lavoratori curdo (Pkk) è una pacificazione interna, che riguarda il complesso rapporto della Repubblica turca con la sua minoranza più numerosa, quella dei curdi appunto, che sono quasi quindici milioni di persone. È arrivata con uno storico messaggio da parte del leader del partito, Abdullah Ocalan, chiuso nella prigione di Imrali, recapitato alla folla di Diyarbakir nel giorno del Nevruz, il capodanno curdo. Non a caso, il momento simbolico di un nuovo inizio, la speranza di un percorso inedito. Ocalan ha detto ai suoi uomini di farla finita con la lotta armata, e che la battaglia da condurre è ormai tutta politica, compiendo un passo decisivo sulla via della pacificazione di un conflitto che ha fatto più di quarantamila morti da quando è iniziato, nel 1984.

Ankara in questi giorni sta cercando di mettere a punto, materialmente, gli strumenti per rendere effettiva questa dichiarazione: consentire il ritiro dei guerriglieri, che devono cedere le armi. E poi avviare nel Paese un processo di pacificazione politica e sociale, decostruendo i paradigmi culturali che stanno alla base di una idea di nazionalità turca che esclude le diversità e le minoranze. Un’operazione difficile. Che il governo guidato dal partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) pensa di affidare a una “commissione di saggi” che dovrà spiegare al Paese la decisione, formare una commissione parlamentare che guidi il processo di pacificazione nei dettagli legislativi e politici, rimuovere tutti gli ostacoli logistici e le complicazioni tecniche per il ritiro dei guerriglieri, trattando anche con il partito filo-curdo per la Pace e la democrazia (Bdp). Non sembrano esserci grandi ostacoli al compimento di questi passaggi, ma la cautela è d’obbligo: se tutto andrà bene, il ritiro dovrebbe cominciare tra pochi giorni dalle regioni di Tokat e Dersim e terminare entro la fine dell’estate. I ribelli – da 2500 a 3000 – si recheranno nel nord Iraq, zona curda, e saranno presi sotto la responsabilità  delle forze del leader iracheno dei curdi, Massoud Barzani.

Quanto all’altra pace, quella con Israele, la sua importanza può essere valutata dal disappunto con cui è stata accolta, sabato scorso, dal presidente siriano Bashar Al Assad: «È un accordo contro di me». La guerra civile che sta martoriando Damasco è in effetti una delle preoccupazioni che hanno spinto Ankara e Tel Aviv a riavvicinarsi. Comune è l’interesse a evitare il proliferare di armi pesanti nel conflitto: armi che potrebbero ritorcersi contro Israele per via di qualche gruppo islamista radicale come Hezbollah, oppure contro Ankara per via di organizzazioni curde che non accettano il cessate il fuoco stabilito da Ocalan, come il Partito dell’Unione democratica.  La cooperazione delle intelligence tra Turchia e Israele è in questo momento fondamentale anche per un altro motivo: monitorare gli armamenti chimici siriani.

Ma è evidente che il riavvicinamenti turco-israeliano – reso possibile dall’impegno del presidente statunitense Barack Obama  – ha delle ripercussioni molto più ampie. Esso è stato accolto con grande sollievo nel quartier generale della Nato, a Bruxelles. Perché Israele, sebbene sia stata inclusa dieci anni fa nel gruppo Atlantico per il dialogo mediterraneo, è stata esclusa – sotto pressione della Turchia – dalle esercitazioni congiunte della stessa organizzazione e da ogni workshop o seminario tenutosi ad Ankara. Lo scorso anno la Turchia è anche arrivata a bloccare la partecipazione di Israele al summit della Nato a Chicago.

Il riavvicinamento però consentirà alla Nato di riprendere la normale cooperazione con Israele e la Turchia, nel momento in cui la guerra civile in Siria peggiora e la crisi nucleare in Iran genera molta preoccupazione a Washington. Non meno importante sarà la ripresa della cooperazione militare tra Turchia e Israele, un caposaldo del rapporto bilaterale tra i due stati, rimasto solidissimo fino appunto fino a maggio del 2010.

Infine, le scuse chieste da Israele alla Turchia – che sono state, politicamente, una vittoria del primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan – saranno in grado di accreditare nuovamente la Turchia come mediatrice del conflitto israelo-palestinese. La Turchia islamica moderata di Erdogan, infatti, continua ad avere ottime relazioni con Hamas. E Ankara sarà così capace di nuovo di parlare con tutti e due i contendenti in conflitto, sia i palestinesi sia gli israeliani, condizioni senza la quale nessuna posizione di mediazione è possibile. Ma è proprio al ruolo di mediatore principe del medioriente che Ankara aspira per pacificare la regione, cercando di realizzare il progetto firmato da Davutoglu. È per questo che la pace con il Pkk e Israele sono due passi avanti verso la meta, «zero problemi con i vicini». Ma anche di più: un nuovo medioriente.

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Nella foto: Militante del Pkk

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