Tra dissenso e contraddizioni,
quell’Arabia armata nel ciclone

Da Reset-Dialogues on Civilizations

“Sempre rimane il dubbio: questa guerra in Siria è davvero una guerra per risolvere problemi o è una guerra commerciale per vendere queste armi, cioè per incrementarne il commercio illegale? Diciamo No al commercio e alla proliferazione delle armi. Preghiamo perché cessi subito la violenza e la devastazione in Siria e si lavori con rinnovato impegno per una giusta soluzione del conflitto fratricida”.

È una vecchia, consumata ma non per questa errata, chiave di lettura che viene, per convenienza, diciamo, sempre accantonata o aggirata. Francesco, papa Bergoglio, ritorna spesso su questo tema che riguarda molto, in un momento come questo, il Medio Oriente. Il pontefice si concentra sulla sua critica morale del capitalismo e, forse per non andare a uno scontro con le nazioni acquirenti dove altre sono le religioni dominanti, evita di affrontare uno dei veri nodi del caos dilagante in quella grande regione dove nacquero le tre religioni monoteistiche.

“È grave – ha spiegato Bergoglio – che alcuni potenti guadagnino la vita con la fabbrica delle armi. È l’industria della morte, e si guadagna perché vendono le armi ai paesi che sono in guerra tra loro”. Armi, possiamo aggiungere, che non soltanto vengono utilizzate in conflitti tra i paesi acquirenti e i loro nemici ma che poi vengono regalate o per altri motivi finiscono in mano ai gruppi estremisti come Al Qaeda e Isis. Armi, strumenti di morte e di potere in conflitti manovrate in nome della religione.

Non c’è bisogno di guardare lontano per comprendere la portata del commercio e delle sue conseguenze. Emerge dal rapporto della Rete italiana per il disarmo, presentato il 9 luglio 2015 nella sala stampa della Camera, che negli ultimi 25 anni l’Italia ha autorizzato esportazioni di armi per un valore di 54 miliardi di euro. Se, tra i singoli paesi destinatari di armamenti italiani, ai primi posti figurano gli Stati Uniti (4,5 miliardi di euro) e il Regno Unito (4 miliardi), alleati dell’Italia, il rapporto mette in evidenza che le armi prodotte nel nostro paese sono state vendute anche a nazioni in conflitto come India (1,6 miliardi) e Pakistan (1,2) e alle forze armate di regimi autoritari come l’Arabia Saudita (3,9 miliardi), gli Emirati Arabi Uniti (3,1), la Turchia (2,6). E anche Siria, Kazakistan e Turkmenistan.

La legge 185 prevede, tra l’altro, il divieto di esportazione verso paesi in stato di conflitto armato o paesi responsabili di accertate gravi violazioni delle Convenzioni sui diritti umani. Oggi Riyad rappresenta il principale cliente della nostra industria militare, con quasi 300 milioni di euro di esportazioni autorizzate nel 2013, corrispondente al 14% del totale. A livello mondiale , l’Arabia Saudita è diventata il maggiore importatore di armi e sistemi di difesa superando l’India che deteneva il primato. Con gli Emirati Arabi Uniti ben 6.4 miliardi di dollari nel 2014, ossia più di quanto non abbiano speso insieme tutti i paesi dell’Europa occidentale.

Bergoglio è partito dalla Siria. Con una marcia a ritroso, però, torniamo proprio all’Arabia Saudita, uno dei paesi (forse il principale) responsabili della destabilizzazione, non soltanto mediorientale, in atto. Il Regno è in crisi. E nella difesa del suo essere, a dir poco anacronistico, sta devastando la regione in nome della religione. Robert E. Hunter è un’analista americano con un curriculum insospettabile. Dal 1993 al 1998 è stato ambasciatore di Washington presso la Nato. Con il presidente Carter ha avuto vari ruoli nel Consiglio di sicurezza nazionale. Più di recente è stato consigliere senior alla Rand Corporation. Scrive: “Senza il wahabismo sponsorizzato e finanziato dall’Arabia Saudita in Medio Oriente, Africa settentrionale e Asia sud-orientale, non ci sarebbe lo Stato Islamico (Isis) e probabilmente nemmeno i Taliban o Al Qaeda”. E accusa Washington: “L’incriminazione più valida della politica Usa nella regione è il suo fallimento – o non disponibilità – a confrontare il governo dell’Arabia Saudita su questa vicenda e di chiedere con forza il blocco di tutto il sostegno che emana dal Regno per questa, la più malvagia e virulenta minaccia all’intera regione”.

Hunter sostiene, non senza ragione, che gli Stati arabi sunniti sono “molto più potenti militarmente dell’Iran e lo saranno anche nel futuro prevedibile. La sfida iraniana a questi Stati, dice, arriva soprattutto non da termini militari ma dall’economia, dalla cultura e dal quasi totale fallimento degli Stati sunniti del Golfo di avviarsi sulla strada della modernizzazione sociale o di governo. In contrasto, l’Iran, nonostante i mullah, è più avanzata di oltre una generazione”.

L’Arabia Saudita è oggi sotto accusa per la questione dei diritti umani. Almeno cento decapitazioni nell’ultimo anno. Punizioni corporali per i contestatori, come il blogger Raif Badawi, reo agli occhi della giustizia saudita di aver criticato il ruolo del Regno nella diffusione del Wahabismo più estremo che consente, tra l’altro, le punizioni adottate dai regni. Sono barbarie, indubbiamente, che vanno condannate come si condannano le esecuzioni capitali negli Stati Uniti e, meno, le condizioni spesso disumane delle carceri americane. Badawi ha appena vinto il Premio Sacharov istituito dal Parlamento Europeo per la libertà di pensiero ma si trova ancora nelle prigioni del Regno, nonostante l’accorato appello del Presidente del Parlamento di Strasburgo Martin Schultz.

Fissare l’attenzione sull’aspetto dei diritti umani, però, consente ai paesi alleati dell’Arabia Saudita di non approfondire il ruolo della Casa di Saud, direttamente o indirettamente, nella diffusione del Wahabismo con tutte le conseguenze che ne sono derivate. Nel 2015, il Parlamento Europeo ha adottato tre risoluzioni critiche dell’Arabia saudita. Una di queste per il bombardamento indiscriminato dello Yemen. Riyad respinge le accuse come “interferenze” nelle questioni interne del paese. Con i miliardi di interscambio e la delicata posizione geo-strategica del Regno, nessuno sembra disposto a spingersi oltre.

E qui possiamo ritornare alla Siria che giustamente preoccupa Bergoglio. Il Regno saudita fu uno dei primi e il massimo tra i sostenitori della necessità di rimuovere Bashar Assad. Una crociata, la sua, in funzione anti-Iran e anti-sciita e soprattutto come parte integrale della sua politica di diffusione del Wahabismo. Il governo, scrive Eldar Mamedov, capo della delegazione interparlamentare europea per i rapporti con l’Iran, ha “investito pesantemente nel far crescere un’opposizione jihadista” al dittatore. “L’esempio più ovvio è l’Esercito dell’Islam (Jaysh al-Islam) guidata da Zahran Alloush”. Mentre il Regno finanziava questi gruppi di jihadisti, il vicino Qatar offriva petrodollari e armi ai Fratelli musulmani aumentando il caos in Siria come nel resto della regione. “Non ci sono cifre esatte ma si pensa che siano stati investiti più di 100 miliardi di dollari nella propagazione del Wahabismo”, scrive Yousaf Butt del British American Security Council e direttore del Cultural Intelligence Institute di Washington. “La cifra vera potrebbe essere anche il doppio. Per un paragone, i sovietici spesero circa 7 miliardi di dollari (altri tempi, altro valore della valuta: ndr) per diffondere il comunismo in giro per il mondo nei 70 anni dal 1921 e il 1991”.

Butt definisce l’Islam dei sauditi “teo-fascista”. E cita un cablo diffuso da Wikileaks in cui l’allora Segretaria di Stato Hillary Clinton afferma: “Donatori in Arabia Saudita costituiscono la fonte più significativa di finanziamento dei gruppi terroristici sunniti in tutto il mondo”.

“Si deve fare molto di più dato che l’Arabia Saudita resta una base di supporto finanziario per al-Qaeda, i Talebani, LeT e altri gruppi terroristici”. Non sono necessariamente finanziamenti diretti. Società di comodo e “privati cittadini” legati alla Casa di Saud erano, e sono ancora, coinvolto nella vicenda.

Appena un anno fa, il Vicepresidente americano Biden rincarò la dose. Parlando al Kennedy School of Government di Harvard, disse: “I nostri alleati nella regione erano il nostro maggiore problema in Siria. I turchi erano grandi amici e i sauditi, gli Emirati, etc. Cosa facevano? Fornirono centinaia di milioni di dollari e decine di tonnellate di armi a chiunque combatteva contro Assad…solo che quelli che venivano finanziati erano al-Nusra e Al-Qaeda e fazioni estremiste dei Jihadisti che giungevano da altre parti del mondo”.

Nell’insistere per la de-classificazione del rapporto della Commissione congressuale sulle Torri Gemelle e gli altri attentati del 9/11, l’ex senatore Bob Graham suggerisce che 28 pagine sono nascoste perché “puntano in direzione dell’Arabia Saudita come principale finanziatore” dei terroristi.

Yousaf Butt afferma che nonostante il curriculum wahabita sia stato modificato dopo le Torri Gemelle, “resta retrogrado e intollerante”. Secondo Freedom House “continua a propagare un’ideologia di odio nei confronti del ‘non-credente’, che comprende cristiani, ebrei, sciiti, sufi, musulmani sunniti e tutti coloro che non seguono la dottrina wahabita compresi indù, atei e altri”. Storicamente le madrasse (scuole islamiche) estremiste proliferarono grazie anche agli Stati Uniti interessato a servirsi dei jiahdisti contro l’Unione sovietica in Afghanistan.

Pochi mesi fa, il governo saudita ha elevato il sostegno a Isis a reato. Le troppe ambiguità del Regno e di altri paesi del Golfo, però, hanno creato una situazione sempre più difficile da mettere sotto controllo. L’Isis ha trasformato la sua piattaforma – ritorno al Califfato in funzione anti-sciita – per rivendicare l’abbattimento delle frontiere uscite dal colonialismo europeo. Anche se si tratta, probabilmente, di uno slogan attorno al quale raccogliere l’insoddisfazione di molti arabi soprattutto giovani, il progetto che mette nel mirino l’Arabia Saudita e gli altri mini-Stati sunniti del Golfo. Oltre a Iraq e Siria. E allargandosi a Ovest, include la mezzaluna nordafricana dove in una specie di franchising, Isis raccoglie gruppi di jihahdisti sparsi, armati fino ai denti, e pronti (come in Libia) a sfruttare e/o partecipare alla destabilizzazione in atto.

L’insicurezza di fondo della Casa di Saud spiega la sua duplicità in politica estera. Grazie ai petrodollari ha potuto finanziare sia governi e movimenti amici, sia Stati e soprattutto movimenti e organizzazioni ostili per garantirsi un certo livello di immunità. Ai jihadisti che contrastano il Regno offre soldi e armi indirizzando le loro attenzioni altrove. Un gioco pericoloso, come si sta vedendo con l’Isis. E, a dir poco complicato, come si è visto con i Fratelli musulmani, espressione forte dell’Islam politico.

Nel corso dell’ultimo anno e mezzo, l’Arabia saudita è tornata ad accogliere rappresentanti dei movimenti affiliati alla Fratellanza musulmana. Eppure meno di quindici anni fa, l’ex ministro della difesa saudita, principe Nayef, ebbe ad affermare: “La Fratellanza Musulmana è la ragione per la maggioranza dei problemi del mondo arabo e la causa di molti problemi in Arabia Saudita. Abbiamo sostenuto questo gruppo più del necessario e hanno distrutto il mondo arabo”. L’idea di una monarchia democratica e libere elezioni attraverso le quali i Fratelli potrebbero arrivare al potere, non possono stare bene al Regno.

Il ripensamento recente è tattico e attribuibile all’indebolimento dei Fratelli Musulmani schiacciati dal nuovo regime autoritario egiziano. Dall’altra parte, il Regno nel tentativo di esorcizzare segnali di instabilità interna ha introdotto sulla scena lo scontro storico sunnita-sciita. Più che temere una guerra di religione fomentata dall’Iran, vede come pericolo per la propria esistenza un possibile ruolo egemonico di Teheran nella regione. La strage di pellegrini alla Mecca durante il recente Hajj, ha visto il Regno sotto accusa per la gestione dell’evento annuale. Facendo parlare il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, l’Iran è arrivato a chiedere di affidare l’Hajj a un “comitato di musulmani”. E’ un attacco diretto alla Casa di Saud che deve la sua legittimità al suo ruolo di “custode” dei luoghi santi dell’Islam.

Alle critiche dall’esterno si aggiungono voci di dissenso interno. Se molti sauditi sunniti possono condividere le preoccupazioni di re e principi, altri non apprezzano la guerra lanciata contro i ribelli Houthi in Yemen e il massacro di una delle più povere popolazioni arabe da parte del più ricco regime arabo. Questi elementi e altri ancora sono stessi messi in luce dal quotidiano britannico Guardian che ha pubblicato due lettere fatte circolare da un anonimo principe di casa reale saudita. Sono un atto d’accusa nei confronti di Salman, il nuovo re e uno dei suoi potenti figli, Mohammed bin Salman, che a dire dei contestatori starebbero trascinando il paese verso la rovina politica, economia e militare. Nonostante l’abbondanza di petrolio sui mercati mondiali, il basso prezzo del greggio, un deficit notevole e le riserve in declino, non vi sono indicazioni che il Regno possa trovare in serie difficoltà economiche in un futuro prevedibile. E possibile, però, che potrà essere costretto a ridurre gli importanti sussidi versati ai suoi cittadini e a limitare gli aiuti a pioggia a regimi e organizzazioni nella regione per garantire la loro stabilità o/e amicizia.

Nei think-tank americani e britannici, del resto, (ma anche in quelli russi e perfino cinesi), si comincia a guardare con preoccupazione alla possibile implosione dell’Arabia Saudita e gli effetti che il crollo della monarchia potrebbe avere sulla regione e sull’economia mondiale. È senz’altro presto per comprendere quale effetto potrà aver sul Medio Oriente il rientro in grande stile della Russia di Putin e le indicazioni di un nuovo interesse dell’amministrazione Obama. Sicuramente il ritorno dell’Iran ai tavoli negoziali (dopo l’assenza imposta dalla comunità internazionale) ai tavoli negoziali e la decisione saudita di non boicottare il dialogo sul futuro della Siria aprono nuovi possibili scenari: Da una spinta concordata verso la stabilità regionale all’intensificarsi delle guerre per procura che talvolta, da regimi in difficoltà, possono essere preferite alla pace.

Vai a www.resetdoc.org

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *