Alla Mecca nessun iraniano
Un altro focolaio tra sciiti e sunniti

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Per la prima volta negli ultimi trent’anni nessun iraniano compirà l’Haji, il tradizionale pellegrinaggio alla Mecca ritenuto un dovere sacro che ogni devoto ad Allah deve compiere almeno una volta nella vita. Fallito infatti ogni tentativo di trattativa con Riad – custode dei luoghi più sacri per l’Islam- per cercare di trovare soluzioni in grado di garantire dignità e sicurezza ai fedeli della Repubblica islamica che più di altri hanno ancora fresco il ricordo di quanto successo a centinaia di loro durante il pellegrinaggio dello scorso anno quando, come spesso accaduto a causa dell’eccessiva affluenza a La Mecca, oltre duemila persone sono morte schiacciate dalla mostruosa calca. Tra questi quasi 500 iraniani, dettaglio che ha portato Teheran a condannare Riad non solo a causa della sua inefficienza, ma anche per la sua indifferenza alle esigenze di sicurezza dei pellegrini. A distanza di un anno, a riaprire questa ferita è stato proprio il leader supremo Ali Khamenei che parlando ai familiari delle vittime della tragedia del 2015 non ha usato mezzi termini, definendo maledetta la famiglia reale saudita e ribadendo che questa non merita di gestire i luoghi sacri dell’Islam. Secondo Khamenei infatti, la Mecca e l’haji dovrebbero essere nelle mani di un organismo super partes, magari in quelle della Organizzazione della Cooperazione Islamica che da tempo ha preso le distanze da Riad.

Sin dalla rivoluzione iraniana, sono stati costanti gli scontri tra l’Iran e le forze di sicurezza saudite responsabili dell’haji e quando, nell’87, causarono più di 400 morti, l’Iran boicottò il pellegrinaggio per tre anni di seguito. Anche se quella che è ormai chiamata la “guerra della Mecca” non è quindi nulla di inedito, è certamente la goccia che ha fatto traboccare il vaso di una crescente e sempre più allarmante ostilità che ha diverse angolature e una profonda storia. Oltre al petrolio – su cui l’Iran è diventato ancora più determinante dopo l’accordo sul nucleare – e all’egemonia culturale regionale – che rimanda all’epoca persiana- attualmente è soprattutto la rivalità geopolitica a fomentare le crescente ostilità tra le parti. Dal conflitto in Yemen a quello in Siria; dalla rivalità in Iraq a quella in Libano: lo scontro tra Riad e Teheran, diretto e per procura, è stato a lungo la cartina tornasole delle divisioni interne all’Islam e alla competizione tra sunniti e sciiti. E per l’Arabia Saudita la questione è una spina nel fianco che ha anche riflessi domestici, perché se la guerra con l’Iran è ormai confinata ai libri di scuola, quanto succede nella sua provincia orientale è motivo di preoccupazione quotidiana per il governo centrale. Regione ricca di petrolio, la provincia orientale ospita la maggioranza dei due milioni di sciiti sauditi. Tra questi vi era anche Nimr al-Nimr, imam sciita che nel 2009 aveva inneggiato alla secessione della provincia e che lo scorso gennaio è stato condannato a morte da Riad insieme ad altre 47 persone accusate di terrorismo. In risposta all’esecuzione di Nimr, diversi manifestanti hanno preso d’assalto l’ambasciata saudita a Teheran e l’escalation diplomatica dei giorni successivi ha portato al ritiro dalla capitale iraniana degli ambasciatori di diversi paesi del Golfo. Dettaglio che ha complicato ogni trattativa sul rilascio di eventuali visti per La Mecca. Lo scorso luglio, i sauditi hanno poi fatto innervosire ulteriormente gli iraniani, appoggiando apertamente il movimento islamo-marxista Mko, conosciuto per essere un collaborazionista di Saddam Hussein durante la guerra contro l’Iran.

Tutti questi elementi hanno fatto saltare la tensione alle stelle, spingendo anche il presidente iraniano Hassan Rouhani a intervenire in un dibattito – quello sulle “guerra di La Mecca” – nato su una questione religiosa. E a sorprendere sono anche i toni da lui usati, coincidenti, per una volta, a quelli più tradizionalmente incendiari di Khamenei. Un dettaglio forse, o un segnale del cambio di rotta di Teheran fino a ieri attento a contenere lo scontro con i sauditi, una battaglia che sta ora diventando ogni giorno più acuta.

Ecco perché da Riad è arrivata tempestivamente la replica del regime che per bocca dell’erede al trono Mohammed Bin Nayef ha definito ogni accusa iraniana non obiettiva. Le dichiarazioni più incendiarie sono state però quelle rilasciate dal grande Mufti Adbul Aziz al-Sheikh, massima autorità religiosa locale, che ha approfittato dell’occasione per definire gli iraniani dei takfiri – non musulmani – perché “figli dei Magi”, cioè dei sacerdoti della religione zaraostriana, risalente alla Persia pre islamica. Parole come queste sono da sempre alla base del radicalismo wahabita e del settarismo che contraddistingue il discorso politico saudita. Un settarismo strumentale che vuole propagare una visione divisiva dell’Islam, riconducendo tutti gli sciiti a una presunta identità etnica persiana, percepita come ostile. Questa strategia aiuta gli Al-Saud a tenere serrate le fila e a giustificare almeno alcune delle sue mosse repressive. Ma oltre alla dimensione domestica, questa politica influisce anche sulle scelte di politica estera. A testimoniarlo, anche la formazione della “coalizione militare islamica contro il terrorismo”. Sponsorizzata dal vice principe ereditario e ministro della difesa Mohammed bin Salman, l’alleanza esclude i Paesi sciiti.

Per le sue possibili implicazioni geopolitiche, la “guerra di La Mecca” preoccupa quindi non solo quanti hanno a cuore la custodia dei luoghi sacri all’Islam, ma tutti coloro che sono preoccupati dal precario equilibrio regionale. La Mecca, a lungo luogo di incontro dei musulmani di tutto il mondo, potrebbe ora diventare terreno di reciproca delegittimazione da parte di due regimi teocratici che tentano di polarizzare la regione. Da quando è rientrato sullo scacchiere internazionale, l’Iran non è più disposto a incassare le mosse saudite e per combattere Riad sembra intenzionato a servirsi del suo stesso settarismo strumentale.

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  1. Una pagina importante per la diffusione della conoscenza sul mondo musulmano e sulle sue dialettiche interne. L’islam monolitico è un concetto da correggere. Non esiste il mondo musulmano in sè, non tutti i musulmani sono terroristi, abbiamo bisogno di conoscerlo meglio per colloquiare con esso.

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