L’esecuzione dell’imam Al-Nimr
e il “fallo di frustrazione” di Riyad

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Mai come ora, l’Arabia Saudita si sente vulnerabile: una condizione scomoda che trapela dalle sue più recenti scelte strategiche, tutte all’insegna della discontinuità con il passato. Lo scorso 2 gennaio, il Regno ha eseguito la condanna a morte del religioso sciita saudita Nimr Al-Nimr, giustiziato insieme ad altre quarantasei persone condannate per “terrorismo”. Il gesto saudita ricorda gli ineleganti “falli di frustrazione” che talvolta si vedono sui campi di calcio: un giocatore è lanciato a rete, magari sta per fare goal, e allora il difensore avversario lo atterra, pur sapendo di rischiare l’ammonizione o l’espulsione. Traduzione: Riyad tenta di impedire l’ascesa geopolitica del rivale Teheran facilitata dalla tenacia diplomatica degli Stati Uniti (primi alleati dei sauditi) sul dossier nucleare. Nel Golfo, la bilancia strategica pende ora a favore degli iraniani: nella partita per il potere mediorientale, Al-Nimr diventa così un’involontaria pedina, un oppositore politico arbitrariamente trasformato in ˊnemicoˋ o ˊiconaˋ di parte. Il religioso di Awamiya era il referente spirituale e politico di quella parte della minoranza sciita, concentrata nell’est petrolifero del paese, che nel 2011-12 scese in piazza contro la monarchia saudita, rivendicando pari diritti e opportunità per la comunità sciita, storicamente discriminata.

L’esecuzione di Al-Nimr solleva almeno tre interrogativi: perché proprio ora? Quali conseguenze geopolitiche regionali? Quali implicazioni per la politica statunitense in Medio Oriente?

La sentenza di condanna a morte per Al-Nimr era stata emessa nel 2014 e nell’ottobre del 2015, dopo il respingimento dell’ultimo ricorso, era divenuta esecutiva. Solo re Salman avrebbe potuto graziare il religioso sciita oppure scegliere di temporeggiare, ritardando così l’esecuzione. Il sovrano saudita ha invece scelto di agire, e di farlo ora. I politologi lo chiamano “omnibalancing”, ovvero il contro-bilanciamento, con una sola mossa politica, di minacce esterne e interne: questo è l’intento del gesto con cui Riyad provoca l’Iran (e gli Stati Uniti, “colpevoli” di aver alterato gli equilibri del Golfo), ma cerca anche di distrarre la società saudita dai problemi interni, ricompattando popolo e autorità salafite di fronte all’ “ingerenza iraniana”.

Il regno saudita ha strumentalmente accusato Al-Nimr di settarismo, mentre il leader della protesta sciita auspicava, nei suoi sermoni, non solo la caduta degli Al-Saud e degli Al-Khalifa del Bahrein, ma anche quella di Bashar Al-Assad (alawita, dunque sciita), che definiva un tiranno. La protesta degli sciiti sauditi (e dei vicini bahreiniti) è una rivendicazione primariamente socio-economica, che nasce da una condizione di discriminazione cronica nei confronti dei sunniti; ma enfatizzarne la natura settaria serve a delegittimarne il messaggio politico. Il settarismo è invece il tratto più vistoso dell’attuale politica regionale di Riyad: esso si rivela dunque uno strumento iper-politico, instillato dalla propaganda di stato nel discorso politico corrente, per fini di stabilità interna e di lotta per la supremazia regionale.

In politica estera, l’Arabia Saudita non è finora riuscita a escludere Assad dai progetti di transizione siriana, ha ormai perso influenza nell’Iraq monopolizzato dagli sciiti, mentre la guerra nel confinante Yemen, costosa e inefficace, vive un logorante stallo. Con la rimozione delle sanzioni, l’Iran si appresta a tornare sul mercato petrolifero internazionale e si è già seduto al tavolo diplomatico di Vienna per la Siria. Se la tensione fra Riyad e Teheran cresce, la risoluzione negoziata dei conflitti siriano e yemenita si allontana. Alla fine di dicembre, l’Iran aveva già sfidato le trattative Onu: il leader di Jaish Al-Islam, Zahran Allouche, era stato ucciso durante un bombardamento sulla periferia di Damasco (Ghouta). Allouche era l’uomo forte dei sauditi in Siria: il capo salafita si opponeva sia ad Assad che a Baghdadi.

I problemi più evidenti della società saudita si chiamano contrazione della spesa sociale, disoccupazione, jihadismo. L’Arabia Saudita chiude in profondo deficit il 2015, prospettando un bilancio in perdita anche per il 2016, complici i continui ribassi del prezzo del petrolio, voluti da Riyad per danneggiare iraniani, russi e statunitensi. Meno rendita petrolifera significa però meno liquidità da spendere per il welfare, ovvero meno sussidi e benefit per la popolazione: “denaro in cambio di lealtà politica” è la formula che ha fin qui garantito la stabilità dei regimi dell’area del Consiglio di Cooperazione del Golfo, specie durante i tumulti regionali delle cosiddette Primavere arabe. La disoccupazione è sempre più alta fra i giovani sauditi, troppo istruiti per soddisfare la domanda di lavoro tecnico del settore privato e numericamente troppi per essere assorbiti da un settore pubblico ormai saturo. E poi c’è il fenomeno jihadista: il messaggio violento e anti-sciita di Al-Qaeda e soprattutto di “Stato Islamico” attrae tanti giovani sauditi, cresciuti nell’intransigenza della scuola giuridica (madhab) dell’hanbalismo wahhabita.

Per decenni, Riyad ha “esportato” i propri mujaheddin, andati a combattere il jihad prima nell’Afghanistan invaso dai sovietici, poi nell’Iraq post-2003, infine nel Siraq del sedicente califfato. Questo trend potrebbe però invertirsi: già nel 2015 l’Organizzazione dello “Stato Islamico” ha colpito tre volte fra Arabia Saudita e Kuwait, mentre gli attacchi nel vicino Yemen sono purtroppo divenuti quotidiani. E Riyad sembra ora comprendere che l’ambiguità nei confronti del “califfato” comporta più costi che benefici: Al-Baghdadi ha apertamente minacciato la casa reale saudita, incitando alla rivolta interna. Ecco perché insieme ad Al-Nimr è stato giustiziato il teorico della branca saudita di Al-Qaeda, Fares Al-Shuwail Al-Zahrani: così, il potere monarchico-religioso confonde, volontariamente, oppositori politici e terroristi, ma lascia intendere che la lotta interna al jihadismo diviene prioritaria.

L’Arabia Saudita vive una doppia transizione di potere che inasprisce il rapporto con gli iraniani: quella nel Golfo, che fa pendere la bilancia del potere a favore di Teheran e quella nella casa reale, che vede l’anziano re Salman circondato da due competitivi aspiranti successori, Mohammed bin Nayef (cinquantenne principe ereditario e ministro dell’interno) e Mohammed bin Salman (trentenne vice principe ereditario e ministro della difesa). Nel 2015, la politica estera saudita è divenuta assertiva e militarmente aggressiva, segnando una forte discontinuità con la tradizione.

Per il prossimo presidente degli Stati Uniti, disegnare la politica statunitense nel quadrante sarà davvero arduo. Con gli storici alleati mediorientali (sauditi, israeliani, turchi), la presidenza Obama vive relazioni complicate e conflittuali, l’Iran non può essere considerato un alleato, mentre le cosiddette Primavere arabe hanno prodotto nuovi-vecchi autoritarismi (l’Egitto di Al-Sisi) o guerre civili (Siria, Yemen, Libia). A peggiorare il quadro, la Russia di Putin si riaffaccia in Medio Oriente, con limitate risorse economiche ma consistenti ambizioni militari, facendo asse con gli sciiti e ammiccando alla galassia curda (vedi il viaggio del leader dell’HDP Selahattin Demirtaş a Mosca). Anche per questa ragione, la Casa Bianca non può che guardare con apprensione al “fallo di frustrazione” saudita.

Eleonora Ardemagni: analista di relazioni internazionali del Medio Oriente, collaboratrice di AffarInternazionali, Aspenia, ISPI, Limes, Storia Urbana. Gulf analyst per la Nato Defense College Foundation.

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