La Resistenza, le tre guerre d’Ucraina
e l’etica della responsabilità

Durante le celebrazioni del 25 aprile si è detto e ripetuto che la Resistenza italiana ha una specificità che non autorizza comparazioni con quella che il popolo dell’Ucraina oppone all’invasione russa e alle feroci violenze che ha provocato e provoca. L’affermazione è di per sé ovvia. Ma vien da chiedersi se la solidarietà fattiva verso chi si difende – resistendo – da un’operazione che ha infranto ogni regola deve scattare sulla base della conformità o meno ad un unico paradigma. Che l’ANPI sembra tutelare come un tribunale inquisitorio vecchio stampo. La guerra e la guerriglia che si sta verificando in Ucraina è, d’accordo, diversa dalle molteplici forme che le resistenze europee assunsero a fronte del disegno hitleriano, ma il fattore scatenante è spaventosamente identico a quello che innescò la tragedia del conflitto mondiale: la cruenta offensiva per ottenere uno «spazio vitale» (Lebensraum) attraverso annessioni e occupazioni tipiche di una brutale logica imperialistica. Putin ha in testa non da oggi una volontà tesa a rimodellare il mondo secondo una geopolitica anacronistica, zarista più che sovietica. Come dar vita ad «un quadro internazionale – traggo la formula dal lucido discorso che il presidente Sergio Mattarella ha pronunciato a Strasburgo il 27 aprile – rispettoso e condiviso che conduca alla pace»?

La conquista della pace, della pacificazione, è un processo difficile. Per governarlo nell’era atomica e nelle dinamiche di una crescente globalizzazione non basta ripetere nobili parole senza indicare mezzi e finalità praticabili. Il pacifismo ideologico sbandierato con inusitato fervore da tante parti o si sarebbe risolto nell’accettazione della resa senza condizioni o in martirio generalizzato, in un suicidio di massa. Il martirio può essere una scelta individuale degna di tutto rispetto, non la linea politica di un popolo o la risposta di uno Stato. In Italia innegabili titubanze e miopie allarmanti evidenziano un’interessata confusione. Si è, infatti, portata in primo piano la questione spinosa di come aiutare in Ucraina chi è impegnato nel contrastare l’aggressione e ci si interroga sulla congruità o meno della fornitura di armi adatte agli scopi da perseguire.

Le sanzioni, se mirate, non badando a interessi particolari, sono una via, non in contrasto con la controllata consegna di armi che consentano di resistere. Perplessità e dubbi sono più che comprensibili, soprattutto quando a decidere è un consiglio NATO e non i singoli governi secondo procedure da ciascuno osservate in coerenza con le norme proprie. Come altrimenti se non con una resistenza attiva, anche in armi, si può puntare ad aprire un dialogo-trattativa? La premessa non può essere l’annientamento totale del nemico? Non c’è contraddizione ma complementarità tra queste due vie. Il causidico Luciano Canfora, incallito vetero-stalinista, sostiene che la fornitura di armi favorisce il protrarsi del conflitto? Ma il perverso disegno di questa protrazione deriva dalla strategia dell’invasore o da chi cerca di arginarne gli atti criminali? Se Putin e i suoi rifiutano qualsiasi appello al cessate il fuoco come può aprirsi una fase nuova e diplomatica? Semmai è onesto porsi una domanda e immaginare una risposta: chi può ottenere il cessate il fuoco indispensabile? L’ONU è impotente e bloccata dal diritto di veto. Qualche passettino in avanti sta affiorando. Si è chiesto da molti Paesi che esso sia motivato e discusso in assemblea, ma un’autorità sovranazionale e neutrale capace di fermare sul nascere l’esplosione dei conflitti o li prevenga imponendo la strada della diplomazia è ben lungi dall’essere perfino immaginabile. Anzi si assiste ad una rinascita di arroganti sovranismi nazionali invece che ad un graduale installarsi di una sovranazionalità dotata di persuasivi e incisivi poteri.

In Ucraina si combattono tre guerre. Non per rifarsi meccanicamente all’interpretazione che Claudio Pavone ha proposto per la Resistenza italiana è utile distinguere e ragionare. Nella regione del Donbass e non solo è in atto una guerra civile interetnica avvelenata da oltranzismi da non enfatizzare però oltremodo. I simboli non sono ovunque percepiti con identiche sensibilità. Il più grande partito della destra estrema (“Svoboda”) ha un deputato sui 450 del Parlamento ucraino. Su questi aspetti – chiudendo la sanguinosa scia di scontri che hanno fatto 14.000 vittime – occorrerebbe mettere all’ordine del giorno misure di garanzia per favorire una convivenza, certo oggi più difficile di ieri: il tema investe entrambi i contendenti. C’è, poi, una guerra patriottica e non ci si deve meravigliare che sia sostenuta con accenti che è sbrigativo liquidare con l’etichetta di nazionalismo. Il senso di una complicata appartenenza nazionale è acuito proprio dall’imperialismo teorizzato da Putin e dalla sua cerchia di torvi ideologi. Infine si alza dall’Ucraina lo spettro di una guerra mondiale, che dilagherebbe ben oltre i confini tra le due dissimmetriche potenze.

Queste angoscianti preoccupazioni richiedono che si chiarisca un punto cruciale: si combatte per resistere, per non arrendersi e aprire un serrato confronto o si vuole andare fino in fondo, fino ad una vittoria che annulli uno dei soggetti in lotta? Trasformare – la metamorfosi avanza di giorno in giorno – il conflitto in scontro di civiltà tra due aree portatrici di cosiddetti «valori» inconciliabili può sfociare in immani sbocchi, tragici per tutti. Un compromesso che suonasse premio a chi si è reso colpevole dell’aggressione è assurdo e non facilmente accettabile. Si rischia di avallare come valida ogni mossa unilateralmente attuata. Eppure un’«etica della responsabilità» dovrebbe avere il predominio escludendo scenari da «soluzione finale». È qui che s’innesta la prospettiva che spetterebbe ad un’Europa concorde lanciare, sollecitando – lo rileva la dichiarazione del Movimento Europeo diramata da Roma l’8 aprile – la convocazione di una Conferenza per la pace e la sicurezza sul modello (aggiornato) degli accordi di Helsinki del 1975 (Helsinki-2), della Carta di Parigi e del memorandum di Budapest, in collaborazione con l’OSCE e sotto egida ONU.

Anche per avviare un itinerario del genere è necessario che a farsi ascoltare sia un’Europa «potenza civile» quanto si vuole ma non disarmata e inerte. Enrico Letta ha abbozzato, in un denso saggio-manifesto che ha riscosso scarsi consensi nello stesso Pd, l’agenda della costruzione di un sistema europeo di difesa tra gli Stati che ci stanno, con il metodo della «cooperazione rafforzata»: una sorta di «polo europeo» entro la NATO, che preluda ad una più riconoscibile seppur raccordata autonomia. Tra l’altro una tale integrazione alleggerirebbe non di poco il peso delle spese militari dei 27 Stati dell’UE, oggi superiori di pressoché quattro volte a quelle della minacciosa Russia, e contribuirebbe a riprendere un bilanciato disarmo. Non è il momento di denunciare alleanze, ma di agire per la loro trasformazione in vista di una stabilizzata coesistenza tra sistemi politici differenti. Non importa se un tale obiettivo appare ora impossibile. Solo pensando l’impossibile si realizza – chi non fa tesoro della massima di Max Weber? – il possibile.

 

Foto: Una manifestazione di cittadini ucraini contro l’invasione russa – Roma, 27 marzo 2022 (Andrea Ronchini / NurPhoto via AFP).

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