Il ministro turco, stabilizzare
non radicalizzare l’Egitto

Nel cortile della Farnesina gli uomini della sicurezza di Ahmet Davutoglu “provano” la blindatura della Bmw assegnata al ministro degli Esteri turco. Battono con le nocche delle dita sulla carrozzeria, come fosse un cocomero. Gli angeli custodi del ministro turco, dello stratega che disegna la politica estera del governo di Erdogan, lo proteggono anche in questa tappa romana, l’ incontro con Emma Bonino. «Tutte le “linee rosse” possibili e immaginabili sono state superate dal regime di Bashar Assad, e se adesso la Siria non permetterà libero accesso, immediato, agli ispettori dell’ Onu per verificare gli attacchi chimici questa sarà la prova implicita della sua colpevolezza». In auto, nel veloce trasferimento all’ aeroporto di Ciampino, Davutoglu parla delle due crisi che è venuto a discutere a Roma dopo essere stato a Londra e Berlino: «Sono in Europa per consultare i nostri partner sulle trasformazioni della regione dopo la primavera araba e soprattutto dopo gli ultimi eventi in Siria e in Egitto».

Che notizie concrete avete sull’ attacco chimico in Siria?
«C’ è consenso generale sul fatto che sia stato un attacco con armi chimiche, non c’ era altro modo per fare tanti morti. Ma la vera domanda è chi lo ha fatto? Per verificare la responsabilità c’ è bisogno di una ispezione Onu approfondita. Un gruppo di “amici della Siria”, fra cui Italia e Turchia, ha chiesto al segretario generale dell’ Onu Ban Ki Moon di estendere e allargare il mandato del team di ispettori Onu che è già in Siria. È necessaria un’ inchiesta approfondita; ho parlato anche col ministro iraniano e credo che sosterranno questa idea. E qui ci sarà il test per il regime Assad: i siriani condannano l’ attacco, dicono di non aver nulla a che fare con le armi chimiche. E allora devono aprire tutto, per provare che sono innocenti. Se nasconderanno, se vieteranno l’ ispezione Onu, ci daranno la prova che sono colpevoli».

Si dimostrerebbe che Assad ha oltrepassato la famosa “linea rossa” fissata da Barack Obama.
«Questa non è la prima volta, Assad ha oltrepassato molte linee rosse. Guardate all’ escalation: ha iniziato con i suoi cecchini che sparavano sui civili, poi i proiettili di artiglieria, poi i bombardamenti aerei, poi missili sulla sua gente. Fino ad oggi la comunità internazionale non aveva risposto in nessun modo. Ma adesso il Consiglio di sicurezza ha inviato dei tecnici che devono poter lavorare, e l’ Onu dovrà prendere una risoluzione, decisiva e definitiva sull’ atteggiamento della Siria»

E cosa potrà mai decidere il Consiglio? E’ quasi certo che rimarrà ancora bloccato.
«Abbiamo già avuto un caso del genere dopo la strage di Srebrenica, in Bosnia: quando il Consiglio di sicurezza non riuscì a rispondere con la forza adeguata a quello che era successo, 8.000 persone uccise in una sola notte. La comunità internazionale reagì: le nazioni che volevano agire insieme formarono una coalizione».

Lei prospetta l’ azione militare di una coalizione dei volenterosi?
«Chiediamo pieno accesso agli ispettori Onu, e se Assad non aprirà tutto sarà la prova delle sue ennesime responsabilità. Ci sarà una “coalizione dei volenterosi” per fermarlo».

Egitto: voi lo avete chiamato “golpe militare” sin dall’ inizio, mentre gli americani esitavano sulla terminologia, perché altrimenti avrebbero dovuto interrompere immediatamente i loro aiuti al paese.
«C’ era un presidente eletto, ed è stato rimossoe arrestato dai militari. Se non è questo un golpe, ditemi cos’ è un golpe? E i militari, dopo aver visto la passività di molti governi, diventano sempre più aggressivi. Prima si parlava di liberare Morsi; adesso Mubarak è fuori, altri leader politici eletti vengono arrestati».

Voi siete stati i primi a reagire perché avete visto i vostri alleati Fratelli musulmani messi da parte.
«Perché abbiamo visto tre pericoli. Il primo è interno all’ Egitto: in un Paese in cui un presidente è stato arrestato, nessun altro leader politico si sentirà al sicuro. Secondo: l’ Egitto è riferimento della regione,e quindi potremmo avere un effetto domino negativo. Terzo: il radicalismo può diffondersi in tutta la regione, alcuni possono far ricorso al terrorismo, in tutto il Mediterraneo. E questo riguarda tutti noi».

Adesso quali sono le opzioni per affrontare il caso-Egitto?
«Ci sono due opzioni: una di breve termine, una scelta per la “sicurezza immediata”, affidarsi ai militari per una stabilità di breve respiro. Oppure scegliere un processo certo di lungo termine, che abbia come obiettivo quello di stabilizzare le democrazie della regione, evitare la discesa verso una radicalizzazione e una violenza incontrollabile. Noi sosteniamo questa seconda scelta, e chiediamo ai nostri alleati europei di agire insieme».

Ministro, il golpe è arrivato dopo una caterva di errori di Morsi, e soprattutto dopo il chiaro tentativo dei Fratelli di prendere in ostaggio lo stato egiziano.
«Primo: dobbiamo riconoscere il fatto che Morsi aveva un’eredità terribile in termini di malgoverno, burocrazia paralizzata, scelte economiche irrazionali, debito incredibile, economia stagnante. Anche il miglior leader, il premier più esperto non avrebbe potuto gestire con efficacia un paese in quelle condizioni. Ma poi: ammettiamo che abbia fatto errori. Tutti i politici fanno errori, nessuno di noi è un superman. Qual è la conseguenza degli errori? Essere rimossi dal potere grazie al voto, essere puniti nelle elezioni. Per errori politici nessun leader politico può essere catturato dai militari. Nessuno dice che Morsi non abbia fatto errori, ma non si dovevano contestare così gli errori di un presidente eletto».

Americani ed europei sembrano come sorpresi e paralizzati dal fatto di non essere più capaci di influenzare gli eventi in Medio Oriente, in Siria come in Egitto. C’è un pericolo che gli Stati Uniti si allontanino dal Medio Oriente? Che anche l’Europa rimanga assente, impotente?
«E’ un pericolo: perché la possibilità di una radicalizzazione della politica nella regione creerà un gran rischio per tutti noi, anche fuori dalla regione direttamente coinvolta. La disquisizione legale Usa sul “golpe sì” o “golpe no” sembrava essere diventata la questione centrale, mentre il tema determinante è quali sono le conseguenze del golpe. Nella Ue la difficoltà di trovare consenso a 28 rende la posizione europea più difficile da prendere, per cui più debole, esitante: anche un solo paese può bloccare ogni decisione. C’è un bisogno di immediata restaurazione della democrazia in Egitto: e dobbiamo farlo insieme, noi europei con l’America».

Voi turchi nel vostro passato avete avuto le difficoltà nei rapporti fra un partito islamista come il vostro e i militari, che da voi hanno messo a segno colpi di stato fino a 30 anni fa…
«No, un attimo noi non usiamo mai la terminologia “partito islamico”, perché noi vogliamo che l’Islam sia una religione, non una politica. Se definiamo un partito politico secondo una religione allora chi non è di quel partito o magari quelli che criticano il partito contestano anche la religione? No. In politica seguiamo un approccio razionale, secolare, politico. Lei ricorderà il premier Erdogan proprio in Egitto fece riferimento al secolarismo in politica come approccio culturale tollerante e inclusivo. E venne anche criticato da alcuni ambienti radicali. Questo è il nostro approccio. Ma venendo alla sua domanda, certo la nostra esperienza (con i militari) in Turchia è una lezione: non c’è via militare al governo di un paese. Come in economia c’è il principio della accountability, della responsabilità, così in politica bisogna essere responsabili. E un governo lo è di fronte al Parlamento e agli elettori. A chi guarda il presidente provvisorio egiziano Al Mansour? Al Parlamento che non c’è oppure al capo militare al Sissi?».

Possibile evitare una evoluzione algerina, con terrorismo diffuso, una situazione da guerra civile per anni e anni?
«Senza il golpe, la violenza, le stragi sarebbe stato più facile evitare uno scenario del genere. Adesso tutto è possibile. Ma dobbiamo lavorare per questo, per evitare una radicalizzazione dello scontro che convinca molti a passare alla violenza. Ma deve esserci un cambiamento di attitudine. Come migliorare le cose se una parte è in carcere e l’altra ha le pistole in mano? Questo non è un confronto. Bisogna liberare i prigionieri politici, lavorare alla riconciliazione, bisogna interrompere questa spirale di violenza ritornando alla politica. L’Egitto è la spina dorsale della società araba. Tutte le riforme, le innovazioni sono nate in Egitto: abbiamo sostenuto la transizione egiziana e sosterremo ogni processo di transizione democratica in Egitto».

 

Questo articolo è stato pubblicato su Repubblica il 25 agosto.

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