Silvia Romano, il festival dell’ignoranza e la vera posta in gioco geopolitica

Silvia “Aisha” Romano e la “banda degli ignoranti”. Ignoranti nel senso latino del termine, e non come sinonimo di maleducazione, volgarità… E’ un brutto vezzo italiano quello di sentirsi tutto esperti del fatto del giorno. In questo caso, esperti di terrorismo, di trattative segrete, di Africa, di Islam. La “banda degli ignoranti” è folta, variegata, saccente, composta in gran parte da persone che in Africa non hanno messo mai piede, tanto meno in zone di guerra. Dispensatori seriali di etichette, che non hanno mai visto i nostri cooperanti all’opera, non si sono mai presi la briga, tra una esibizione televisiva e l’altra, di conoscere le loro storie, i progetti a cui stanno lavorando, i risultati ottenuti. Tutto questo per la “banda degli ignoranti” è tempo sprecato. Ma la cosa ancor più grave, è che le loro panzane passano senza un minimo di verifica da parte di chi le pubblica o le manda in onda. E così l’ignoranza si accompagna con le fake news: un mix che produce ed alimenta una narrazione mefitica che calpesta la realtà, piegandola ai propri pregiudizi e alle finalità, qualche voto, copia, o like in più, che si intende perseguire. Un esempio sintomatico di questo “virus” dell’ignoranza, è riscontrabile nei racconti del rientro in Italia di Silvia Romano. Lasciamo da parte, per carità di patria e di intelligenza, i titoli sul tradimento, sull’ingratitudine di una giovane donna che, secondo questi improvvidi censori, sarebbe colpevole di essersi convertita all’Islam. Lasciamoli perdere, e concentriamoci sulla descrizione del look.

 

Fuori dal mondo

Quando la ventiquattrenne è scesa dall’aereo che l’ha riportata in Italia, l’abito indossato – chiamato jilbab – ha richiamato l’attenzione sul connotato religioso. Per la “banda degli ignoranti” in servizio permanente effettivo, non c’è distinzione alcuna tra il jilbab, il burqa, lo chador: sono tutti simboli religiosi, naturalmente imposti con la forza dai tagliagole islamici. Si dà il caso che di religioso il jibab non abbia proprio nulla. Lo hanno spiegato alcuni giornalisti africani: “Non è un abito religioso ma chiaramente è indossato da donne islamiche” e “È un abito più da passeggio. Lo usano molto le tribù al confine tra Kenya e Somalia come gli Orma e i Bravani”. “Probabilmente si è vestita come ha potuto”, ha ipotizzato Hamza Piccardo, un esponente di spicco della comunità islamica italiana.

La “banda degli ignoranti” ha un seguito sui social. Ed è il seguito di odiatori da tastiera che all’ignoranza aggiungono demagogia d’accatto, misoginia sfrenata, volgarità senza freni. “Vogliamo sapere quanto ci è costato. Vogliamo la verità!”, scrive una donna. Seguono epiteti di ogni genere e non mancano le frasi sessiste con espliciti e irripetibili riferimenti sessuali. “Per me potevamo risparmiare questi soldi per il Coronavirus“, tuona un uomo, mentre qualcun altro scrive: “Se avesse pensato ai poveri di casa sua non le sarebbe successo nulla. Chi è causa del suo male…”.

Per costoro islamico è sinonimo di terrorista. Un pericolo mortale. E lo è anche chi si è convertita. Da quello che abbiamo potuto leggere – dice a Reset Izzedin Elzir, imam di Firenze, tra i più impegnati nel dialogo interreligioso – si è convertita leggendo il Corano. E il primo verso del Corano recita: ‘Nel nome del Signore, il compassionevole, il misericordioso’. Questo è lo spirito dell’Islam. Poi, come abbiamo sottolineato sempre, spetta a noi, uomini e donne, mettere in pratica questi valori. Spesso si dice che le religioni sono violente, che alimentano l’odio, addirittura che scatenano guerre, ma questo non è vero! Dobbiamo lavorare su noi stessi e delle volte, purtroppo, siamo violenti e creiamo odio di fronte agli altri”.

Ma questo è un linguaggio che la “banda degli ignoranti” non comprende né parla. Ecco un altro esempio della narrazione fuori dalla realtà della “banda” in questione. Hanno detto e scritto: Silvia si era avventurata in una zona del Kenya pericolosa. Ora, a parte il fatto che per questi tuttologi da salotto mediatico, l’Africa è come l’Islam: un monolite senza sfaccettature interne, un indistinto culturale, geografico, religioso, politico. Ma torniamo al fatto: la zona in cui operava la volontaria italiana. Basta aver letto qualcosa di qualcuno che il Kenya lo conosce bene, per scoprire che l’area dove è stata rapita Silvia Romano, come annota Alberto Negri, tra i pochi che parla di ciò che sa e che ha visto di persona, “è popolata dai Girama, ritenuta una delle tribù più miti e ospitali del Kenya come ho avuto modo di verificare visitando i villaggi. Il capo banda dei rapitori – prosegue Negri – era un somalo estraneo alla zona, catturato, poi rilasciato su cauzione e immediatamente sparito. Malindi è a cento chilometri e nessun italiano che sta da quelle parti è considerato uno scriteriato. Si prega di non scrivere stupidaggini”.

Una preghiera rimasta inascoltata.

 

Il Sultano all’incasso

Impegnata nello sparare panzane e invettive, la “banda degli ignoranti” perde di vista una questione, quella sì, dai risvolti e, soprattutto, dalle conseguenze inquietanti: il riconosciuto contributo dato dagli 007 turchi alla liberazione di Silvia. Ora, come documentato da Globalist, il presidente turco Recep Tayyp Erdogan tutto è tranne che un filantropo. Di certo, passerà all’incasso per l’aiuto offerto. A rimarcarlo, in una conversazione con Euronews, è un altro dei pochi giornalisti che di Africa e di guerra ne sa e molto: Massimo Alberizzi, già inviato del Corriere della Sera, scampato anni fa a un sequestro in Somalia, grande conoscitore della realtà africana.

Alberizzi pone subito una questione: “Io mi domando perché non si va direttamente a chiedere aiuto all’intelligence somala e si bussa invece alla porta dei servizi turchi, che ci chiederanno delle contropartite politiche, ad esempio in relazione alla guerra in Libia”.

Contropartita in Libia, dunque, dove l’Italia appoggia Fayez al-Sarraj, presidente del Consiglio Presidenziale e primo ministro del Governo di accordo nazionale della Libia formati in seguito all’accordo di pace del 17 dicembre 2015, sostenuto anche dalla Turchia ma su piani di interesse differenti. Ad esempio, nel gennaio scorso il “Sultano di Ankara”, aveva reso noto che la Turchia intende avviare delle attività di esplorazione e perforazione nel Mediterraneo alla ricerca dei giacimenti di gas. Erdogan faceva riferimento al memorandum d’intesa, siglato a novembre a Istanbul dal premier turco con il premier del Governo di accordo nazionale (Gna) di Tripoli, Fayez al-Sarraj.

Passerà all’incasso, Erdogan. E lo farà perché lui usa l’unica “diplomazia” che sembra funzionare a Sud del Mediterraneo: la “diplomazia della forza”. La Turchia è presente militarmente non solo in Siria, dove, nel silenzio complice della comunità internazionale prosegue la pulizia etnica da parte delle armate turche contro la popolazione curdo-siriana del Rojava, ma anche in Libia e in Somalia. Ed è presente non solo con truppe regolari del suo poderoso esercito (il secondo in dimensioni e armamenti della Nato, dopo gli Stati Uniti), ma anche con mercenari e miliziani jihadisti reclutati in Siria da Erdogan anche tra le fila dell’Isis e di al-Qaeda. A loro è toccato il lavoro sporco nel Nord della Siria, fosse comuni, stupri di massa, saccheggi, e molti di questi tagliagole riciclati dal presidente turco, ora sono stati spostati sul fronte libico, a sostegno del Governo di accordo nazionale di Fayez al-Sarraj.

“Il fatto che il governo di Tripoli abbia riconquistato le coste davanti all’Italia è una pessima notizia per noi – rimarca il direttore di AnalisiDifesa, Gianandrea Gaiani, in una intervista a Tempi –. È un fatto che Haftar non le abbia mai utilizzate per spedirci migliaia di immigrati clandestini. Salvo rare eccezioni, non ha mai sfruttato il traffico di esseri umani. La stessa cosa non si può dire della Turchia, che ha sempre ricattato l’Europa con i migranti. L’ha fatto recentemente con la Grecia e d’ora in avanti potrebbe ricattare anche noi, visto il peso diplomatico e militare che si è guadagnato nel governo di Tripoli”.

Di questo varrebbe la pena parlare, discutere, andare in profondità, incalzare chi ha responsabilità di governo. Ma è chiedere troppo alla “banda degli ignoranti”.

 

Foto: Adem Altan / AFP

  1. solo due semplici commenti per essere lucidi e non ideologici:
    1)quelli come me che hanno qualche anno ricordano che la piega dei sequestri in Italia negli anni 70 fu stroncata bloccando i beni e quindi non valeva oiù la pena.Ora solo gli Americani non pagano , mandano la Delta Force e liberano (quando ci riescono) gli ostaggi e fanno tabula rasa di tutti.
    2)Che si sia convertita all’Islam per salvarsi da violenze od altro ha fatto bene e non mi interessa(anche G.Galilei dopo un periodo di carcere a Roma abiurò le sue teorie eliocentriche per salvarsi la pelle vecchio come era) ma ora a casa avrebbe dovuto fare una veemente reprimenda ed esprimere tutto il suo disprezzo nei confronti dei banditi/terroristi che l’avevano rapita (passato il periodo della sindrome di Stoccolma che l’ha chiaramente pervasa)

  2. Finalmente Umberto De Giovannangeli parla con competenza e rivela che c’è un elefante nella stanza. Il ministro degli Esteri parlando alla Commissione parlamentare non ha voluto precisare cosa è stato concesso in cambio alla Turchia. Si sono riprodotte pari pari le informazioni di fonte turca sulla “grande potenza neo-ottomana in Africa”. E nel clima euforico (“i turchi hanno salvato la nostra cooperante”) si è data occasione alla lobby turca (i vari Marsili, Bonino ed altri) a riproporre, senza contraddittorio, la visione delirante che Erdogan ha del mondo

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