LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e scrittore, in libreria con "Amarcord Fellini. L'alfabeto di Federico" (Il Mulino ed., 2020)

Se il capitale ulula. Lupi a Wall Street, agnelli in Nebraska

 

NEOREALISMO AMERICANO / 1  “The Wolf of Wall Street” di Martin Scorsese

Homo homini lupus. Qualcuno l’aveva forse dimenticato? Nel rutilante e scatenato film di Martin Scorsese ispirato a una storia vera, The Wolf of Wall Street, il giovane lupo si chiama Jordan Belfort, classe 1962, figlio di due ragionieri di Queens-New York. Da outsider diventa il  broker che fra gli Ottanta e i Novanta del secolo scorso incarna alla grande gli “spiriti animali” del capitalismo. Sono gli anni di preludio della finanziarizzazione globale che avrebbe illuso molti, arricchito pochissimi e depauperato i più, fino alla deriva dei titoli “tossici” e alla terribile crisi che stiamo ancora subendo. “Senza rendercene conto, senza mai aver deciso di farlo, siamo passati dall’avere un’economia di mercato all’essere una società di mercato”, e viviamo in “un luogo dove le relazioni sociali sono trasformate a immagine del mercato”. E’ la sintesi efficace del filosofo della politica Michael J. Sandel in un recente saggio tradotto da Feltrinelli, Quello che i soldi non possono comprare (cioè nulla o quasi, visto che persino il corpo umano e la salute pubblica sono soggetti al mercimonio legalizzato).

L’“irresistibile ascesa” di Belfort, per dirla con Brecht, si fermò bruscamente dietro le sbarre. Accusato di frode dall’Fbi ed incastrato da un agente che invano aveva tentato di corrompere, venne considerato colpevole del cosiddetto “pump and dump” (pompava il valore delle azioni per poi piazzarle agli ignari risparmiatori). Tuttavia ottenne un consistente sconto di pena denunciando le illecite pratiche della sua società, la Stratton Oakmont, e inguaiando una schiera di complici/adepti. Belfort ha quindi scritto un’autobiografia pubblicata anche in Italia da Rizzoli e i cui proventi sono destinati per metà alle vittime delle sue truffe, mentre ora conduce seminari “motivazionali” – come si vede nell’epilogo del film – per insegnare a vendere qualunque cosa a chicchessia (già, il lupo perde il pelo…).

Sullo schermo Belfort è uno strepitoso Leonardo DiCaprio più o meno eguale a se stesso nell’arco della trama, dai venticinque ai quarant’anni (fra parentesi: sarebbe arrivato il momento di assegnargli finalmente un Oscar!). E’ l’interprete perfetto della carica vitale, della rapacità erotica, di un tempo allupato e drogato, vorace di tutto, ovvero è un’icona dell’irrefrenabile fascino del capitale quando porta alle estreme conseguenze l’individualismo proprietario. Ed è felice. Siamo in un film di Scorsese – 72 anni – e la materia incandescente viene trattata alla maniera delle sue regie, con l’energia visionaria che qui, tematicamente, rimanda soprattutto a Quei bravi ragazzi e a Casinò. E dunque: macchina da presa mobilissima e montaggio delle meraviglie in cui non manca l’improvviso fermo-immagine straniante con DiCaprio che si rivolge direttamente al pubblico (che ha gradito: 3.800.000 euro l’incasso nel primo weekend, nonostante la durata fluviale: tre ore meno un minuto). Sono già cult talune scene del film: il “lancio del nano” per far baldoria in ufficio o la più singolare e ­- quien sabe? – eccitante modalità di sniffare cocaina mai vista sullo schermo (scopritela da soli). Ma, a guardar bene, The Wolf of Wall Street è altrettanto vicino ad altre opere del Nostro: dalla travolgente accelerazione notturna di Fuori orario all’esplosiva violenza clanica di Gangs of New York. Sì, la Borsa ha un che di tribale, riserva l’aurea ritualità e i toni da nenia del mentore di Belfort, un superlativo  Matthew  McConaughey. Mentre si fa servire un Vodka Martini “ogni cinque minuti”, il broker esperto spiega al pivellino come cavarsela a Wall Street. Due o tre consigli: coltivare le illusioni degli investitori facendo in modo che puntino gli eventuali utili su altre azioni e intascare intanto le commissioni (unica moneta reale); masturbarsi a più non posso per essere sempre rilassati; assumere cocaina in grande quantità per stare all’erta.

L’allievo è sveglio e in un battibaleno supererà il maestro. Assume ogni tipo di stupefacente fino al micidiale “Quaalude” che a momenti lo ammazza. Frequenta centinaia di prostitute a dispetto della bellissima seconda moglie che gli darà una bimba, una modella con nobile zia londinese che tornerà utile come prestanome bancaria. Organizza orge che si concludono con milioni di dollari di danni negli hotel. Naviga su uno yacht da cinquanta metri e, naturalmente, porta i soldi nella Svizzera “che lava più bianco” (Jean Ziegler). Lo stato di allucinazione è permanente, il primato dei sensi corrisponde alla narcosi del (buon) senso, la tracotanza si rivela assai produttiva. Una vita all’insegna dell’eccesso. E’ la hýbris a governare Belfort/DiCaprio e il suo mondo: dismisura, orgoglio, prevaricazione e indifferenza/insofferenza alle regole come alla morte. A differenza della tragedia greca, però, in lui non v’è alcuna colpa incombente, né il rimorso o il timore della nemesi che pure il padre gli predice: “Tutti i nodi prima o poi vengono al pettine”. Non c’è “salvezza” immaginabile nell’orizzonte di una vita così e qualsiasi perversione è in campo senza considerarsi tale. Un vortice collettivo, considerando la fedeltà quasi paranoica che i soci del “cerchio magico” (ex poveracci psicotici) e i dipendenti della Stratton Oakmont riservano al loro eroe, capo e guru (succede anche in politica, non solo nella finanza).

I detrattori di The Wolf of Wall Street accusano: Scorsese non giudica, non prende le distanze, non pensa alla morale. E’ vero, ma come potrebbe? Il film non oggettiva le vicende, anzi, le potenzia come se fossero una lunga “soggettiva” di Belfort/DiCaprio, un trip lisergico, un viaggio astratto e imbambolato oltre il termine della notte: la favola crudele e nichilista dei soldi. D’altronde, non è forse un anelito faustiano a spirare e a dilagare nella nascita e nei tumulti del capitalismo? Alla fine i nodi verranno al pettine, certo, ma ancora una volta Scorsese non assolve né condanna (da cattolico osservante sa che non spetta a lui), bensì laconicamente mostra: l’agente Fbi torna a casa in metropolitana guardando gli altri passeggeri, e, di contro, l’ex lupo di Wall Street appena uscito di prigione cerca di piazzare una penna. Vite intere, sguardi fugaci. Sembrerà un paradosso, ma The Wolf of Wall Street è puro neorealismo: ladri di mazzette e misere vittime.

 

NEOREALISMO AMERICANO / 2 – “Nebraska” di Alexander Payne  

Volete un perfetto controcampo/controcanto di The Wolf of Wall Street? Non perdetevi Nebraska, uscito alla chetichella nonostante il premio di Cannes 2013 al protagonista Bruce Dern e le sei nomination all’Oscar. Il film di Alexander Payne non ha raggiunto il grande pubblico, ma ha sedotto i cinefili che d’altronde non si perderebbero per nulla al mondo un autore rivelato a suo tempo dal Sundance Festival di Robert Redford. A tale riguardo, sul web sta facendo furore il video parodia Not Another Sundance Movie, finto trailer che allinea tutti gli stereotipi del cinema indipendente: esilarante!

Payne, poco più che cinquantenne, all’anagrafe di Omaha (Nebraska, appunto) si chiama Alexander Constantine Papadopoulos: famiglia greca, studi letterari e specializzazione in filologia a Salamanca, un bellissimo documentario sul rifugio isolano del Gigante Svedese (Trespassing Bergman, 2013). Insomma, non è proprio il tipico provinciale del Midwest e ha alle spalle una mezza dozzina di regie dagli esiti impari (riuscito A proposito di Schmidt, meno Paradiso amaro). Stavolta propone un on the road in bianco e nero in stile anni Settanta lungo le strade care a Bruce Springsteen.

Nebraska è la storia del vecchio cocciuto meccanico in pensione Woody Grant (Dern) che da Billings, Montana, vuole a tutti i costi raggiungere Lincoln, in Nebraska, per incassare il premio di un milione di dollari che è convinto di aver vinto. Si tratta con ogni evidenza di un annuncio pubblicitario per allocchi, ma Woody non sente ragioni – tanto meno quelle dell’amata-odiata moglie Kate (June Squibb) -, ed è disposto a farsi a piedi i milleduecento chilometri che lo separano dall’agognato trofeo. Con quei soldi, confessa a uno dei suoi figli che si è deciso ad accompagnarlo in macchina, intende comprarsi un furgone nuovo e un compressore. E’ una piccola odissea familiare, con tappe dai parenti e dagli amici di Woody, nell’America dei perdenti ipnotizzati davanti alla Tv o all’ennesima birra, reduci di un benessere che, se mai vi fu, è ormai perduto. Persino il monte Rushmore con i presidenti scolpiti nella roccia merita sì e no un’occhiata distratta. Woody è dissacrante e il monumento dell’orgoglio americano gli sembra un’opera incompiuta: “Solo Washington è vestito, a Lincoln manca addirittura un orecchio”. In quello scenario Hitchcock ambientò il finale di Intrigo internazionale (1959), ma qui l’aria crepuscolare e smemorata del film ricorda piuttosto L’ultimo spettacolo di Bogdanovich (1971) o certe atmosfere amare di Huston, Lynch e Jarmush.

E’ un’elegia sul tempo che passa invano, Nebraska, in un Paese dove le chance di futuro sono state espropriate dai lupi come DiCaprio nel film di Scorsese. Il disincanto è sublimato nell’ironia di battute memorabili: “Papà, perché hai fatto tanti figli?” – “Tua madre è cattolica e a me piaceva scopare”. A Woody, complice il suo “ragazzo”, non resta che fingersi ricco anche quando capisce di non esserlo e che mai lo diventerà. Un beffardo e tenerissimo finale yankee, una sbruffoneria alla Buffalo Bill. Come cantava De Gregori?  “Tra la vita e la morte, tra la vita e la morte, avrei scelto l’America”.

 

Articoli pubblicati sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 28 gennaio 2014 

 

 

  1. mi ha interessato, colpito e coinvolto profondamente perché tratta un tema particolare e in modo spettacolare.. pur non essendo il mio genere, questo drammatico mi è piacuto un sacco.

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