Afghanistan missione incompiuta,
viaggio in 15 anni di guerra

Da Reset-Dialogues on Civilizations

In Afghanistan, durante quest’ultima tornata bellica, hanno perso tutti. Hanno perso i civili, prime vittime di ogni conflitto, stretti fra il terrorismo talebano e la potenza di fuoco occidentale. Hanno perso le migliaia di occidentali mandati a morire, nonostante molti di loro non potranno nemmeno essere chiamati caduti di guerra, come invece meritano. Hanno perso i contribuenti che a fronte di un’immane recessione, di tasse, tagli e sacrifici hanno continuato, forse senza nemmeno saperlo, a mandare soldi in Afghanistan per mantenere la missione in piedi e finanziare una vana ricostruzione.

In Afghanistan missione incompiuta 2001-2015, Nico Piro, inviato Rai in aree di crisi, ripercorre il conflitto dagli inizi fino all’anno che era stato previsto per il completamento del “ritiro” della coalizione internazionale di fatto mai concluso.

Un racconto lucido, che alterna narrazione autobiografica a resoconti storici, che fotografa di volta in volta in volta il punto di vista degli afgani incontrati sul campo, dei soldati americani e italiani; e che contemporaneamente arricchisce la conoscenza del lettore con dati e numeri di rapporti e dossier ufficiali delle Nazioni Unite come di Ong internazionali, per rendere il quadro del paese ancora più comprensibile.

Avendo avuto modo di vivere le diverse realtà di un paese che può cambiare completamente da un chilometro all’altro, per paesaggio ma anche per comunità umane, l’autore riesce a riportare un quadro variegato dell’Afghanistan attraverso il racconto di innumerevoli episodi; ciò che emerge è che la “creazione” di uno stato secondo il modello occidentale sia rimasto un miraggio, nonostante gli anni passati, il lavoro fatto e le perdite subite.

Così ad esempio descrive la valle del Korengal, uno dei luoghi dove gli americani hanno pagato di più in termini di vite umane, come appariva nel 2008:

Quella di Korengal è solo formalmente una valle: assomiglia molto di più a una crepa nella roccia, in mezzo a vette che superano i tremila metri di quota. L’area piana vera e propria è ridottissima, stretta com’è fra i crinali che scendono a picco. A Korengal non c’è polizia, non c’è sanità, non c’è alcun segno del governo. Mancano gli strumenti per concepire l’idea stessa di un’autorità nazionale. Le tribù del Korengal parlano la propria lingua, uno dei dialetti nuristani, e considerano stranieri anche gli abitanti del Pech per non parlare degli afgani di etnia tagika, uzbeka o hazara. Esattamente come i pochi e spaventati soldati dell’Ana (Afghan National Army) che vengono fin qua a rappresentare il governo di Kabul, ma sono considerati nient’altro che “amici” degli americani.

Dell’esperienza in Korengal Piro coglie, insieme alle sue sensazioni di embedded con gli americani in quel momento, anche lo spirito delle truppe Usa che si trovavano lì, che incarnano la guerra dello scontro a fuoco, del combattimento e della difesa, e non quella della geopolitica che dall’avamposto sembra così lontana. Una delle decisioni più controverse del nuovo capo della missione Isaf, il generale Mc Chrystal, sarà proprio quella di chiudere la base in Korengal nel 2010, per impiegare le truppe in altre aree maggiormente popolate. Fino a quel momento le vittime fra i soldati americani sul posto erano state 42.

Il tema dello straniamento, nel passaggio da un mondo ad un altro, da una contemporaneità “occidentale” ad un’altra fatta di tradizioni antiche, ricorre più volte nel racconto, e non a caso Piro dedica un capitolo della prima parte del libro, Marziani, alla base italiana di Al Bateen, sorta a ridosso dell’aeroporto di Abu Dhabi ed utilizzata come scalo da e per le missioni in Afghanistan e Iraq. Parlare della base diventa anche il pretesto per descrivere l’atteggiamento dei governi del Golfo.

La penisola arabica è diventata la rampa di lancio occidentale verso le guerre in Medio Oriente ma nessuna bandiera o nessun altro segno distintivo deve far capire che qui ci sono gli italiani ovvero militari occidentali. È l’ipocrisia del Golfo, da cui l’Occidente dipende per le forniture di greggio e da dove il flusso dei petroldollari finisce a finanziare, quando va bene, il proselitismo planetario per le correnti musulmane più radicali come i wahabiti e i salafiti; nel caso peggiore va direttamente ad alimentare la guerriglia islamica nel mondo. L’Emirato non vuole far sapere ai propri sudditi che appoggia le guerre dell’Occidente, contro le quali tuonano gli imam nelle moschee, né vuole esporsi a rappresaglie terroriste. Per salvare le apparenze, i militari italiani possono uscire da questa base solo senza divisa, in borghese, come turisti di passaggio.

Più volte Piro evidenzia come punto di non ritorno nel cambio di strategia americana, e di conseguenza anche del resto della coalizione, Italia compresa, l’elezione di Obama alla presidenza.

Nei primi mesi del suo mandato autorizza un primo aumento di truppe e avvia una revisione complessiva. L’incremento del numero delle truppe statunitensi impone a Washington di chiedere agli alleati la stessa cosa. Ed è così che nel 2009 le forze convenzionali italiane in Afghanistan entrano in guerra, le forze speciali lo erano già da anni, coperte dal segreto. E mentre il già caldo fronte di Bala Morghab si incendia se ne apre un altro nella provincia di Farah. Da quel momento il numero di caduti nella missione italiana comincia a salire. A Bala Morghab moriranno quattro militari italiani. La Fob Columbus sarà ceduta dai bersaglieri all’esercito afghano nel settembre del 2012, sancendo la fine delle attività della Task Force North e della presenza italiana nella valle. Poco meno di un anno dopo il governatore distrettuale di Bala Morghab e i residenti della zona denunceranno che la valle è diventata un rifugio sicuro per i talebani, accusando il governo di non fare nulla per riprendere il controllo della situazione.

Nella narrazione della missione afghana si innesta anche il racconto della sua “gestione” politica in Italia, e del racconto mediatico che ne deriva, soprattutto in caso di eventi tragici. La necessità di garantire maggiore sicurezza ai soldati, e di rassicurare l’opinione pubblica su questo aspetto, orienta a volte il racconto dei fatti.

Se è importante dare ai propri militari l’equipaggiamento migliore e quello più adatto alla missione, parlare di sicurezza in guerra non è altro che un’illusione, un’arma di propaganda o nella migliore delle ipotesi, una contraddizione in termini.

La linea italiana è quella di un racconto sempre parziale, in qualche modo rassicurante. Le motivazioni delle decorazioni sono, al riguardo, illuminanti. Il comunicato dell’8 settembre 2006 – esplosione IED, con il ferimento di quattro incursori della Marina – non cita in alcun modo l’operazione Sarissa, né l’attacco complesso che viene portato alla colonna italiana.

La missione italiana era ed è stata una guerra; missione che per anni è stata raccontata all’Italia secondo comodità politiche o comunque in maniera a dir poco parziale, anche quando si è trattato di vittime civili.

Nel cambio strategico voluto da Obama è previsto anche un aumento del numero dei soldati sul campo: se nel luglio del 2007 erano 41 mila, un anno dopo raggiungeranno quota 52 mila 900, solo per la missione Isaf, senza contare gli americani di Enduring Freedom, che crescono da 17 mila a 23 mila 550. L’Italia passerà dai 2 mila 350 soldati del 2009 ai 3 mila 150 del 2010, diventando il quinto paese presente nell’area per numero di unità. Questo incremento rivela, in concomitanza con le presidenziali afghane del 2009, la paura di non riuscire a tenere a bada la guerriglia durante – e dopo – il voto, fondamentale banco di prova per la tenuta della missione.

All’incremento numerico dei militari fa seguito la richiesta di interventi sempre più rivolti al coinvolgimento della popolazione civile, cercando di limitare pratiche come le irruzioni notturne e le perquisizioni personali e delle case, che inevitabilmente causano ostilità. Senza contare la necessità di limitare l’uso dei bombardamenti, causa del 20% delle morti fra i civili.

In pratica, scriverà Mc Chrystal nel suo rapporto al presidente, i soldati occidentali passano più tempo a difendersi che a difendere la popolazione locale.
Si chiedeva ai soldati di fare molto più di quello per cui erano stati addestrati. Da guerrieri dovevano diventare diplomatici e antropologi, in una delle aree più lontane dalla civiltà contemporanea che il mondo possa oggi ospitare.
La mappa etno-linguistica dell’Afghanistan è molto complessa e si possono fare dei grossi errori come quelli di chi negli ultimi anni, di fronte al fallimento della missione afghana, ha proposto di dividere il paese in stati etnici, un po’ come si era pensato di fare per l’Iraq post Saddam. Sul piano pratico è un problema enorme: mandare una compagnia di tagiki nel cuore del sud o comunque in una valle abitata solo da quella etnia, equivale a un’invasione straniera, quasi a una provocazione. Significa risvegliare i rancori e le divisioni della guerra civile, non i sentimenti di solidarietà e rispetto verso un’istituzione da considerare come nazionale.

In questo contesto si arriva alla transizione, al passaggio di consegne alle forze locali ancora non del tutto rappresentative della complessa comunità afghana, e troppo costose per essere mantenute senza gli aiuti internazionali.

Dopo 15 anni di guerra, l’Occidente lascia l’Afghanistan al suo destino di fronte a una guerriglia finanziata dai paesi del Golfo, alimentata dal traffico d’oppio, sostenuta dall’aiuto pakistano, già saldamente re-insediatasi in quelle zone remote da dove le truppe Isaf si erano ritirate nel 2010.

Il punto di vista dei civili afghani, delle perdite subite dalla popolazione, dei cambiamenti nelle loro vite è approfondito soprattutto nella seconda parte del libro, Tashakor: spesso trattati con sospetto e come presunti nemici del loro stesso paese, i civili hanno visto aumentare il numero di attacchi talebani e le vittime hanno superato quelle degli incidenti stradali. Insomma il paese non ha allontanato lo spettro della guerra civile. L’unico rapporto attendibile sui morti afghani viene stilato da Unama, la missione Onu in Afghanistan.

Il primo è stato pubblicato solo nel 2008, sette anni dopo l’inizio del conflitto, e si stima che il numero di vittime civili fra il 2001 e il 2014 sia stato di oltre 26 mila, la maggior parte uccise dopo il 2007, almeno 17 mila. Nel 2015 si registra il record di sempre dalla caduta dei talebani con 11 mila vittime civili (3 mila 545 morti e 7 mila 457 feriti) con un incremento del 4%.

L’informazione occidentale ha trattato le vittime civili come qualcosa venduta a peso: un sacco di semi o di pistacchi di cui conta solo la quantità perché sono tutti uguali fra loro. E’ stato ulteriormente sancito un principio, le vittime hanno dignità e diritti postumi che differiscono da latitudine a latitudine.

Tanti sono i problemi del paese che un quindicennio di missione non è riuscito a risolvere: uno di questi è la produzione di oppio. Secondo gli studi delle Nazioni Unite del 2005 e del 2009, riportati qui dall’autore, il numero di persone che ne fa uso è passato da 150 a 230 mila (+53%), mentre i consumatori di eroina sono passati da 50 a 120 mila (+140%).

E’ la riprova di come il fenomeno abbia perso la sua natura tradizionale e si sia tristemente modernizzato, con una crescita alimentata da una sorgente inestinguibile di sostanze a basso prezzo. Il rapporto sulla produzione nel 2013 è una sorta di testamento all’ultradecennale missione occidentale che si chiuderà pochi mesi dopo la sua presentazione. L’eredità è drammatica: la produzione di oppio supera il record del 2007, i campi coltivati a papavero coprono una superficie da 209 mila ettari, un primato storico. In termini di raccolto, la produzione è aumentata di 5mila 500 tonnellate rispetto al 2012 (+49%).

Nonostante la retorica del burqa, usata soprattutto a livello propagandistico, la situazione generale delle donne nel paese non è migliorata: i casi di violenza contro le donne che arrivano in tribunale continuano ad essere una netta minoranza rispetto a quelli gestiti con le shura di villaggio. Secondo il rapporto delle Nazioni Unite del 2013, su 1669 casi registrati dal Dipartimento degli Affari Femminili solo il 7% hanno portato ad un procedimento giudiziario (109 casi). Inoltre la maternità continua a mettere a rischio la salute della madre e del bambino, solo il 14% delle nascite avviene con l’assistenza di personale sanitario, e un bambino su cinque muore prima di raggiungere i cinque anni di età.

Se il burqa non può essere un metro di misura della condizione femminile, anche se spesso può diventare una comoda bandiera di propaganda, altri fattori meno mediatici possono meglio descrivere lo stato delle donne afghane. A dieci anni dall’invasione militare, con relativo corredo di milioni di dollari in aiuti, l’Afghanistan risulta essere il luogo più pericoloso al mondo dove possa vivere una donna tra violenza, sanità inesistente e povertà. Riesce persino a battere il Congo (400 mila stupri all’anno), il Pakistan con i delitti d’onore, l’India con la tratta e la Somalia con le mutilazioni genitali.

Eppure gli aiuti internazionali sono piovuti sul paese sin dall’inzio della missione. Nella terza ed ultima parte, la casta, Piro riporta alcuni dati come quelli del Rapporto Oxfam che spiegano bene dove finisca gran parte del flusso di denaro arrivato in Afghanistan:

uno studio di Oxfam ha dimostrato come il 40% degli aiuti internazionali ritorni ai paesi donatori sotto forma di stipendi per i consulenti e profitti per le aziende impegnate nei progetti. Dal 2001 al 2007, questo flusso di ritorno è stato pari a circa sei miliardi di dollari. I margini di profitto per un progetto di ricostruzione vanno dal 20 al 50%, mentre un cosiddetto espatriato che vive e lavora in Afghanistan per un’azienda/organizzazione privata, può arrivare a costare tra i 250 e i 500mila dollari all’anno. I fondi sono talmente tanti che né il governo né gli stranieri riescono spesso a gestirli. E pur di raggiungere gli obiettivi di spesa si implementano progetti a volte inutili e spesso mai completati o non verificati negli esiti.

Alla base di tutto resta la domanda più importante: cosa sapevano e cosa sanno oggi gli afghani dell’11 settembre, e del motivo ufficiale della presenza internazionale sul loro territorio? I dati a riguardo sono disarmanti: la maggior parte di loro, soprattutto nelle aree remote del sud, non ne sa nulla.

A Helmand e Kandahar, considerando gli uomini in età combattente, meno di uno su dieci sa cosa sia avvenuto l’11 settembre e la minoranza che conosce quei fatti ritiene che siano frutto di un complotto americano.
Nove anni dopo l’inizio del conflitto, scopriamo in pratica che gli afghani non sanno perché le nostre truppe sono nella loro terra e perché danno la caccia a talebani e ribelli, trasformando villaggi in campi di battaglia, costruendo caserme su terre una volta libere e posti di blocco lungo le strade. Avevamo cominciato un conflitto senza preoccuparci di far sapere alla gente che ci viveva perché eravamo lì.

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Titolo: Afghanistan missione incompiuta 2001-2015

Autore: Nico Piro

Editore: Lantana editore

Pagine: 716

Prezzo: E-book 9,99 €

Anno di pubblicazione: 2016



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