Tunisia al voto: dalla politica ai media
è ancora lungo il cammino dei diritti

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Tra i protagonisti delle elezioni legislative in Tunisia di domenica 26 ottobre, secondo appuntamento con le urne nel periodo post-Ben Ali che porterà alla formazione del nuovo Parlamento, spicca la figura di Mahmoud Bouneb, la cui storia è diventata un caso internazionale. Giornalista con una lunga carriera nel mondo dei mass media ed ex dirigente di Al Jazeera, tra i fondatori di Al Jazeera Children, Bouneb è capolista dell’alleanza elettorale l’Unione per la Tunisia (Upt) per il partito Al Massar (centro sinistra) nella circoscrizione del Paesi arabi. È stato scelto sia perché è ritenuto il volto giusto per rappresentare i tunisini all’estero, sia per ricordare al mondo la sua situazione particolare. Bouneb è da tre anni “ostaggio” del Qatar per una questione giudiziaria “ambigua” che la diplomazia tunisina non è ancora riuscita a risolvere per riportare il suo cittadino in patria. La sua campagna elettorale, dunque, si è svolta principalmente sui social media e in internet, aumentando la sua popolarità e la solidarietà verso la sua persona e la vicenda che lo riguarda ritenuta dai più “assurda”. La candidatura, da molti considerata “una provocazione”, è stata voluta con forza dal Comitato Nazionale di solidarietà presieduto da Néji Bghouri, presidente del sindacato dei giornalisti tunisini, e in particolare da due membri, Fayçal Hassairi et Taoufik Ben Abdallah.

Mahmoud Bouneb, ha accettato subito la proposta?

La proposta mi ha sedotto essendo, non lo nego, un giornalista indipendente con idee e credenze vicine alla sinistra liberale, con 40 anni di vita vissuti fuori della Tunisia, in Europa, America e, infine, nel mondo arabo. Mi sono detto che, se sarò eletto, potrò contribuire a rafforzare il processo democratico e i valori di libertà, laicità e diversità in Tunisia in questa fase critica della nostra storia. Poi c’è da considerare la mia situazione particolare in Qatar, essendo stato citato in giudizio a seguito di un complotto covato dal mio ex datore di lavoro, per cui mi è illegalmente proibito di viaggiare da più di 3 anni. La candidatura potrebbe contribuire a sbloccare questa situazione assurda e kafkiana che non ha nulla a che fare con la giustizia. Pertanto, non essendo in grado di muovermi dal Qatar per incontrare i miei elettori, ho condotto una campagna attraverso i social media con l’appoggio dei militanti del partito. Non è andata male, considerando che i miei potenziali elettori si trovano nei cinque continenti.

Quali sono state le sue proposte in materia politica?

Premetto di non essere un attivista politico e di non avere l’ambizione di fare una carriera politica professionale. Secondo me l’azione politica dovrebbe essere un gesto di volontariato al servizio del proprio Paese e della comunità. Non ho fatto quindi nessuna promessa che non potrò mantenere e farò del mio meglio per aiutare il partito nel suo programma elettorale: un programma realistico di centro sinistra incentrato su sicurezza e lotta contro il terrorismo, giustizia sociale, rafforzamento dei processi democratici, riforma amministrativa e fiscale e sviluppo delle regioni svantaggiate del Paese. Ho anche una serie di suggerimenti per migliorare l’integrazione dei tunisini residenti all’estero nel Paese di accoglienza senza perdere l’identità nazionale e garantire loro i diritti civili e professionali. Poco più del 10% dei tunisini vive fuori, in particolare nell’Unione Europea, e soprattutto Francia e Italia – che accolgono quasi un milione di tunisini – sono due Paesi nostri partner e nostri vicini, con i quali dobbiamo assolutamente rafforzare relazioni e scambi.

Quali sono le sue previsioni sia per le elezioni legislative, sia per le presidenziali del 23 novembre?

Sono entrambe elezioni cruciali per il futuro della nostra giovane democrazia. A quattro anni dalla rivoluzione che ha travolto il regime del presidente Ben Ali, il Paese vive ancora una grande crisi. L’economia stenta a decollare e i politici di ogni colore appaiono carenti d’ispirazione e di risorse per stabilire il nuovo sistema e per ripristinare fiducia e speranza nei tunisini. Il Paese ha bisogno di stabilità per trovare la pace. Tuttavia, qualunque sia l’esito delle elezioni, saremo obbligati a comporre una maggioranza parlamentare coerente per formare un governo stabile e omogeneo che vada in un’unica direzione. Non posso che augurarmi che questo governo sia formato da una maggioranza liberale e di centro-sinistra per garantire un’alternanza e dimostrare ai tunisini che è possibile avere una politica non di parte, basata sui valori del lavoro, della giustizia e la buona governance che il caos non è né destino, né inevitabile. Dobbiamo ammettere che l’esperienza di governo della Troika ha lasciato nei tunisini l’amaro in bocca. Perché alcuni arrivino al punto di rimpiangere il vecchio regime e applaudire i suoi baroni tornati sulla scena politica, bisogna che abbiano perso veramente fede nel periodo post-rivoluzionario… Pertanto, ritengo che il mantenimento di equilibri politici falsi negli ultimi tre anni abbia portato al Paese più malumore e potrebbe causare gravi crisi politiche, economiche e sociali. I tunisini aspirano a maggiore innovazione e freschezza. Hanno bisogno di speranza e fiducia per tornare al lavoro.

Ci può spiegare cosa è successo di inatteso nel suo percorso professionale dopo tanti anni di dirigenza ad Al Jazeera?

Vivo in Qatar dal 2001 impegnato come presidente del gruppo Al Jazeera. Nel gennaio 2004, sono stato responsabile per il lancio del canale Al Jazeera bambini (JCC), e nominato Delegato Direttore Generale del progetto. JCC è un canale ludico-educativo lanciato dall’ex First Lady Sheikha Moza Bint Nasser del Qatar, appartenente alla Qatar Foundation per l’Educazione, la Scienza e la Comunità per lo sviluppo, che lei presiede. Ho fondato JCC nel settembre 2005 e, nel gennaio 2009, un altro canale per bambini in età prescolare (3-6 anni), Baraem TV, e ha diretto l’azienda per otto anni dal 2004 al 2011, senza alcuna noia. Entrambi i canali si sono sviluppati sulla scena araba e internazionale, compresa l’Italia, e sono stati riconosciuti dall’industria come un servizio pubblico serio e credibile offerto dal Qatar a bambini e famiglie nel mondo arabo, incoraggiando lo sviluppo dei bambini e la promozione dei valori universali di educazione, libertà, tolleranza e diversità. Ho incontrato la first lady 4-5 volte l’anno e ho avuto con lei un rapporto professionale basato su fiducia, rispetto e considerazione. Sono sempre stato riconosciuto dai miei datori di lavoro come una persona affidabile, dedicata e competente. Tuttavia, il 27 settembre 2011, senza alcun preavviso o spiegazione, sono stato vittima di un improvviso e ingiusto licenziamento, del divieto di viaggio e dell’accesso al mio ufficio. Un mese dopo il mio licenziamento mi è stato comunicato che la nuova leadership di JCC ha chiesto al procuratore generale del Qatar di aprire un’indagine penale contro di me e 5 colleghi consiglieri con l’accusa di “corruzione e appropriazione indebita di fondi pubblici” imponendoci il divieto di lasciare il Qatar. Benché assolti da tutte le accuse penali, insieme a due miei colleghi, in due revisioni dei conti, di cui una della Corte suprema del Qatar, ci troviamo di fronte a un processo iniquo da febbraio 2013 che si trascina senza arrivare a un verdetto, semplicemente perché non c’è reato. A quasi 60 anni, sono tenuto contro la mia volontà in Qatar da più di tre anni, distante dalla mia famiglia, senza lavoro, senza risorse finanziarie, senza un’adeguata assicurazione medica, di fronte a uno stress costante che colpisce la mia salute, di fronte alle accuse abiette e completamente infondate e un processo trascinato semplicemente per far risparmiare tempo ai nostri aguzzini, per tenerci più a lungo possibile in Qatar e nel silenzio. I nostri diritti umani e sociali fondamentali sono violati. Tuttavia, questo incubo non mi ha impedito di lottare per la mia integrità.

In che modo si può diventare “ostaggio” del Qatar come è successo a lei?

Il Qatar è un Paese giovane, dinamico e ambizioso e ci sono persone di buona volontà. Tuttavia, sono in vigore alcune leggi retrograde, come quella della “sponsorizzazione”. In questo sistema assurdo ogni dipendente straniero per vivere e lavorare in Qatar ha bisogno di un “Kafil”, cioè uno sponsor che di solito è il datore di lavoro. Questo Kafil può, in caso di conflitto, esercitare violazione di diritti rispetto al lavoratore, per esempio privarlo di un visto di uscita, impedirgli di lasciare il Paese o creando intorno a lui un caso giudiziario. Questa pratica di dominazione, spesso in contrasto con lo spirito della legge, conferisce alle autorità locali poteri quasi illimitati di esercitare la loro volontà sui dipendenti indesiderati di cui vogliono sbarazzarsi. Questo è quello che è successo a me e ai miei colleghi dopo il licenziamento. Dato il potere e l’impunità del nostro datore di lavoro, tuttavia, il nostro caso ha assunto dimensioni che superavano di gran lunga l’ambito una semplice controversia di lavoro e un caso giudiziario ordinario.

Qual è la situazione dei tunisini nel mondo? Dove si trova la più grande concentrazione? Qual è la differenza tra i tunisini che vivono nei paesi del Golfo e coloro che vivono in Europa?

Attualmente ci sono tra 1.200.000 e un milione e mezzo di tunisini all’estero. Quasi un milione di persone vive nell’Unione europea, in particolare in Francia, Italia, Germania e Paesi del Benelux. L’immigrazione tunisina verso Nord risale al XX secolo, data la vicinanza, i rapporti storici e la necessità di lavoro dei Paesi europei dopo la seconda guerra mondiale. Tuttavia, oggi crescono i tunisini tentati da nuovi orizzonti: Nord America, Sud Est Asiatico e Africa sub-sahariana. I Paesi del Golfo sono stati scoperti dal tunisino dopo la crisi del Kuwait nel 1990. Oggi dozzine di migliaia di tunisini vivono tra Dubai, Abu Dhabi, Doha, Riyadh, ma a differenza dei Paesi europei e del Nord America dove l’integrazione è più accessibile, i Paesi del Golfo sono solo Paesi di transito. Non è possibile vivere qui da residenti per un lungo periodo. È molto difficile, per non dire impossibile, stabilirvisi in modo permanente e acquisire la cittadinanza. Inoltre i diritti dei lavoratori sono rispettati maggiormente in Europa che nel Golfo.

Che pensa del paesaggio audiovisivo arabo?

Quando ho iniziato a lavorare sul progetto di Al Jazeera Children alla fine del 2003, avevamo sui due satelliti arabi, Nilesat e Arabsat, circa 250 canali televisivi arabi, oggi ce ne sono più di mille. Se domani, come per magia, 900 di questi scomparissero e ne resterebbero un centinaio, il pubblico non noterebbe la differenza. Il panorama dei media arabi è l’immagine del mondo arabo. È il caos totale. Nessuna legge, nessun regolamento, nessun mercato. Sui mille canali che trasmettono nella nostra zona, ce ne sono meno di trenta che possono affermare di avere bilanci in pareggio e di fare profitti. La serie più costosa della storia televisiva nel mondo arabo è stata la storica produzione dedicata al califfo Omar, costata 20 milioni di dollari. Ma se non ci fosse stata la partnership tra MBC Group e il governo del Qatar, questa serie di 30 episodi non sarebbe mai stata realizzata. In Europa si producono spesso serie televisive di un milione di euro a episodio, e canali come Arte e la BBC possono investire da 3 a 5 milioni di euro per un documentario. Se provi ad avvicinarti oggi ad Al Jazeera o Al Arabiya per proporre un documentario di 100.000 euro, ti guardano di traverso! Vuol dire che nel mondo arabo la tv è un mezzo destinato a fare soldi con costi bassi. Gli arabi spendono molto di più per la propaganda politica, religiosa e anche personale che per la produzione di contenuti. Finché i contenuti non entreranno nelle loro agende, continueranno a considerarli solo uno spreco di denaro. Inoltre, la maggior parte dei canali televisivi arabi, se non tutti, parlano la lingua di coloro che li finanziano, sia statali, sia privati. Non c’è nessun canale, pubblico o privato, totalmente indipendente del potere politico, finanziario, religioso o altro. È triste ma è così.

E di quello tunisino?

Se il paesaggio arabo è caotico, quello tunisino è disordinato. Fortunatamente vi è la libertà di espressione che copre un po’ il disordine e l’anarchia, ma la situazione è davvero preoccupante. Le autorità hanno grande difficoltà a mollare la presa sui media finanziati dal denaro pubblico e ne’ sembrano fare differenza tra servizio pubblico e media di governo. La censura non è così forte come ai tempi di Ben Ali, ma nessuno può affermare oggi che la tv e le radio nazionali tunisine siano indipendenti, capaci di assumersi la responsabilità sacra per qualsiasi servizio pubblico di informare liberamente, di creare liberamente e di ascoltare liberamente, come parte di una missione pubblica di servire la comunità nella sua unità e diversità, non al servizio del potere. Nei canali privati​​, è un peccato da vedere, ma tutti coloro che hanno investito nelle trasmissione dopo la rivoluzione, confondono un canale tv con un altoparlante. La maggior parte dei nostri media sono la voce del loro maestro, tunisino o straniero che sia. Inoltre, non c’è un codice etico tra i canali, e l’HAICA che è l’organismo di regolamentazione, fa quel che può per contenere le fuoriuscite e limitare i danni, ma il male è molto profondo e tanti proprietari di canali televisivi mostrano una totale mancanza di responsabilità e di disciplina nei confronti degli spettatori.

Pensa che il ruolo della televisione avrà un peso sui risultati delle elezioni tunisine?

Penso molto poco, anche se la campagna si è svolta principalmente in tv, ma a parte un paio di programmi in cui giornalisti ed editorialisti si sono impegnati a essere obiettivi e professionali, i contenuti sono stati cupi, direi anche tristi, soprattutto sui canali pubblici. Inoltre, non si può fare a meno di notare che la maggior parte dei contenuti sui canali privati è priva di etica editoriale. Pur avendo ottimi giornalisti e produttori qualificati e dedicati, le tv private ​​non hanno ancora raggiunto maturità e responsabilità sociale per colpa di una gestione centralizzata e personalizzata. Non si fa nulla senza l’approvazione del proprietario. Per essere onesto, devo riconoscere che per investire in tv o nel settore audiovisivo in Tunisia, basta poco, molto poco. Così, la maggior parte dei canali sopravvive con pochi mezzi e risorse. Ma ciò che rende più complicata e pericolosa la situazione è che alcuni proprietari di canali hanno agende politiche personali e vogliono asservire il canale alla loro ambizione.

Vai a www.resetdoc.org

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *