Tra Oriente e Occidente.
Colloquio con lo scrittore Tabish Khair

Da Reset-Dialogues on Civilizations

L’appartenenza a una minoranza come fonte di conoscenza e di arricchimento. La diversità come strumento di crescita culturale. La comprensione dell’altro come chiave per acquisire consapevolezza di se stessi. Per Tabish Khair, scrittore indiano residente in Danimarca e pubblicato in Italia dalla casa editrice Nova Delphi, la letteratura è un modo per smascherare gli stereotipi, spingere al confronto, trovare punti di contatto tra realtà diverse, tra Oriente e Occidente, tra modernità e tradizione.

Nato quarantasette anni fa nella città nordorientale di Gaya, in una famiglia musulmana, la più grande minoranza religiosa in India, Khair ha imparato sin da piccolo a forgiare la propria identità valorizzando gli elementi più fervidi di entrambe le tradizioni e a riconoscere e rifiutare i pregiudizi legati al diverso e all’emarginato. Per questo oggi che insegna all’università di Aarhus e appartiene a una nuova minoranza, quella degli immigrati in Europa, lo scrittore pensa che “le differenze ci saranno sempre, ma gli esseri umani esistono tanto grazie alle diversità, quanto alle similitudini tra loro. È per questo che l’Europa è sempre stata multiculturale e lo rimarrà per sempre. Così come l’India o qualunque altra regione. Il punto è: come ci comportiamo noi? Continueremo a cercare di ‘purificarci’ con genocidi a intervalli regolari, oppure impareremo a fare un uso creativo e costruttivo delle differenze?”

Il razzismo e il pregiudizio sono temi spesso affrontati nei tuoi libri, anche nell’ultimo pubblicato in Italia, A proposito dei Thug. In che modo si generano queste tendenze all’interno di una società?

Il razzismo e il pregiudizio nascono dall’ipocrisia e dal cieco egoismo. Credo che gli esseri umani non siano solo egocentrici o magnanimi, buoni o cattivi, ma che tendano in entrambe le direzioni. Spesso i pregiudizi sono usati per giustificare i nostri privilegi e mantenerli in un mondo ampiamente (e inutilmente) ingiusto. Ma naturalmente i nostri pregiudizi e i nostri obiettivi cambiano a seconda dei privilegi e delle ingiustizie che vogliamo difendere. È per questo che oggi siamo assolutamente contrari alla schiavitù, ma lo siamo molto meno nei confronti dei soprusi contro gli immigrati che cercano lavoro.

Nell’ultimo libro uscito nel Regno Unito, How to Fight Islamist Terror from the Missionary Position (Come combattere il terrorismo islamico dalla posizione del missionario), ti concentri invece sulla questione dell’estremismo religioso.

L’islamismo è stato in parte una reazione ai profondi difetti delle strutture globali e locali del nostro sistema socio-economico, ma anche un tentativo dei conservatori islamici di semplificare e ridurre le molte tendenze nelle società musulmane. Il suo impatto sui musulmani è stato molto forte a causa di due motivi di cui quasi nessuno discute più. Il primo è il fatto che il ‘mondo libero’, l’Occidente, ha favorito la crescita dei gruppi islamici e delle dittature anti-socialiste nel periodo della guerra fredda per contrastare il comunismo. Il secondo è legato ai soldi del petrolio che arricchiscono le dittature nel Medio Oriente (Arabia Saudita in testa), che devono quindi concepire l’Islam in modo molto conservatore per giustificare le loro pratiche antidemocratiche. La risposta occidentale è stata dettata dai propri interessi, dall’ipocrisia o dall’impulso e purtroppo ha finito per giustificare l’islamismo agli occhi di molti musulmani.

In Europa il numero delle madrasa e delle scuole coraniche è in aumento. Cosa pensi di questo fenomeno?

Questo è uno degli aspetti della storia che ha radici molto profonde. Nei secoli, tra il 600 l’800, quando le scuole europee della teologia cristiana si stavano trasformando in università moderne e secolari – la maggior parte delle principali università europee un tempo erano fondamentalmente ‘madrasa’ cristiane – quelle musulmane cominciarono a diventare sempre più conservatrici e obsolete. Questo dipende in parte dal colonialismo, sia a livello di azione sia di reazione. Attorno all’anno 1200 le madrasa avevano un programma molto più contemporaneo e un pensiero all’avanguardia, mentre quelle di oggi sono essenzialmente delle vestigia, che rappresentano a seconda dei casi una legittima espressione dell’identità della diaspora o una potenziale roccaforte dell’estremismo. Ma in ogni caso occorrerebbe riformarle dall’interno, riportarle allo status di istituzioni di un sapere più ampio, cosa che erano un tempo.

Nei tuoi libri vengono sfatati molti stereotipi. Per esempio in Il Bus si è Fermato viene presentata un’immagine diversa dell’India rispetto a quella a cui siamo abituati in Occidente.

È stato discusso a lungo di quanto sia difficile scrivere in inglese di un paese in cui l’80 per cento della popolazione non parla bene la lingua. Ma credo che questa sia una questione marginale, un problema artistico, che può condurre a grandi esperimenti letterari in termini di narrazione, creatività e percezione. Il problema principale oggi è il modo in cui alcune grandi case editrici britanniche e statunitensi, assieme agli esperti indiani di letteratura, definiscono quella che si sta affermando a livello internazionale come narrativa indiana in lingua inglese. La mia India è diversa dalla loro ed è di questo paese che voglio parlare nei miei romanzi.

È un fenomeno che ha a che fare anche con il post-colonialismo?

Un tempo l’India era vista come una terra di villaggi, nonostante ci fossero anche le città. Dagli anni Ottanta in poi la situazione è cambiata, grazie soprattutto all’ascesa delle generazioni metropolitane della diaspora a cui appartengono Salman Rushdie e V. S. Naipaul. È stato un bene, però adesso l’attenzione è concentrata quasi interamente sulle realtà indiane metropolitane e migranti, a spese di milioni di villaggi e città. Abbiamo chiuso il cerchio, passando da uno stereotipo all’altro. Questi scrittori hanno ricevuto lo scettro di ‘esperti’ dell’India (che lo volessero o meno), anche se spesso hanno contatti limitati con il paese. Molti scrittori indiani che usano l’inglese e altre lingue indiane esitano invece a fare commenti sull’India, perché sanno che non potranno mai esaurire l’argomento.

Nei tuoi lavori parli spesso del “diverso” e della costruzione dell’identità, ricorrendo anche alla satira e all’emozione. Come è possibile narrare “l’altro”?

Io mi concentro sulla relazione del sé con l’altro, esploro la rabbia, la confusione o l’amore del sé quando si confronta con l’altro. Suggerisco i luoghi in cui il sé può incontrare l’altro e i luoghi dove l’altro ci sfugge. Credo che la satira e l’emozione possano avere ruoli diversi, a seconda di quello a cui si aspira, ma entrambe vanno, in modi differenti, oltre il linguaggio. Le emozioni, per esempio, non possono mai essere completamente ridotte al linguaggio, è per questo che sono spesso espresse con il corpo, con gesti, urla e grugniti.

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