Taksim contro Erdoğan, che fine ha fatto il “modello turco”?

Una rassegna da Reset-Dialogues on Civilizations

Le manifestazioni antigovernative di piazza Taksim e Gezi Park, rapidamente propagatesi a tutte le principali città della Turchia, hanno colto di sorpresa molti tra gli entusiasti del cosiddetto “modello turco” che, nel corso dell’ultimo decennio, ha preso corpo all’interno del dibattito internazionale sulla Turchia di Tayyip Erdoğan: una sintesi tra islam e democrazia, conservatorismo “moderato” e liberismo economico, populismo religioso e grande efficacia politico-esecutiva, e non solo negli affari interni. In poche parole, una “democrazia islamica” che, solidamente guidata dal partito Giustizia e Sviluppo (Akp), nel complesso sembrava funzionare piuttosto bene (almeno fino ad ora), soprattutto a giudicare dagli eccellenti risultati conseguiti dall’economia turca in questi anni.

Infatti, gli effetti del boom economico della Turchia di Erdoğan forse non hanno arricchito i più, ma hanno fatto emergere una nuova classe imprenditoriale, migliorato le prospettive di mobilità sociale per una nuova classe ‘media’ di provincia (i ‘nuovi ricchi’ che fanno storcere il naso alle tradizionali élites urbane e raffinate del kemalismo, colte, secolarizzate e aperte all’Occidente), perfezionato il settore industriale e turistico, alcuni servizi e non da ultimo l’immagine internazionale della Turchia, che è tornata a essere un attore di primo piano nella politica globale e regionale.

Tutti elementi positivi che, almeno fino a poco tempo fa, hanno fatto sì che il diffondersi di simboli religiosi negli spazi pubblici e il moltiplicarsi delle moschee fossero (giustamente) percepiti come parte di un gioco che, in fondo, conveniva a tutti o quasi. Ma c’è di più: almeno per i più ottimisti (e talvolta per i meno informati), la crescita e l’appetibilità dell’economia turca hanno spesso fatto cadere in secondo piano problemi ben più gravi (e forse altrettanto o più strutturali che l’islam politico) della certa idea di democrazia cara Erdoğan, come i ripetuti giri di vite governativi sulla libertà di stampa, i giornalisti in carcere, la discriminazione di alcune minoranze come gli aleviti e la lenta ma costante imposizione di piccole restrizioni di carattere religioso e “morale” – ma in fin dei conti molto concrete, come il divieto di baciarsi in metrò – alle libertà civili e ai costumi pubblici, invise soprattutto a quella parte (grande, ma non maggioritaria) della società turca di estrazione per lo più urbana, laica e liberale che è scesa nelle strade in questi giorni. Ma ecco che ora, con la violenta reazione del governo di Erdoğan e delle forze di polizia alle dimostrazioni, per l’opposizione e per molti commentatori è proprio questa “l’altra faccia della medaglia” della promettente democrazia islamica sul Bosforo a emergere e inquietare con tutta la sua forza.

Secondo alcuni commentatori, per esempio la sociologa turca Nilüfer Göle su Le Monde, la violenta risposta delle autorità turche alle manifestazioni rientra coerentemente in una dialettica personale e personalistica del disprezzo che in questi anni Erdoğan ha instaurato con propri oppositori, spesso derisi e da ultimo definiti “marginali, farabutti e ubriaconi”. Nel corso del decennio ‘erdoganiano’, il modo di governare il paese avrebbe “subito un processo di personalizzazione che ricorda il sultanato: diventato maggioritario, senza opposizione politica importante, Erdogan non esita a decidere da solo, senza degnare o consultare né i principali interessati, i cittadini, né il proprio entourage politico”. Ed è proprio questa personalizzazione del potere, “che si manifesta attraverso la sua onnipresenza nello spazio pubblico”, che oggi si rivolta contro di lui e che “cristallizza tutta la collera che la gente prova contro la sua persona.”

Secondo altri, la condotta autoritaria del governo Erdoğan in questi giorni è una dimostrazione più generica del fatto che l’islam politico non può che essere intrinsecamente antidemocratico e che, in fondo, una vera e propria “democrazia islamica” non esiste e non può esistere. Ma c’è anche chi invita a giudicare con cautela quello che sta succedendo e a non tirare le somme in maniera affrettata, suggerendo invece comprendere la situazione turca nella sua complessità.

Pochi giorni fa lo ha fatto l’intellettuale olandese Ian Buruma, che dalle pagine di Repubblica (e qui in inglese) ha spiegato che “a dispetto delle personali tendenze autoritarie di Erdoğan, che sono certo evidenti, sarebbe fuorviante credere che le attuali proteste riflettano semplicemente il conflitto tra democrazia e autocrazia. Dopotutto, il successo di ‘Giustizia e Sviluppo’, il partito populista di Erdoğan, così come il diffondersi sempre più capillare di consuetudini e simboli religiosi nella vita civile, non sono che il risultato della diffusione della democrazia nel Paese”. In fondo, commenta l’autore, “lo Stato secolare kemalista non era infatti meno autoritario del regime islamista populista di Erdoğan. Tutt’al più è vero il contrario. Ed è inoltre significativo il fatto che le prime proteste di piazza Taksim, a Istanbul, non siano sorte a causa di una moschea, ma di un centro commerciale.”

Il vero problema è che “affermare che la Turchia oggi è più democratica non equivale però a dire che è anche un Paese di più ampie vedute. Questo è uno dei paradossi evidenziati dalla primavera araba. Assicurare a tutti una voce all’interno del governo è considerato essenziale in ogni democrazia. Raramente però quelle voci sono tolleranti – soprattutto in tempi di rivoluzione.” Secondo l’autore le ragioni dei manifestanti sono evidenti, infatti “fanno bene ad opporsi alla sprezzante noncuranza [di Erdoğan, ndr] dell’opinione pubblica e alla repressione che esercita sulla stampa.” Però “sarebbe altrettanto sbagliato interpretare gli scontri come una lotta virtuosa contro il manifestarsi della religione. La maggiore visibilità dell’Islam è l’inevitabile conseguenza della diffusione della democrazia. Fare in modo che questa maggiore visibilità non vada a scapito della tolleranza rappresenta il compito più importante a cui i popoli del Medio Oriente devono fare fronte. Erdoğan non è certo un liberale, ma la Turchia è ancora una democrazia. C’è da augurarsi che le proteste contro di lui la rendano anche più tollerante.”

Ma c’è anche chi, all’interno dello stesso campo politico del premier, si mostra preoccupato e non esita a dirlo pubblicamente (e forse a dimostrazione del fatto che, anche all’interno compagine dell’Akp, sembra esistere una certa libertà di dissenso, malgrado Erdoğan). “Quello che Istanbul ha mostrato a Erdoğan è un cartellino giallo”, ha avvertito dalle pagine del New York Times la giornalista Sule Kulu, editorialista del quotidiano turco in lingua inglese Today’s Zaman, tradizionalmente vicino al movimento di Fetullah Gülen e all’Akp. “È un monito che lo incalza a ridare ossigeno alla propria agenda riformista e ad aprire canali di dialogo con tutti i segmenti della società, compresi quelli che non hanno votato per lui”, continua la giornalista.

Infatti, benché la tensione sembri essersi lievemente distesa – dopo il ritiro delle forze di polizia da piazza Taksim e le scuse, seppur giudicate insufficienti, rivolte dal vice di Erdoğan a una parte dei manifestanti (per la precisione ai soli “ambientalisti” che difendevano il verde di Gezi Park contro la costruzione dell’ennesimo centro commerciale) – ora “nulla sarà più lo stesso per la Turchia”. E neanche per Erdoğan , che le manifestazioni colpiscono in un momento piuttosto scomodo: “già da tempo il Primo Ministro è infatti impegnato nella campagna per promuovere una riforma costituzionale che conferirebbe alla Presidenza ampi poteri esecutivi, sollevando [già prima delle proteste, ndr] preoccupazioni su come possa essere garantito, in un sistema simile, l’equilibrio dei poteri”, nel caso Erdoğan decidesse di candidarsi alla Presidenza prima della scadenza del suo terzo mandato (che dovrebbe essere anche ultimo, per propria scelta) nel 2015. E ora, naturalmente, “molte persone, inclusi i suoi sostenitori, oltre agli oppositori e a importanti intellettuali, manifestano la loro preoccupazione rispetto al sistema presidenziale proposto.”

Più netta è la presa di posizione della politologa di origini turche Seyla Benhabib, titolare di una cattedra in filosofia e scienze politiche a Yale, che sempre dalle pagine del quotidiano newyorkese non esita a denunciare senza mezzi termini “La svolta autoritaria della Turchia”. “Le manifestazioni non riguardano solo la protezione degli spazi verdi urbani; riflettono invece un rifiuto molto più profondo del percorso politico intrapreso dal Primo Ministro turco e del suo partito per la Giustizia e lo Sviluppo dalla fisionomia vieppiù islamista”, spiega Benhabib.

Ma il “vero problema”, secondo l’autrice, è che – dalla minaccia (ancora non tramutata in legge) di imporre restrizioni sulla vendita di alcool, al divieto di baciarsi in pubblico, alle pressioni fortissime, “quasi da destra cristiana in America”, del governo turco per limitare il diritto all’aborto – “in un Paese dove il tasso di alcolismo è veramente minimo, il signor Erdoğan sta portando avanti una ‘guerra culturale’ contro le classi secolari, che viene ad aggiungersi all’avanzamento di una forma illiberale di democrazia”. Ed è proprio questa “microgestione morale della vita privata della gente” ad aumentare l’insofferenza verso il continuo “assalto governativo alle libertà politiche e civili”. Infatti, dal punto di vista della libertà di stampa e d’espressione artistica, la Turchia di questi anni non può certo vantare standard invidiabili, e anche i diritti d’assemblea e di protesta hanno subito notevoli restrizioni, che pochi giorni fa sono state al centro di un richiamo delle Nazioni Unite rivolto al governo di Ankara.

È proprio qui che, secondo Benhabib, vanno ricercate le radici profonde delle manifestazioni che da una settimana incendiano la Turchia: “Se un referendum costituzionale dovesse approvare le riforme [volute dal governo, ndr] e Erdoğan fosse eletto Presidente l’anno prossimo, la Turchia potrebbe ritrovarsi con un sistema presidenziale autoritario e carismatico, certamente più simile a quello della Russia o del Venezuela che a quelli degli Stati Uniti o della Francia”.

In questo contesto, anche il recente accordo di pace siglato tra il governo turco e i separatisti curdi del Pkk dopo un conflitto durato più di trent’anni rientrerebbe nel piano di Erdoğan di cooptare gli stessi curdi nel suo progetto presidenzialista. Secondo molti, spiega la politologa di Yale, Erdoğan avrebbe addirittura promesso al leader militante del Pkk Abdullah Ocalan, in carcere dal 1999, una maggiore autonomia regionale e culturale dei curdi in cambio del suo appoggio.

Sono promesse di pace e dialogo che però sembrano ignorare l’impazienza di una “nuova opposizione” che non è fatta solo di laici e nazionalisti ma anche di musulmani osservanti e non-osservanti, di curdi e altre minoranze: quella scesa nelle piazze della Turchia in questi giorni. E se, avverte l’autrice, Erdoğan “continuerà a ignorare le loro voci, c’è il pericolo che la Turchia sprofondi ulteriormente nella violenza e che l’esperimento strombazzato ai quattro venti della ‘democrazia islamica’ fallisca”.

Le contraddizioni che il cosiddetto “modello turco” deve ancora affrontare sono dunque molte, e qualcuno, forse scosso dagli eventi di questi giorni, comincia a pensare che potrebbero essere più profonde e strutturali di quanto, sbigottito di fronte al boom economico della Turchia di questi anni, il mondo non credesse. E, oltre all’islam politico (almeno quello nella tanto osannata declinazione ‘Akp’), queste contraddizioni riguardano anche, e forse soprattutto, l’economia.

Ne ha parlato qualche giorno fa l’editoriale dell’International Herald Tribune firmato da Landon Thomas Jr dal titolo eloquente “Prosperità o bolla? La Turchia potrebbe scoprirlo presto”. Forse, spiega l’autore, dopo questa settimana di tensioni è venuto il momento di chiedersi (e molti investitori sembrano averlo fatto, a giudicare dal picco in negativo toccato dai titoli di borsa turchi in questi giorni) quali e quante siano le ombre del boom turco e, soprattutto, se la crescita media del cinque percento annuo della Turchia sia veramente sostenibile in una prospettiva a lungo termine.

Tra “l’insurrezione convulsa” di piazza Taksim e un sospetto di insostenibilità finanziaria del modello economico neoliberista promosso per oltre un decennio dal partito di Erdoğan un legame sembra esserci. Peggio: le proteste potrebbero essere il sintomo di una crisi politica profonda, equilibrata fino ad ora da una crescita economica sfavillante, che però non potrà durare in eterno. “Arriverà un momento in cui la musica cesserà di suonare”, avverte qualcuno. Da due anni a questa parte, malgrado il proliferare di torri vetrate che ridefiniscono la skyline delle grandi città turche e il sorgere di shopping mall ispirati a caserme ottomane (come quello che dovrebbe sostituire lo storico parco Gezi), il sospetto che un’insidiosa “bolla” finanziaria possa nascondersi anche nel boom turco si era fatto strada in una cerchia per ora ristretta di economisti e investitori, memori delle brutte sorprese che hanno travolto il Giappone degli anni ’80, poi gli Stati Uniti, la Spagna, l’Irlanda e l’Europa intera di questo secolo.

Ma, secondo l’editorialista, il numero degli scettici è destinato a crescere. Infatti, in questi anni centinaia di miliardi di dollari in investimenti “bollenti” a breve termine hanno gonfiato l’economia turca, finanziando centri commerciali e grattacieli, e ciò che preoccupa gli analisti ora che la crisi politica di Erdoğan appare evidente e che le proteste potrebbero tramutarsi in una condizione di instabilità politica prolungata, è che “questi soldi che scottano potrebbero lasciare il Paese in modo altrettanto rapido in cui sono arrivati”. E se secondo il Primo Ministro Erdoğan la crisi politica che lo ha investito appare gestibile precisamente grazie al successo economico della “sua” Turchia (e grazie al quale molte delle sue ‘debolezze’ vagamente autoritarie gli sono state fin qui perdonate), è indubbio che “questa dinamica potrebbe cambiare in un istante, se solo l’economia dovesse fallire.”

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