La Siria, gli Asad, la fine di un mondo
Ecco perché non si torna più indietro

Da Reset-Dialogues on Civilizations

C’è solo una data sul calendario di tutti i siriani a indicare lo spartiacque tra il “prima” e il “dopo”: 15 marzo 2011. In quel giorno, per convenzione, è cominciata la rivolta siriana contro il regime incarnato dal presidente Bashar al Asad. La linea tra un “prima” e un “dopo” è lì, per tutti.
Questa rivolta è partita innanzitutto da quei siriani che, almeno negli ultimi dieci anni, si sono sentiti esclusi dal benessere economico goduto invece da un’oligarchia sempre più isolata dal resto della società. E’ uno scontro politico tra una parte della società che rivendica diritti negati da circa mezzo secolo e un’altra, espressione del potere e che non ha alcuna intenzione di rinunciare ai propri privilegi in nome della riforma strutturale del sistema.

Lorenzo Trombetta, Siria, dagli ottomani agli Asad. E oltre, Mondadori 2014

Quattro anni dopo quella primavera del 2011, la Siria conta oltre 200 mila morti, 3 milioni e 900 mila rifugiati registrati nei paesi confinanti, secondo i dati Unhcr, decine di migliaia di scomparsi. Per capire cosa è successo, e indagare le cause che hanno portato alla rivolta, Lorenzo Trombetta, giornalista, arabista e studioso di Siria contemporanea, ha dedicato un libro alla ricostruzione degli eventi storico-politici che hanno portato alla nascita dello stato-nazione siriano, alla costruzione del regime degli Asad e alla sua struttura di potere, alla raccolta di storie e testimonianze dei siriani in questi anni di conflitto.

Quali meccanismi di gestione del potere nel regime degli Asad sono stati tramandati da Hafez a Bashar, e con quali differenze?

Hafez si era basato su una struttura di potere piramidale al cui vertice di fatto c’era soltanto lui, mentre Bashar, per varie ragioni ma anche per una mancanza di carattere, di carisma e di un background militare, si è invece fatto affiancare al vertice di questa piramide da alcuni membri della famiglia o di clan alleati della famiglia. E questa è una prima differenza sostanziale. Va poi considerato che Hafez ha governato almeno per due terzi del suo trentennio in un sistema internazionale di forte polarizzazione fra Stati Uniti e Unione Sovietica, e soltanto nell’ultimo decennio, dal 1990 in poi, ha cercato di gestire un nuovo tipo di ordine che fino all’11 settembre è stato dominato dalla superpotenza americana. Forte del suo pragmatismo Hafez al Asad è riuscito a traghettare la Siria e il suo potere in questa nuova fase, guadagnando il Libano e mantenendo ancora un’alleanza di fatto con gli Usa nella seconda guerra del Golfo, quella contro Saddam.

Siria trombettaBashar invece, in un contesto internazionale assai più caotico, ha dimostrato, nei dieci anni che hanno preceduto l’inizio della rivolta, una maggiore rigidità. Un altro elemento di discontinuità è l’appoggio trasversale che Hafez aveva da parte di quasi tutte le comunità siriane, e non mi riferisco solo a quelle religiose ma in generale alle comunità etnico-confessionali e geografiche. Il suo consenso era effettivamente diffuso a vari livelli e in tutte le regioni della Siria, mentre Bashar e i suoi oligarchi gradualmente hanno concentrato il proprio potere non solo nelle mani di alcuni gruppi, ma anche solo in alcune regioni della Siria, in particolare Aleppo e Damasco, dimenticandosi o comunque lasciando che altre regioni periferiche venissero raggiunte di meno dai servizi dello stato. Questi gli elementi di discontinuità che mi sembrano più importanti per capire cosa è successo nel 2011. Poi senza dubbio il regime ha continuato ad essere autoritario, dominato da una forte repressione poliziesca e anche militare.

Il regime degli Asad può essere definito alawita tout court?

No, non può essere definito alawita, ma dominato da clan alawiti. Certo non è mai bastato essere alawiti per accedere ai vertici del potere, senza avere anche legami di sangue o interessi economici particolari. Entrambi i regimi si sono basati su un consenso diretto o indiretto di altre comunità, e non solo fra le minoranze che potevano essere rassicurate dalla promessa di protezione contro la “minaccia sunnita”, ma anche degli stessi sunniti, e in particolare le comunità mercantili di Damasco e Aleppo. Anche in questo caso Bashar ha dimostrato un indebolimento della strategia, togliendo parte dei benefici ad alcune classi imprenditoriali sunnite che invece con Hafez avevano beneficiato di questo potere.

Quattro anni dopo cos’è rimasto di quella struttura di potere? Quanto pesa ancora il regime nella Siria in guerra nel 2015?

L’apparato di sicurezza formalmente è rimasto invariato: nel 2012 ci sono stati dei rimpasti ai vertici delle quattro strutture di repressione e controllo, ma a livello formale il sistema è ancora lo stesso. C’è stato un forte controllo indiretto da parte dei servizi iraniani e russi che ad alcuni livelli oggi hanno più potere decisionale, anche perché la gestione della repressione in alcuni momenti è stata presa in carico da Mosca e da Teheran, ma questo ovviamente non appare a livello formale. Per il resto l’intera struttura del potere è rimasta uguale. Dove a livello territoriale il regime continua a governare, ad estendere il proprio controllo, i governatori continuano ad essere nominati secondo la stessa logica di prima; c’è lo stesso sistema di governo della Banca Centrale, anche se sono cambiate le condizioni economiche, e alcuni governatori vengono sostituiti più spesso perché si è comunque in una situazione di forte crisi, ed è più facile che l’uomo del regime venga messo in discussione.

In qualche modo forse è venuta a galla una struttura informale che prima era assai più nascosta. Lo stesso siriano medio oggi è più al corrente di come funzionano i servizi di controllo e repressione di quanto non lo fosse prima. Perché in un contesto di violenza prolungata e di polarizzazione, è anche meno problematico giustificare un uso così esplicito della violenza. In un contesto normale sarebbe stato assai più imbarazzante riconoscere certi metodi e certi meccanismi di gestione del potere. Ma a parte un sostanziale intervento iraniano e russo, in generale il sistema di sicurezza che poi è quello che ha caratterizzato per decenni la tenuta del regime è rimasto lo stesso.

Fai riferimento alla “maggioranza silenziosa” che secondo la versione governativa non si sarebbe mai schierata, e a questo proposito riporti una definizione di Estella Carpi: “il siriano medio fatica a emanciparsi dalla necessità di rassicurazione instillatagli dal regime”. C’è ancora chi legge Asad come “il male minore”, quattro anni dopo?

Il rapporto fra governo e comunità che per varie ragioni preferiscono il regime si basa sull’equazione: meglio questo che l’insicurezza, l’instabilità e l’incertezza. Ovviamente in una situazione di crisi e di violenza questa visione è ancora più estremizzata.

E’ un po’ il dilemma di tutti coloro che si trovano di fronte a una crescita: scegliere significa ammettere di avere una capacità di indipendenza. Rimanere sotto l’autorità paterna sicuramente dà dei problemi e fa sentire limitati, ma per certi aspetti dà sicurezze e certezze che fanno andare avanti. Non è certo una specificità dei siriani o del mondo arabo, ma in Siria, anche prima del 2011, questa era la sensazione più diffusa. In fondo le comunità che si sono rivoltate sono state, a parte alcuni intellettuali che avevano gli strumenti per dire basta in nome della politica e dell’ideale, quelle che non avevano più nulla da perdere, mentre chi rischiava qualcosa, a parte delle eccezioni, è rimasto a casa.

Ovviamente in un clima in cui dall’altra parte c’è oggi lo Stato Islamico, o in cui molti hanno perso familiari, amici, la casa, la propria città e ogni tipo di prospettiva, appare difficile trovare un siriano che in piena sincerità non dica “se avessi saputo cosa sarebbe stato oggi forse non sarei sceso in strada”.

Dall’alto delle osservazioni intellettuali e teoriche spesso esaltiamo altri aspetti, ma ci dimentichiamo che anche il siriano medio con uno stipendio e una famiglia da mandare avanti non aveva bisogno di sapere che poteva andare a subire le torture, gli bastava sapere di poter perdere quel minimo di stabilità.

Esistono ancora gruppi di opposizione non violenta attivi all’interno del paese?

Ci sono ancora gruppi non violenti nel paese. E continuano a essere attivi. Ovviamente molti hanno cambiato i loro membri, perché alcuni attivisti sono partiti, altri sono stati uccisi. Alcuni gruppi si sono sciolti, altri hanno avuto dei ricambi. Ma in una situazione molto fluida e in continuo cambiamento, l’attivismo non violento continua ad essere molto forte anche se poco raccontato, e pure a livello territoriale a volte messo ai margini. E’ presente nelle zone controllate dalle forze governative, e in quelle fuori dal controllo del regime. Anche nelle zone controllate dallo Stato Islamico esistono gruppi che, con una maggiore attenzione alla visibilità, ovvero lavorando sotto copertura, si inventano vari stratagemmi pur di continuare a svolgere le loro attività.

Di questi aspetti che riguardano la società civile però non si racconta. E’ solo un problema di accesso alle informazioni?

In generale la Siria non è un tema che ormai richiama l’attenzione, a meno che non ci sia un nuovo video dell’Isis, che potrebbe essere stato girato in Siria ma anche da un’altra parte. L’Isis ormai è diventato un titolo, un tema, un tag disgiunto dalla Siria. Nel racconto il contesto conta sempre meno. In più la questione della società civile è poco attraente: è un argomento considerato un po’ più d’élite, e per fare in modo che le storie prendano l’interesse del grande pubblico serve un traino diverso. Serve entrare nel dettaglio, spiegare, e destrutturare alcuni preconcetti che la gente ormai si è fatta. Ad esempio riuscire a far capire che anche prima del 2011 c’erano persone che pensavano e che facevano attivismo e che sì, esiste chi continua a fare attività non violenta anche sotto l’Isis.

La comunità internazionale: Europa e Usa hanno ancora un peso nella questione siriana?

L’Europa non riesce a sviluppare una politica estera in modo indipendente e univoco. E nel caso siriano questo è stato evidente. Ha avviato numerosi cicli di sanzioni al regime, ultima qualche giorno fa, ma l’efficacia sul terreno è stata minima e comunque, come sempre accade, le sanzioni danneggiano i ceti vulnerabili e non gli uomini del potere. Ultimamente l’Ue sta cambiando rotta perché ha capito che la Russia e l’Iran hanno le redini del gioco in Siria: in assenza di alternative, con l’Isis che preme e con un Iran che va corteggiato per chiudere questa partita nucleare, l’Unione Europea si sta preparando a riaprire le sedi diplomatiche a Damasco e tornare a dialogare almeno ufficialmente col regime.

Per quanto riguarda gli Usa, Obama nel suo secondo mandato ha dimostrato ancora più difficoltà a comprendere i meccanismi per gestire l’influenza americana in Medio Oriente. Nel 2011 aveva fatto una serie di dichiarazioni che sembravano favorevoli ad un’opposizione anti regime, a non considerare Asad come parte della soluzione. Poi nel corso del tempo ha cambiato rotta, ha gradualmente ceduto ai russi l’iniziativa, e l’accordo dopo l’attacco chimico del 2013 è stato un altro passaggio chiave. L’amministrazione Obama si è ormai ritirata dalla partita, ma anche se con le prossime elezioni dovessero arrivare i repubblicani, non credo che avranno un atteggiamento muscolare tanto da sfidare le potenze russa e iraniana e cambiare gli equilibri in campo.

E’ concretizzabile nel lungo periodo l’idea di un Kurdistan indipendente in Siria come quello iracheno? Che ruolo potrebbero avere i curdi nel futuro del paese?

Il Kurdistan occidentale è già adesso una realtà che si sta dimostrando sempre più autonoma. Non necessariamente diventerà una realtà associata territorialmente a quella irachena, ma ha tutte le carte per essere una regione caratterizzata da una forte autogestione. Non credo a una spartizione formale della Siria attuale, credo piuttosto in una spartizione in zone di influenza ma con gli stessi confini internazionali. Mentre nel Kurdistan iracheno c’è una continuità territoriale, le tre aree siriane sono divise da territori difficilmente unificabili perché non a maggioranza curda: la cosa più probabile è che l’area più ampia a nord est, al confine con Turchia e Iraq, si trasformi in zona autonoma.

In un contesto di crisi come quella siriana si tratta forse di uno dei pochi aspetti positivi. Dalle testimonianze raccolte, è una parte di Siria più sicura e dove i curdi dimostrano una buona capacità di amministrazione, cosa non scontata. Anche politicamente c’è una sorta di accordo per cui nessuna forza esterna minaccia questa autonomia di fatto, e l’unica resta lo Stato Islamico.

Si può immaginare una Siria di domani senza Asad?

Credo che questa situazione di violenza prolungata, di frammentazione, di tante guerre che si combattono all’interno di una grande guerra, un po’ come è successo nel caso della guerra civile libanese, porterà ad una decina d’anni di instabilità, ad altri grandi momenti drammatici, ed episodi di violenza. Credo che forse l’arco temporale del nostro breve termine sono cinque, dieci anni, prima non vedo la possibilità di cambiamenti cruciali. Quando però parliamo di Siria senza Asad, dobbiamo ricordare che ci sono già delle zone senza Asad da tempo. Una parte della Siria si è già lasciata alle spalle il regime, e dove questo non è avvenuto, il regime è dovuto scendere a patti con una situazione diversa. Prima facevo riferimento al forte intervento iraniano e russo: anche questo avrà un prezzo. Lo stesso regime ne esce con una sovranità limitata rispetto a prima sui territori che ancora controlla. Quando si dice che non ci si vuole vendere, agli americani, al Qatar, questo ragionamento vale anche per chi ha accettato il sostegno di Iran e Russia e che ha ipotecato la capacità di fare in futuro scelte indipendenti.
La Siria degli Asad di prima del 2011 non esiste più. Esistono delle zone ancora molto ampie sotto il controllo del regime ma il rapporto fra potere e suddito è destinato a cambiare, anche se adesso è difficile poter vedere il cambiamento.

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