Papa Francesco e la “superpotenza”
della Chiesa in America

Articolo pubblicato su La Voce di New York il 21 settembre 2015

«Mentre i prelati europei languivano negli abietti palazzi di una nobiltà sradicata ed succhiavano soldi e spirito dai contadini ignoranti, la mistura americana di patriottismo, sindacalismo, moderazione sociale e religiosità ha prodotto una delle Chiese più vibranti e popolari». Così, nel 1997, Charles Morris descriveva le ragioni del vantaggio preso dalla Chiesa degli Stati Uniti sulle Chiese parassitarie dell’Europa e, potremmo aggiungere, dell’America Latina (American Catholic: The Saints and Sinners Who Built America’s Most Powerful Church).

La Chiesa cattolica universale si è, nel corso del XX secolo, progressivamente “americanizzata”. Affacciatasi al nuovo secolo ancora bellicosamente opposta ai principi dell’inseparabilità di Stato e Chiesa, della libertà religiosa e di coscienza, lo ha concluso sulla sponda opposta. I successi della secolarizzazione, la perdita di contatto con le masse contadine inurbate e proletarizzate, la guerra europea tra potenze cattoliche e, infine, la decolonizzazione, hanno imposto alla Chiesa cambiamenti radicali, faticosi e dolorosi, che le sono costati crisi e fratture. Ma che le hanno anche permesso di prendersi la rivincita sulla secolarizzazione, e di poter riproporsi, oggi, come punto di riferimento morale e, a termine, politico, in una società a corto di ideali e di prospettive.

Il modello di quella inversione di tendenza è stata la Chiesa degli Stati Uniti d’America. La sola Chiesa cattolica di un paese non cattolico completamente libera – almeno secondo il Primo Emendamento – di partecipare al più colossale e sregolato mercato della fede del mondo. Fin dai suoi primissimi giorni,  la Chiesa americana ha imbracciato il principio – aborrito dalla Chiesa universale – di libertà di coscienza, per poter partecipare alla competizione su quel mercato. Fin dall’inizio, è stata una “Chiesa in uscita”: una Chiesa che, priva di ogni supporto istituzionale, costretta anzi ad affrontare quotidianamente scherno e ostilità, non ha atteso che i fedeli venissero a lei, ma è andata a cercarli, e ad organizzarli là dove si trovavano, nei quartieri operai e nelle fabbriche. È grazie a quell’esperienza che è riuscita a diventare, come scriveva Morris nella prefazione del suo libro, «the most successful national Catholic Church in the world».

Il papa americano va a rendere omaggio a quella Chiesa e a quel modello di successo che ha salvato la Chiesa universale dal naufragio di un’autoreferenzialità disconnessa dall’evoluzione del mondo. I principi “americani” furono ufficialmente accolti nel 1965 dal Concilio Vaticano, introdotti dal gesuita di New York John Courtney Murray su pressione del suo arcivescovo cardinal Francis Joseph Spellman, per decenni trait-d’union tra Roma e Washington. Sono poi diventati, quei principi, quasi un luogo comune, in un’istituzione come la Chiesa cattolica, lentissima nei suoi movimenti di adeguamento alla realtà che cambia, ma lestissima nel metabolizzarli.

Benedetto XVI aveva detto che il viaggio negli Stati Uniti del 2006 gli aveva offerto «l’opportunità di riflettere sull’esperienza storica americana della libertà religiosa». Secondo l’ex ambasciatore presso la Santa Sede (2005-2008), Francis Rooney, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI  «avevano un genuino e profondo affetto per l’America». «In un certo senso – prosegue il diplomatico – per Benedetto, il modello di una corretta relazione tra la religione e la società civile erano gli Stati Uniti d’America».

Il Papa americano, Jorge Mario Bergoglio, ha fatto un passo in più: in qualità di teorico della “Chiesa in uscita”, sta cercando di universalizzare il modello americano, spingendo anche le Chiese dei paesi cattolici a rinunciare alle rendite di posizione e a partecipare al libero mercato della fede. Sapendo che, su quel mercato, sono i più intraprendenti, ma anche quelli che hanno più esperienza e solidità organizzativa, che, alla fine, si impongono.

Ma la «most successful national Catholic Church in the world» è anche un preziosissimo strumento per gli Stati Uniti in declino relativo. Per il “supplemento d’anima” che può offrire ad un paese che si sente sempre più spesso spaesato e soulless, ma anche per la quantità di servizi sociali – ospedali, centri d’accoglienza, mense, asili, scuole,università – che può mettere a disposizione. E per un personale di origine cattolica che riempie come mai prima d’ora i vertici politici, militari e giudiziari del paese.

Un Papa che parla davanti al Congresso riunito, permettendosi di sferzare l’arroganza imperiale americana, e ricevendone in cambio ovazioni ed applausi, è la nemesi storica dei padri pellegrini sfuggiti alle persecuzioni cattoliche. Ma anche di una Chiesa arroccata in difesa delle sue prerogative, per la quale la libertà religiosa fu a lungo «un delirio».

La paura del declino ha spinto la Chiesa cattolica ad affidarsi (anche) all’esperienza americana, e gli Stati Uniti ad affidarsi (anche) all’esperienza cattolica. La visita di Papa Francesco è un suggello di questo singolare incrocio di destini.

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