Negoziati Israele-Palestina, dietro le quinte la Turchia in crisi torna a farsi sotto

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Mentre si riconcorrono in un vortice sempre più confuso i dettagli dell’accordo quadro fra israeliani e palestinesi, ormai in fase di definizione secondo la stampa internazionale, il tentativo della Turchia di riconciliarsi con Israele e di tornare, così, fra i grandi mediatori del quadrante mediorientale merita più di una riflessione. Non sfuggono agli osservatori più attenti, infatti, gli indizi di un travaglio diplomatico laborioso, con luci e ombre. Più volte il primo ministro turco Recep Tayyep Erdogan ha fatto sfoggio di esternazioni dal sapore anti-israeliano: nel pieno di una crisi interna che vede in aperto scontro potere politico e potere giuridico, il premier è tornato sulla questione dei fratelli palestinesi di Gaza, minacciando Israele di non normalizzare le relazioni diplomatiche con Tel Aviv fino a quando l’embargo marittimo sulla Striscia non sarà completamente annullato, anzi scritto nero su bianco nell’intesa definitiva fra Tel Aviv e Ramallah.

Eppure, segnali di genere opposto avevano fatto pensare, negli ultimi mesi, a un ammorbidimento dei rapporti, precipitati dopo l’incidente avvenuto in acque internazionali, di fronte alla costa di Gaza, nella tarda primavera del 2010: era il 31 maggio quando la piccola flotta di imbarcazioni battente bandiera turca e guidata dalla capofila Mavi Marmara fu fermata dalle forze israeliane mentre faceva rotta per l’enclave palestinese. Negli scontri scoppiati a bordo della nave morirono nove cittadini turchi, tutti membri dell’ong Ihh, che aveva organizzato la spedizione marittima per portare nella Striscia generi alimentari e medicinali. Sette soldati israeliani riportarono ferite di vario genere. Secondo Tel Aviv, in realtà, le imbarcazioni trasportavano anche armi e miliziani arabi pro-palestinesi. Da allora, Ankara ha espulso l’ambasciatore israeliano in Turchia e ritirato il proprio rappresentante diplomatico in Israele, e l’esecutivo turco dell’Akp (partito Giustizia e sviluppo) ha accusato Israele di essere il grande manovratore sia delle proteste sociali deflagrate in Turchia sia del colpo di Stato militar-popolare avvenuto in Egitto nel luglio del 2013.

Su pressione di Washington, tuttavia, circa un anno fa il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha chiesto ufficialmente scusa all’omologo turco per il caso Mavi Marmara. Nell’ultimo scorcio del 2013, poi, fonti autorevoli davano per certa, dopo la conferma di Barack Obama alla Casa Bianca, l’intesa fra le due capitali mediorientali per un corposo risarcimento israeliano e probabile anche l’alleggerimento del blocco su Gaza. Così almeno fino a metà febbraio, quando le dichiarazioni del premier turco hanno in qualche modo smentito quelle del titolare del ministero degli Esteri, Ahmet Davutoglu, e del vice premier Bulent Arinc, più concilianti. E messo in dubbio le rivelazioni del quotidiano israeliano Haaretz di inizio 2014: per la stampa israeliana, Tel Aviv era pronta a pagare 20 milioni di dollari alle famiglie delle vittime turche (e Ankara aveva ridotto le sue pretese di una decina di milioni). Da notare che quest’anno, alle celebrazioni per il 27 gennaio, giorno della Memoria dell’Olocausto, il ministero degli Esteri turco ha inviato a Istanbul, dove si è riunita la rappresentanza della comunità ebraica nazionale, una delegazione. E che la compagnia aerea israeliana El Al dovrebbe riattivare le rotte turche dalla prossima estate.
I nuovi raid aerei israeliani sulla Striscia di Gaza riaprono i giochi, quando mancano ormai solo due settimane al voto amministrativo in Turchia.

Tuttavia, la pacificazione dell’asse Ankara-Tel Aviv converrebbe a entrambi gli interessati. La crisi economico-finanziaria lambisce anche le coste anatoliche e quelle di Haifa, dopo un quinquennio di razzia in Europa; le ultime disposizioni liberticide nei confronti della stampa e della magistratura turca non fanno che soffiare sul fuoco dell’allarme sociale interno, mentre la contrapposizione fra laici e ortodossi tormenta la scena israeliana; dalle file dell’Akp si levano voci contrarie alla politica regionale pro-islamista di Erdogan, così come per Netanyahu vi è più di una spina nel fianco a destra.

Ad Ankara è il momento di ritornare su un sentiero più saggio, che contempli posizioni moderate nell’eterno conflitto israelo-palestinese e anche in quello siriano. A Tel Aviv sarà necessario dare segnali di buona volontà al Segretario di Stato americano Kerry per non incorrere nel minacciato boicottaggio internazionale.

In quest’ottica il comportamento di Recep Tayyep Erdogan trova le sue ragioni d’essere: il premier turco sembra agire secondo un collaudato copione geo-strategico regionale. Di fronte all’opinione pubblica, strenuo difensore della causa palestinese e dei regimi islamisti sunniti, primo fra tutti quello defenestrato in modo spiccio dell’egiziano Mohammed Morsi; dietro le quinte, promotore di un riavvicinamento a Israele che potrebbe avere – letteralmente – un effetto ‘energizzante’ per entrambi i Paesi. In gioco, ecco perché vale la pena di fare la pace, vi è il gasdotto turco-israeliano, che veicolerà il gas liquido delle riserve rinvenute negli abissi fra Cipro e Israele verso l’Europa.

Da un punto di vista economico, comunque, i due Paesi non hanno mai smesso di fare affari: secondo il ministero del Commercio estero turco, l’interscambio bilaterale è passato dai 3,8 miliardi di dollari del 2008 ai 4 del 2012, e continua a crescere, rallentato solo dalla congiuntura internazionale.

Accanto al fattore economico, poi, quello sicurezza ricopre un ruolo altrettanto determinante: il potenziale destabilizzante della crisi siriana per tutta l’area è motivo di preoccupazione per turchi e israeliani allo stesso modo. Israele, inoltre, non è mai stata così isolata, anche se l’amministrazione Obama 2 assicura di essere totalmente orientata a trovare una soluzione alla contesa con i palestinesi di Abu Mazen. Così pare ragionevole che, di fronte all’inaffidabilità egiziana per ragioni di politica interna, anche Netanyahu punti alla normalizzazione dei rapporti con Ankara. Da coinvolgere successivamente nell’intermediazione non solo con Ramallah, ma anche con Hamas a Gaza.

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