Nagorno Karabakh, il finale già scritto di un conflitto (di nuovo) dimenticato

È passato oltre un mese dall’inizio della nuova crisi militare in Nagorno Karabakh, la più grave e tragica per numero di vittime, sfollati e attacchi indiscriminati dagli accordi di cessate il fuoco tra Armenia e Azerbaijan che nel 1994 erano stati firmati a Bishkek, in Kirghizistan. Il 27 settembre scorso si è aperto questo nuovo, drammatico capitolo di una guerra per un lembo di terra di poco meno di 5 mila km quadrati, scoppiata nel 1991, sospesa tre anni dopo, e sfociata in un conflitto congelato, che finora aveva alternato brevi attacchi a lunghe fasi di stallo, lungo la linea di contatto presidiata sui due fronti.

Eredità dell’Unione Sovietica crollata sotto le spinte indipendentiste, la regione era stata annessa all’Azerbaijan nel 1921 per volere di Stalin, ma alla fine degli anni Ottanta aveva cominciato a mobilitarsi per chiedere l’unificazione con l’Armenia. Anziché seguire le sorti della nuova repubblica azera dopo il disfacimento dell’Urss, e deciso invece ad autodeterminarsi, l’allora soviet del Karabakh vota nel 1988 una mozione per la secessione, seguita da proteste e massacri con espulsioni di massa, da entrambe le parti, nei confronti dell’altra minoranza. Nel 1991 il Karabakh proclama la sua repubblica indipendente, ma non sarà mai riconosciuto come Stato da nessun paese della comunità internazionale, Armenia compresa.

Da quel primo cessate il fuoco, molti altri ce ne sono stati, a seguito di altrettante violazioni. Le più gravi nel 2016, con la guerra dei quattro giorni fra il 2 e il 5 aprile, terminata con l’ennesima fragile tregua. E poi la scorsa estate, con l’escalation avvenuta dal 12 al 16 luglio, che segna una discontinuità con il recente passato: per la prima volta non produce un confronto militare sulla linea di contatto, ma lungo il confine internazionale fra Armenia e Azerbaijan, tra la provincia armena di Tavush e il distretto azero di Tovuz, con il rischio di attivare le alleanze militari di Yerevan e Baku, rispettivamente Russia e Turchia.

Dal 1992 l’organismo che dovrebbe contribuire alla soluzione del conflitto e favorire la mediazione fra azeri e armeni è il gruppo di Minsk, creato all’interno dell’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, guidato da una co-presidenza composta da Russia, Francia e Stati Uniti, con la presenza di rappresentanti di Bielorussia, Germania, Italia, Portogallo, Svezia, Paesi Bassi, Finlandia e Turchia, oltre che Armenia ed Azerbaijan. Ma durante questi tre decenni non sembra aver inciso diplomaticamente in modo significativo.

 

Strade divergenti da Mosca

Il ruolo della Russia, in particolare, è complesso e multiforme: se come paese alla guida di Minsk ha effettivamente giocato il ruolo di mediatore riconosciuto, almeno nelle dichiarazioni di cessate il fuoco nel 2016 e prima nel 1994, nelle relazioni bilaterali dirette con Yerevan rappresenta l’unico alleato affidabile nella regione in grado di proteggere, anche militarmente, la piccola Armenia, ed evitarle l’isolamento politico. L’ingresso di Yerevan nell’Unione Euroasiatica nel 2014 ha rafforzato il legame, e ad oggi Mosca rappresenta il primo partner commerciale dell’Armenia, nelle importazioni come nelle esportazioni, oltre ad aver garantito una serie di finanziamenti volti a rilanciarne l’economia, in cambio dell’esclusiva russa sull’approvvigionamento energetico. La cooperazione riguarda anche il settore della sicurezza, che si è ampliato di pari passo con l’aumento dell’instabilità nella regione del Karabakh. Nel 2016 Mosca e Yerevan hanno firmato un accordo militare sull’istituzione di un sistema di difesa aerea comune, con la creazione di un centro di comando condiviso per monitorare i cieli del sud del Caucaso, e che in caso di attacco funzioni in modo unificato.

I rapporti con l’Azerbaijan sono segnati in campo economico da un conflitto di interessi nel settore energetico perché a partire dal 2006, con la realizzazione dell’oleodotto Baku-Tblisi-Ceyhan, gli azeri sono riusciti a fare arrivare il proprio petrolio fino al bacino del Mediterraneo, incontrando la volontà dell’Unione Europea di diversificare l’approvvigionamento e di cercare fornitori alternativi alla Russia. Inoltre, con lo sfruttamento del più grande giacimento di gas naturale di Shah Deniz, Baku ha deciso di interrompere le forniture di gas russo non più necessarie, trasformandosi a sua volta in uno dei più importanti produttori dell’area; e con la definitiva rinuncia della Russia al progetto South Stream che avrebbe portato il gas di Mosca in Europa attraverso il mar Nero e i Balcani, l’Azerbaijan ha preso parte alla realizzazione di un proprio Corridoio meridionale del gas, che attraverso i gasdotti Tanap e Tap, in fase di realizzazione, trasporteranno il suo gas fino all’Italia.

La competizione energetica non toglie nulla alla collaborazione sul fronte sicurezza. Secondo i dati 2019 dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), l’Azerbaijan importa dalla Russia il 31% del totale delle armi che acquista, e con le quali sta anche combattendo in Karabakh contro gli armeni, che a loro volta hanno comprato da Mosca il 94% delle dotazioni militari degli ultimi cinque anni.

 

Fattore turco

Sul fronte turco Ankara e Baku sono storicamente legate, anche per ragioni culturali. La Turchia è stata la prima a riconoscere nel 1991 l’indipendenza azera dopo la fine dell’Unione Sovietica, e oggi rappresenta il primo canale di esportazione del petrolio e del gas azeri, oltre ad aver firmato con Baku più di cento protocolli militari. Dal 1993 la Turchia ha chiuso i confini con l’Armenia proprio in solidarietà con l’Azerbaijan sulla questione del Nagorno Karabakh, e da allora le relazioni con Yerevan sono rimaste molto limitate nonostante i tentativi di dialogo confluiti nei Protocolli di Zurigo nel 2009, condizionati all’avvio di un processo di pace per il Karabakh che ha subito incontrato forti riserve.

Il principale – e più antico – elemento di contrapposizione fra Ankara e Yerevan resta però nella memoria storica del genocidio compiuto dagli Ottomani fra il 1915 e il 1921 contro la popolazione armena, e nel rifiuto della Turchia di riconoscerlo, oltre che nelle rivendicazioni sulle regioni orientali della Turchia, originariamente abitate da armeni e ancora oggi considerate parte di quella che fu la “grande Armenia”.

All’inizio di quest’anno, nell’ambito della disgrazia condivisa della pandemia, era sembrato che si potesse aprire uno spiraglio di dialogo quando alcuni cittadini armeni residenti in Turchia avevano chiesto di poter fare rientro nel loro paese, e il patriarca della chiesa armena di Istanbul aveva parlato direttamente con il presidente turco Erdoğan per concordare un piano di trasferimento per 73 persone. Un episodio di estrema importanza per due paesi senza rapporti diplomatici da quasi trent’anni, subito inquinato da una sequela di polemiche sull’invio dei dispositivi di protezione anti Covid dalla Cina all’Armenia, accompagnati da un messaggio che avrebbe menzionato il monte Ararat.

Rispetto alla Russia che ufficialmente resta nel ruolo di mediatore, in questa guerra la Turchia sta manifestando la sua presenza diretta sul campo nelle operazioni militari azere, con mezzi come gli F16 e i Bayraktar TB2, aerei senza pilota armati e guidati da remoto, oltre che con l’invio di combattenti provenienti dalla Siria, già impiegati prima nelle fila dell’opposizione al regime di Assad e poi in Libia, e ora trasferiti nel Caucaso.

 

Nemici ma non troppo

Parlare di Turchia e Russia solo in termini di alleanze contrapposte al fianco dell’una e dell’altra parte in conflitto appare tuttavia riduttivo, considerato che i due paesi si sono trovati a guardare nella stessa direzione, anche se da punti di vista diversi, in altre aree calde. Basti pensare ai comuni interessi in Siria, in particolar modo nella zona di Idlib, dove oggi si concentrano i gruppi di opposizione al regime espulsi dal resto del paese; e alla Libia, che nell’ultimo anno è entrata nell’agenda di Mosca come di Ankara.

In quel paese la Russia è più vicina alla fazione del generale Haftar, ma mantiene legami con Tripoli attraverso i contratti di diverse compagnie energetiche con la società petrolifera libica; e la Turchia è stata firmataria, nel novembre 2019, di un accordo con il primo ministro del governo di accordo nazionale libico Al-Sarraj per delimitare delle zone economiche esclusive e per cooperare nel campo della sicurezza. Entrambe collaborano anche a livello commerciale, e la Russia è, insieme alla Cina, il principale partner economico della Turchia: nel 2019 l’interscambio commerciale è stato di oltre 23 miliardi di dollari.

Anche nel conflitto del Caucaso, con i numerosi cessate il fuoco puntualmente violati, emergono gli interessi internazionali più che la volontà di fermare la guerra. Dei quasi 150 mila abitanti del Karabakh, secondo i dati delle Nazioni Unite, oltre 130 mila sono già sfollati nel corso dell’ultimo mese e con tutta probabilità mai potranno fare rientro a casa, se cambieranno gli equilibri. Poi ci sono le vittime, anche civili, prese di mira a Stephanakert, la capitale dell’autoproclamata repubblica, Shushi, Martakert. E Ganja, in territorio azero. Persone che rischiano di scomparire del tutto da questa terra, in un’ennesima operazione di pulizia etnica, già subita in passato da armeni e da azeri.

 

Un finale già scritto

L’evoluzione della situazione nel Karabakh è sintetizzata nella posizione del presidente azero Aliyev che, a dieci giorni dalla riaccensione del conflitto, aveva dichiarato che si sarebbe seduto al tavolo dei negoziati solo se l’Armenia avesse subito rinunciato a cinque dei sette distretti azeri (Agdam, Fizuli, Jibrail, Zangelan e Gubadli) occupati fra il 1992 e il 1994, e permesso il rientro degli sfollati di allora riconoscendo di fatto la violazione dell’integrità territoriale dell’Azerbaijan, come da Risoluzioni Onu del 1993.

Sul fronte opposto gli armeni temono che il ritiro comporti l’allontanamento definitivo di tutti gli attuali abitanti, e un indebolimento della loro già difficile posizione. L’avanzata azera intanto prosegue, e si stringe attorno a due luoghi chiave: il corridoio di Lachin, la via di comunicazione fra il Karabakh e l’Armenia, e Shushi, città strategica perché situata a pochi km da Stephanakert e a oltre 1500 metri di altitudine fra le montagne del Karabakh. Recuperati con la forza militare questi territori, gli azeri potrebbero anche decidersi a trattare, questa volta da una posizione di forza, venuto meno, a loro favore, l’equilibrio che per anni ha mantenuto “congelato” il conflitto.

Un intervento aperto a favore degli armeni da parte della Russia appare invece inverosimile non solo per i rapporti e gli interessi di cui si è detto, ma anche perché entrare in un territorio che da Risoluzioni Onu non è mai stato riconosciuto come stato indipendente scatenerebbe reazioni a catena su più vasta scala, oltre che essere in aperto contrasto con il lavoro, seppure senza risultati sostanziali, portato avanti dal gruppo di Minsk.

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