L’indie-rock libanese arriva in Italia.
Ed è subito amore con i Mashrou’ Leila

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Dopo essere apparsi sulle pagine dei più importanti magazine internazionali (da Rolling Stone a Vanity Fair) e aver conquistato fan dal Libano alla Francia, dall’Inghilterra alla Tunisia, sono finalmente arrivati anche in Italia i Mashrou’ Leila, in formazione ridotta per la loro prima e finora unica data nel nostro Paese, organizzata in collaborazione con Oxfam Italia, come parte degli eventi del Festival di cinema e cultura Middle East Now di Firenze.
È stato subito amore tra l’Italia e questi giovanissimi musicisti libanesi che fanno indie-rock, cantano di politica, sesso e amore in dialetto libanese, si autoproducono e disegnano da soli le copertine dei loro dischi. Vengono da Beirut e da sei anni stanno letteralmente spopolando nel mondo arabo, e ora anche in Europa, grazie ad una miscela esplosiva e coinvolgente di freschezza, originalità, stile, testi innovativi e un sound in cui si sposano sapientemente sonorità rock, jazz, reggae, le chitarre elettriche e un violino.

Il concerto italiano, che si è tenuto venerdì 11 aprile all’Auditorium Flog di Firenze, è stato un piccolo grande miracolo che ha raccolto più di 700 persone tra fan vecchi e nuovi. Una sorpresa ma anche una bella vittoria per i direttori artistici del Festival Middle East Now, Roberto Ruta e Lisa Chiari che avevano scommesso sul gruppo. Una scommessa che si è rivelata un colpo vincente sia per la città di Firenze sia per il Festival che, giunto alla sua quinta edizione, ha mostrato come sia possibile attirare da ogni angolo d’Italia appassionati, visitatori, neofiti della cultura e del cinema dal Nord Africa e dal Medio Oriente e trasformare una settimana di primavera fiorentina in una vetrina irrinunciabile per tutti i palati. Prima dell’emozionante concerto abbiamo incontrato il vocalist dei Mashrou’ Leila, Hamed Sinno, in una pausa dal sound-check.

Con i Mashrou’ Leila avete suonato in Belgio, Francia, Inghilterra (a Londra avete dovuto aggiungere un’altra data perché il primo concerto era sold-out): decisamente non male per un gruppo che fa indie-rock, viene dal Libano e canta in dialetto libanese. Come vi spiegate il successo che avete avuto in Europa?

Prima di tutto, il fatto che suoniamo in arabo è una cosa a sé: cioè, la lingua è una cosa importante naturalmente, ma c’è molto altro. Quando vai ad un concerto non ci sono solo le parole, la musica è altrettanto importante e poi c’è la performance della band sul palco: è uno spettacolo completo. I ragazzi del gruppo fanno un lavoro incredibile sul palco, tutti noi ci divertiamo molto quando siamo davanti al pubblico. Siamo esattamente come ci vedete sul palco e credo che questa sia una cosa che si trasferisce al pubblico senza bisogno di doverlo tradurre in una lingua più universale e globalizzata dell’arabo. E poi è vero, ci sono stati altri musicisti libanesi che prima di noi hanno raggiunto il successo internazionale: penso a Dalida e Fairouz, dei “giganti” della musica, anche se non erano dei gruppi indie!
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Libération vi ha definiti il “gruppo simbolo della primavera araba”, per il Guardian siete una delle band mediorientali più controverse, per la BBC avete rotto le convenzioni della musica pop rock araba…ma in sostanza chi siete?

Non abbiamo mai davvero pensato di essere associati con il modo in cui ci definiscono. Noi lo diciamo sempre: quando abbiamo cominciato cercavamo solo di fare della musica perché avevamo bisogno di suonare, di creare musica. Era una cosa che facevamo per noi. Speravamo soltanto che ai nostri amici la nostra musica sarebbe piaciuta, che ci avrebbero ascoltati, ma non ci saremmo mai aspettati tutto quello che è successo negli ultimi sei anni, soprattutto gli ultimi due anni, quando le cose hanno cominciato a diventare esponenzialmente più grandi. Ma per noi è ancora come all’inizio: quando entriamo nello studio cerchiamo solo di suonare per noi stessi, il resto del mondo non c’è più.
Le altre cose sono capitate per puro caso: se è successo che gli altri ci abbiano indentificato con la musica di tutto il Medio Oriente, se durante le rivoluzioni le persone ascoltavano la nostra musica, è stata tutto una coincidenza.

Per quanto riguarda l’essere “controversi” e il “rompere le convenzioni”, va detto che noi non siamo mai stati parte del sistema: non abbiamo cominciato facendo musica pop e poi abbiamo cambiato in corsa, non abbiamo mai voluto far parte di quella comunità o di quel tipo di produzione o industria musicale. Per quanto ci riguarda, non c’erano regole da rompere, abbiamo fatto quello che ci sentivamo di fare. E siamo ancora così.

In Europa e in Occidente siete stati etichettati come la band che ha fatto da colonna sonora alle rivolte arabe: vi identificate con questa definizione o vi sta stretta?

Ad essere onesti fa un po’ paura e in parte ci lusinga: ti fanno sentire un po’ come se fossi responsabile di quanto accaduto mentre in effetti noi non lo siamo. Come ho detto prima, se è successo che le persone ci ascoltassero durante le rivolte noi ne siamo contenti. Ma se avessimo provato a scrivere qualcosa per cercare di rappresentare i giovani rivoluzionari o la primavera araba, scrivere sarebbe diventato impossibile.

In che modo è cambiata la scena culturale araba da prima a dopo il 2011? La cultura underground ha avuto un ruolo nel preparare il terreno delle rivolte secondo te?

Sì e no. Io penso che queste cose vadano di pari passo. Ogni volta che un sistema politico o una struttura di potere si indeboliscono, una controcultura comincia ad emergere. Non è solo qualcosa che succede a livello sociale e politico che poi si trasferisce nel mondo dell’arte, o viceversa. Ripeto, queste cose succedono allo stesso tempo. Alla fine dei conti, le persone che scendono in piazza per protestare e cambiare le cose sono le stesse che vanno ai concerti, fanno della musica, creano arte. Sono dimensioni che si intersecano molto più di quanto non si pensi.

Io penso che l’arte, la musica e la cultura in generale abbiano molto a che fare con il fatto di permettere alle persone di sentirsi parte di qualcosa. La produzione culturale ha un ruolo molto importante nel far sì che le comunità sentano di avere una loro identità ad ogni momento della storia. Ed è sempre stato così: prova a pensare al movimento punk e a quello che la musica e l’abbigliamento hanno significato per quelli che erano contro il sistema in Inghilterra a quel tempo. O agli hippy o qualsiasi altro movimento di controcultura ti venga in mente. Allo stesso tempo però è anche vero che non è che tu suoni una canzone e automaticamente nel Parlamento le cose cambiano.

Chi sono i vostri riferimenti musicali?

Ohh, sono tantissimi…anche perché noi siamo tanti e ascoltiamo moltissime cose diverse. Quando abbiamo cominciato, molti di noi ascoltavano il rock (non arabo, in realtà non ascoltavamo molta musica araba). Fondamentalmente ascoltavamo musica dagli Stati Uniti e dall’Europa, soprattutto in inglese. Tutto ci influenza. Anche ora mi capita di ascoltare un disco di musica pop e se mi piace, voglio in qualche modo usarlo o provare a riprodurlo con i Mashrou’ Leila.

Il gruppo al festival Middle East Now, (foto di Stella Grotti)

Il gruppo al festival Middle East Now, (foto di Stella Grotti)

Parliamo di Raasük, il vostro terzo album, che spesso viene definito come il più difficile nella carriera di un artista. Lo è stato, difficile?

È divertente che tu dica questa cosa perché abbiamo già sentito dire la stessa cosa anche per il secondo album! Comunque sì, è stato difficile perché eravamo noi i primi a sentirci sotto pressione: volevamo creare qualcosa che fosse molto meglio dei dischi precedenti, volevamo una qualità e una tecnica del suono migliore, volevamo scrivere testi più elaborati. Senza contare che poi avevamo a disposizione degli strumenti qualitativamente migliori rispetto ad altri gruppi della regione che fanno indie come noi.

Ci abbiamo lavorato per più di 10 mesi da quando abbiamo cominciato a scrivere: abbiamo lanciato il nostro progetto di crowdfunding per raccogliere i fondi che ci servivano, e la registrazione è stata eseguita in uno studio incredibile: il suono di questo album è 10 volte migliore del suono degli album precedenti. Abbiamo coinvolto alcuni produttori, tra cui Jérémie Regnier che ha lavorato sugli arrangiamenti con noi, e nuovi artisti: nel nuovo disco c’è infatti anche un trombettista, Erik Truffaz, che ha collaborato ad alcuni pezzi. Il lavoro di produzione è stato lunghissimo ma siamo molto soddisfatti del risultato finale.

A chi sono rivolte le parole di Lil Watan (“Per la patria”)? A chi pensavate quando l’avete scritta?

Fondamentalmente ai libanesi e alla nostra particolare situazione politica – il Libano è sempre una grande fonte di ispirazione per tutti noi! – ma non è diretta a nessuno in particolare.

State già lavorando ad un prossimo disco? Sarà sempre autoprodotto?

Sì abbiamo già cominciato ma è ancora allo stato di bozza, forse anche meno di una vera e propria bozza. Abbiamo registrato qualcosa, ma sono solo idee, dobbiamo raffinarle un bel po’.

Non so ancora se sarà un album indipendente: al momento siamo in trattative con due etichette per farci aiutare nella distribuzione di Raasük. Una è mediorientale e ci serve per distribuire in maniera più “ufficiale” i nostri dischi nei negozi. Stiamo parlando anche con un’etichetta europea per far arrivare i nostri album nei negozi europei, perché non si trovano a meno che non li compri online. Per quanto riguarda il quarto album ancora non lo so, non ho idea se siano interessati o meno.

Da qui a 10 anni i Mashrou’ Leila dove si vedono?

Wow, non lo so, fa un po’ paura pensarci! Sai, è davvero difficile con la musica, non sai mai se puoi fare dei programmi. Idealmente noi vorremmo continuare a suonare, fare molti altri dischi, viaggiare e fare tour in tutto il mondo. Ad oggi…diciamo che ci andiamo un po’ cauti: non sai mai se dovresti concentrarti anche su un “progetto B”, come ad esempio seguire la carriera per cui abbiamo studiato. La maggior parte di noi però fino ad oggi non ha mai davvero lavorato: per quanto mi riguarda, le uniche grafiche che ho fatto sono state quelle per il gruppo.

Sarebbe bello se ad un certo punto della nostra carriera acquisissimo un po’ più di sicurezza in noi stessi come musicisti, ma siamo ancora giovani. E se c’è un momento della tua vita in cui non devi preoccuparti per il futuro, è proprio questo!

Nella foto di copertina: Hamed Sinno, il vocalist dei Mashrou’ Leila, foto di Francesca Manolino

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