La Turchia dopo Gezi, tra caute riforme e nuove proteste

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Un grande cerchio verde, sorretto da un tronco a forma di corpo umano, con le braccia che si protendono come rami carichi di foglie. All’interno della chioma la scritta “Gezi Partisi”. È questo il simbolo del nuovo partito politico turco, ispirato alle proteste che lo scorso giugno hanno fatto tremare il premier Recep Tayyip Erdoğan in nome delle libertà individuali e collettive e contro l’autoritarismo del governo e le sue politiche economiche. Il nome fa riferimento al parco Gezi di Istanbul, vicino a piazza Taksim, epicentro della rivolta, dove a fine maggio un gruppo di ambientalisti ha cominciato a protestare contro l’abbattimento dell’ultimo polmone verde della città per fare posto a un grande centro commerciale con la ricostruzione di una caserma militare ottomana e di una moschea. La rivolta scoppiata in tutta la Turchia a causa della violenta repressione della polizia ha lasciato un bilancio di sei morti, circa quattromila feriti e mille persone arrestate.

Gli ideali che a giugno hanno spinto decine di migliaia di persone a scendere in strada costituiscono i principi base del nuovo partito, che si propone di rendere la Costituzione turca “più democratica”, come si legge nella pagina Facebook, e di ottenere libertà, diritti umani, indipendenza e giustizia. Fondato da un gruppo di musicisti e artisti, con in testa il popolare cantante rock Reşit Cem Köksal, il partito Gezi, il cui acronimo sarà Gzp, si propone come movimento privo di leader, organizzato tramite i social network, con un vertice che funge da portavoce delle istanze che provengono da un’ampia fetta della popolazione. I fondatori hanno presentato il primo ottobre una petizione al ministero dell’Interno per la registrazione ufficiale del partito, approvata il 9, e puntano a entrare in parlamento.

La creazione del Gzp dimostra che, nonostante la calma apparente riportata in piazza Taksim e il pacchetto di riforme democratiche approvato dal governo, il dissenso continua a serpeggiare nella società turca. In un paese segnato da profondi contrasti, tra laicità e islamismo, tra prosperità e disuguaglianze e tra progresso e repressione, dove il rispetto dei diritti umani è ancora da conquistare, il movimento di contestazione non si è esaurito.

A settembre è cominciata una nuova protesta contro la costruzione di una strada attraverso il campus dell’Università tecnica del Medio Oriente (Odtu), ad Ankara. Il progetto, che prevede l’abbattimento di circa tremila alberi nel campus universitario, uno dei più grandi spazi verdi della capitale, ha scatenato le proteste di studenti e attivisti, represse ancora una volta dalla polizia con gas lacrimogeno e idranti. Durante una manifestazione di solidarietà con gli studenti dell’Odtu nella provincia meridionale di Hatay, il 10 settembre, è morto il ventiduenne Ahmet Atakan. Alcuni testimoni sostengono che il ragazzo sia stato colpito alla testa da un candelotto lacrimogeno sparato dalla polizia, mentre secondo le forze dell’ordine è caduto da un palazzo. La notte del 18 ottobre, quando il campus era quasi vuoto in occasione dell’ultimo giorno della festa religiosa del sacrificio e mentre erano ancora in corso i negoziati tra il comune e i vertici dell’università, contrari al progetto, squadre di operai scortati dalla polizia hanno cominciato ad abbattere gli alberi. Gli attivisti accorsi sul posto sono stati allontanati con violenza.

Ancora una volta l’ideologia dello sviluppo a ogni costo sposata da Erdoğan, basata sulla liberalizzazione e sulla privatizzazione, si scontra con la volontà di preservare il tessuto sociale e di partecipare più attivamente ai processi decisionali, da cui gran parte della popolazione continua a sentirsi esclusa. Il governo non sembra dare ascolto alle richieste di maggiori diritti civili e di una più ampia partecipazione sociale e politica. Anche il tanto atteso pacchetto di riforme, presentato da Erdoğan il 30 settembre, che nelle intenzioni del premier avrebbe dovuto avviare una “nuova e decisiva fase nel processo di democratizzazione”, fa poco per allentare le tensioni sociali e il senso di sfiducia diffusi nel paese. Pur concedendo alcune aperture alle minoranze etniche e rendendo più severe le pene per i reati a sfondo razziale, sessuale e religioso, il pacchetto di riforme non scioglie i nodi che hanno imbrigliato la vita politica e sociale turca degli ultimi anni. La maggioranza dei turchi lo considera un tentativo di Erdoğan di ripulire la propria immagine in vista della prossima stagione elettorale, che comprende le amministrative di marzo 2014, le presidenziali di agosto e le elezioni generali del 2015.

Le misure comprendono l’abolizione del divieto di portare il velo nei luoghi pubblici e del giuramento pronunciato nelle scuole ogni mattina, che recita “Sono turco, sono corretto e diligente”. Inoltre è stato cancellato il bando sulle tre lettere curde q, w e x, che non esistono nell’alfabeto turco, ed è stato proposto un dibattito per decidere se abbassare la soglia di sbarramento per l’ingresso dei partiti in parlamento, dall’attuale 10 per cento al 5 per cento. Nonostante questi passi avanti, però, sono in molti a sentirsi traditi dal “pacchetto per la democratizzazione”. Innanzitutto i curdi, che costituiscono circa il 20 per cento della popolazione turca e sono stati a lungo privati dei loro diritti politici e culturali. La riforma infatti introduce l’insegnamento del curdo nelle scuole private, ma non in quelle pubbliche e non contiene alcun provvedimento a favore della decentralizzazione del governo per dare più potere alle autorità regionali e locali.

Delusi dalla debolezza del governo, i vertici del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) minacciano di sospendere il cessate-il-fuoco ordinato a marzo nell’ambito dei colloqui di pace tra il loro leader Abdullah Ocalan, in carcere dal 1999, e le autorità turche, per mettere fine a un conflitto per l’autonomia dei curdi che in trent’anni ha fatto oltre 40mila morti. Il contesto è reso ancora più esplosivo dalla guerra in Siria, con i curdi che accusano Ankara di sostenere i ribelli islamici che combattono contro di loro nel nord del paese vicino. La Turchia rischia così di perdere l’occasione di risolvere la questione curda, che ha inciso negativamente sulla sua immagine internazionale, ha rallentato la crescita economica e ha allontanato la sua candidatura all’Unione europea.

A sentirsi ancora più penalizzati dal pacchetto di riforme sono stati gli aleviti, la più numerosa minoranza religiosa turca, che speravano di essere ufficialmente riconosciuti con l’autorizzazione a considerare le cemevi, le case assembleari dove si riuniscono per pregare, come luoghi di culto. I greci ortodossi, invece, si sono visti negare la riapertura del seminario di Halki, sull’isola di Heybeliada, vicino a Istanbul, chiuso quarant’anni fa con una legge che metteva sotto il controllo dello stato i luoghi di formazione militare e religiosa.

Ma ad irritare la maggioranza dei turchi e degli osservatori internazionali è stata la mancata abolizione delle leggi antiterrorismo, introdotte nel 1991 per contrastare la ribellione curda e usate indiscriminatamente contro qualunque voce critica. I dati ufficiali resi noti dal ministero della Giustizia a ottobre hanno rivelato che negli ultimi quattro anni ventimila persone sono state condannate in base a queste leggi, di cui ottomila solo negli ultimi dodici mesi. Il principale partito curdo, il Partito della pace e della democrazia (Bdp), sostiene che nelle carceri turche sono rinchiusi circa seimila suoi esponenti, tra cui 33 sindaci. Negli ultimi anni, le leggi antiterrorismo sono state usate contro oppositori di sinistra, giornalisti, studenti e attivisti. Sono 49 i reporter incarcerati per avere svolto il proprio lavoro, un dato che pone la Turchia al primo posto nella lista dei paesi con il maggior numero di giornalisti detenuti nel 2012, redatta dal Commitee to Protect Journalists. La mancanza di indipendenza dei media, la scarsa libertà di espressione e di riunione e l’uso eccessivo della forza da parte della polizia sono tutti elementi critici evidenziati nel rapporto annuale della Commissione europea sui progressi della Turchia, che esorta il paese ad allineare le proprie leggi e i propri comportamenti agli standard internazionali per rivitalizzare i negoziati di adesione all’Unione, cominciati nel 2005 e in stallo da tre anni. Il premier Erdoğan ha ancora la possibilità di dare una svolta democratica al proprio governo, quando il 5 novembre si aprirà a Bruxelles un nuovo capitolo dei colloqui per l’accesso della Turchia all’Ue.

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