La filosofa Seyla Benhabib: «Ora l’Europa non ceda alla paura»

È nata ad Istanbul ma non torna più in Turchia Seyla Benhabib, filosofa di fama e docente a Yale dove insegna anche Scienze Politiche: «Se andassi potrei essere in pericolo — dice —, capisco che dovremmo offrire solidarietà e portare una testimonianza ma ormai i nostri colleghi turchi si sono rifugiati in Grecia, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e probabilmente anche in Italia. Purtroppo in Turchia ormai c’è la legge marziale, il Parlamento è stato del tutto esautorato e non esiste più lo stato di diritto».

Il papa ha incontrato il presidente turco Erdogan in Vaticano. Un bel riconoscimento per lui. 
«Sono stupita che Papa Francesco lo riceva, in questo modo aumenta il suo prestigio e gli riconosce un ruolo che non ha. Il presidente turco ora parla a nome dei musulmani del mondo? Non li rappresenta».

Pensa che la Ue dovrebbe prendere una posizione più dura nei confronti della Turchia sul rispetto dei diritti umani?
«Assolutamente. L’Unione Europea è un partner economico importante e deve dire qualcosa. Io penso che ci vorrebbero delle sanzioni economiche ma i governi europei sono impauriti dal tema dei migranti e dal crescere del populismo tra la popolazione».

Come vede il futuro della Turchia?
«Purtroppo la strada è quella di una società totalitaria simile al Kazakistan. Dopo il golpe del 15 luglio 2016 in Turchia c’è ormai la legge marziale. Le gente viene messa in prigione per mesi senza sapere nemmeno perché. L’Habeas corpus non esiste più, le misure di emergenza hanno cancellato lo stato di diritto. Eppure la Turchia ha firmato la Convenzione Europea dei diritti umani. Forse qualcuno dovrebbe richiamarla al suo rispetto».

Erdogan, però, sostiene che il movimento del predicatore Fethullah Gülen si è infiltrato in ogni punto vitale dell’apparato statale. Di qui gli arresti e i licenziamenti.
«I gulenisti sono stati alleati dell’Akp per 16 anni. Ora sono tutti criminali? Non c’è nessuna prova. Io ci vedo solo una lotta per l’egemonia tra due gruppi autoritari, entrambi di destra, portata avanti con una visione manichea. Il problema è che in questo modo stanno distruggendo tutto: dalle università agli ospedali, dai tribunali ai servizi finanziari».

Parliamo della questione curda e dell’intervento militare ad Afrin.
«Erdogan è come Trump lancia dei palloni nell’aria per confondere la gente. La sua è la politica della paura. Veramente in Siria tutti le forze combattenti curde sono legate al Pkk? Io non lo credo. Il problema è che, dopo la sconfitta nel giugno 2015 e l’ascesa dell’Hdp di Demirtas, lui si è alleato con i nazionalisti e ha abbandonato il processo di pace con i curdi. Oggi infatti l’attacco ad Afrin punta molto ad alimentare i sentimenti nazionalisti in patria. Demirtas e altri leader del partito filo curdo Hdp sono stati arrestati dopo che è stata approvata la legge per togliere l’immunità ai parlamentari».

Ma la popolarità di Erdogan non accenna a diminuire.
«Non ne sono così sicura. Quando si è votato per il referendum costituzionale, lo scorso aprile, i sì hanno vinto per un pelo. E pesanti irregolarità sono state segnalate dall’opposizione e anche dall’Osce (l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa). Quindi non scommetterei su una vittoria a mani basse alle presidenziali e politiche del 2019, le prime con il nuovo sistema costituzionale».

Allora è ottimista. Come vede il futuro della Turchia?
«No, tutt’altro. Il mio cuore è spezzato. Vedere il Paese nelle mani di un partito Stato. Non ho simpatie per i gulenisti ma, essendosene liberato, ora il tiranno non ha più freni. Secondo le previsioni che facciamo da qui ci sono due scenari possibili. Uno è ottimista: ci sarà una scissione all’interno dell’Akp magari capitanata da dall’ex presidente Abdullah Gül o dall’ex premier Ahmet Davutoglu. Lo scenario pessimista, invece, prevede la scesa in campo di gruppi paramilitari che attaccano i secolaristi e i civili curdi in un clima da guerra civile».

Pubblicato su Corriere della Sera il 5/02/2018

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