Iran, gli accordi sul nucleare
e il conto per Iraq e Siria

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Il Joint Comprehensive Plan of Action è il testo che disciplina il programma nucleare di Teheran per i prossimi otto anni, e scongiura l’arricchimento dell’uranio a scopo militare in cambio della revoca delle sanzioni finora imposte a settori chiave dell’economia del paese (qui il testo completo del JCPOA).

Questo testo è stato sottoscritto il 14 luglio scorso dal governo iraniano e dal gruppo dei 5+1 (Gran Bretagna, Francia, Germania, Stati Uniti, Russia e Cina), in settembre l’accordo è poi passato dal Congresso e dal Senato di Washington, mentre del 15 ottobre scorso è la notizia della fine della road map preliminare in capo all’Iran al fine di dimostrare all’AIEA l’intento unicamente pacifico del proprio programma nucleare. Un entusiastico comunicato stampa di sostegno è stato rilasciato il 18 ottobre dal Segretario di Stato americano John Kerry.

Ciò che è stato stabilito è un meccanismo di controllo e verifica da parte degli ispettori dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, anche se dall’intesa restano escluse zone considerate strategiche come il sito di Parchin, un complesso militare considerato possibile luogo di sperimentazione non dichiarata da cui solo recentemente sono stati prelevati “campioni ambientali” da fornire all’AIEA da parte di tecnici iraniani e non di ispettori dell’Agenzia internazionale di Vienna.

I termini del JCPOA

Le centrifughe nel paese saranno ridotte da 19 mila a 6 mila, solo di prima generazione, e l’arricchimento dell’uranio per i prossimi 15 anni potrà avvenire entro i limiti del 3,67%. Le riserve di uranio presenti in Iran, 10 tonnellate, dovranno essere ridotte fino ad un massimo di 300 kg.

L’arricchimento avverrà nel sito di Natanz, mentre il reattore di Arak verrà riconvertito e non potrà più produrre plutonio, l’altro combustibile indispensabile per scopi militari.

Continueranno le attività di ricerca e sviluppo su centrifughe avanzate, ma non con la finalità, così si legge, di accumulare uranio arricchito. La centrale di Fordow non verrà usata come deposito e non svolgerà attività di arricchimento, ma sarà trasformata in un centro di ricerca in cui non sarà più presente materiale radioattivo. Inoltre per dieci anni l’Iran non potrà costruire reattori ad acqua pesante e nuovi impianti.

Le sanzioni vengono effettivamente sospese a seguito di una verifica sull’adempimento degli accordi presi. Le uniche sanzioni che restano in vigore sono quelle per le accuse di terrorismo, diritti umani e per il possesso di missili balistici. Lo stop Onu alle armi resterà in vigore per altri cinque anni, mentre le restrizioni legate alla tecnologia dei missili dovrebbero protrarsi per i prossimi otto anni.

I primi a sanzionare Teheran furono gli Usa negli anni Ottanta, contro l’apporto iraniano al terrorismo internazionale, e poi per impedire lo sviluppo militare del programma nucleare, dagli anni Novanta in poi. Le sanzioni di Onu e Ue sono arrivate dopo il Duemila, sempre in risposta al rischio nucleare, e infatti riguardano il divieto di rifornimento degli armamenti pesanti e delle tecnologie nucleari, come pure il congelamento di beni di soggetti che sono ritenuti coinvolti nel programma di ricerca e il divieto per loro di entrare negli stati membri. L’Unione Europea ha fermato anche i beni di proprietà della Banca Centrale di Teheran e bloccato le transizioni in oro e altri metalli preziosi.

Gli Usa hanno imposto misure restrittive in quasi tutti i settori commerciali, tranne agricolo e medico, e hanno proibito gli investimenti nel petrolio e gas iraniani, la vendita di tecnologia che potrebbe essere usata per realizzare armi di distruzione di massa, di benzina per un valore superiore al milione di dollari e di strumenti per la sua produzione, l’acquisto di petrolio e prodotti petrolchimici, la fornitura di mezzi navali per il trasporto del greggio, il divieto di accesso al sistema finanziario statunitense.

Le relazioni dell’Iran

Con le presidenziali del 2006 e l’elezione di Mahmud Ahmadinejad, l’Iran si è allontanato dall’Occidente e ha aggirato in parte le sanzioni guardando all’America Latina, in particolare Nicaragua, Bolivia e Cuba, all’Asia e all’Africa. Questa politica ha permesso ai grossi gruppi economici di andare avanti, ma non ha impedito la crisi del 2012 con il crollo del Rial e il dimezzamento delle esportazioni di petrolio, quando per la prima volta dal 1980, l’Iran è stato superato dall’Iraq. Così alle presidenziali del 2013 Rouhani ha presentato una piattaforma di dialogo sul programma nucleare, e ha chiesto la fine delle sanzioni, col benestare della guida suprema Ali Khamenei e di quegli esponenti della Guardia Rivoluzionaria entrati negli ultimi anni a pieno titolo nell’economia del paese.

Per l’Iran è senza dubbio l’occasione di far fronte alla crisi, per l’Europa di riprendere gli investimenti delle compagnie petrolifere. Per Rouhani è anche un banco di prova per misurare il consenso in vista delle parlamentari del 2016. Ma resta assai poco probabile che grazie a questi accordi Teheran diventerà mediatore regionale in grado di favorire la distensione in un’area di grande instabilità, dove finora ha avuto un ruolo estremamente chiaro e di parte: in Siria nel sostegno al governo Assad, a Baghdad nel supporto al governo contro lo Stato Islamico. Con l’Arabia Saudita impegnata nelle stesse aree ad esercitare una forza uguale e contraria, sullo sfondo di una questione sunnita sempre più sottovalutata dal 2003 in poi, con l’operazione militare americana in Iraq che ha spianato la strada ai settarismi, alle vulnerabilità interne e alle pressioni esterne.

Sdoganati i divieti all’export di petrolio, Teheran avrà più soldi da investire: per allentare la pressione sugli iraniani, e allo stesso tempo per portare avanti la sua campagna regionale che collega non solo idealmente, su linea sciita, l’Iran al Mediterraneo, passando per la Damasco di Assad e la Beirut degli Hezbollah.

Russia e Cina intanto sono pronte ad entrare nel mercato delle armi iraniano. Già dopo gli accordi di Losanna dell’aprile scorso, che avevano fissato i punti chiave dell’accordo sul nucleare poi sottoscritto a Vienna il 14 luglio,  Putin si era detto pronto a fornire a Teheran i suoi S-300, i missili anti-aereo che con un ordine esecutivo della Federazione Russa potranno ora transitare sul territorio ed essere esportati in Iran. E nel frattempo ha reso sempre più evidente la sua presenza in Siria, in funzione di tutela di quello che resta del regime, preoccupata del suo sbocco sul Mediterraneo, la base di Tartous.

Iran e Siria

Bashar al-Assad si è congratulato con il leader supremo Khamenei per il risultato storico degli accordi. Ed effettivamente anche il regime siriano dovrebbe presto vederne gli effetti, in termini di nuovi aiuti, finora comunque garantiti nonostante la crisi economica e le sanzioni imposte all’Iran dalla comunità internazionale.

Il rapporto che lega Teheran a Damasco risale alla guerra Iran-Iraq del 1980, quando la Siria si era schierata a fianco degli Ayatollah contro Saddam Hussein. Col passare degli anni questa relazione è passata da un partenariato ad una dipendenza del regime degli Assad dal vicino sciita.

Forte dell’esperienza di contrasto alla Rivoluzione Verde del 2009, quando le manifestazioni scoppiate dopo la rielezione di Ahmadinejad vennero brutalmente represse, l’Iran ha cominciato a sviluppare un sistema di controllo sempre più capillare, fatto di monitoraggio della rete, il più avanzato dopo quello cinese, e forze paramilitari pronte ad affiancare la Guardia Rivoluzionaria. Il modello è stato esportato in Siria, dove gli Shabiha, forze paramilitari, sono state addestrate dagli iraniani, e il capo delle forze Al Quds, Qasim Sulaimani, ha guidato personalmente la nascita del National Defence Force. Sarà in seguito questo stesso generale a decidere di schierare centinaia di miliziani iraniani e stranieri a difesa di alcuni siti sensibili minacciati dallo Stato Islamico. Almeno fra i 7 e i 15 mila.

La sicurezza dell’Iran è strettamente legata alle reti regionali coltivate in Siria, Iraq e Libano, in una galassia di alleanze che comprendono le milizie filo-governative di Assad, quelle sciite irachene e gli Hezbollah, anch’essi presenti in Siria a fianco del regime. E se l’Iran ha già investito miliardi nella sua campagna regionale nonostante la crisi e le sanzioni, con più libertà e peso economico internazionale potrà continuare a farlo, senza nemmeno più sottostare a quell’aura di discrezionalità che finora ha caratterizzato il continuo processo di export di materiali e mezzi militari, oltre al ruolo di consulenza e invio di uomini sul campo.

Lo scorso 19 maggio Iran e Siria hanno firmato un accordo per una nuova linea di credito da un miliardo di dollari per il governo Assad, poi sottoscritto dal parlamento siriano il 7 luglio. Già nel 2013 Teheran aveva accordato a Damasco altre due linee di credito per un ammontare di 4,6 miliardi di dollari per le forniture di petrolio. A questo punto i rivali mediorientali dell’Iran in uno stato fallito come la Siria, cercheranno di ribilanciarne l’influenza e il rinnovato potere, continuando a foraggiare le forze sunnite, con il conseguente inasprimento della lotta e della settarizzazione. I lealisti appoggiati da Teheran dovranno comunque continuare ad affrontare un fronte antigovernativo plurale e già radicalizzato, che con gli accordi sul nucleare ha anche un elemento in più per leggere negli eventi un complotto ordito dagli americani, e nella comunità internazionale una rinnovata cecità di fronte al regime. La crescita della radicalizzazione non farà altro che alimentare il reclutamento e il finanziamento di jihadisti e qaidisti, legittimati dalla necessità di difendersi dal rafforzato asse sciita.

Diana Darke, scrittrice e giornalista free lance londinese con una lunga esperienza di vita a Damasco, parla di iranizzazione della Siria, prima strisciante, ora manifesta; e racconta di un Iran che non vuole perdere gli investimenti fatti, pur mettendo in conto anche la remota possibilità che Assad possa crollare. Un segno di questa politica sarebbe il tentativo di modificare la demografia e favorire la nascita di nuovi quartieri sciiti, come avvenuto con la confisca dei terreni intorno all’ambasciata iraniana di Damasco, dove abitavano famiglie sunnite a basso reddito che sono state sfrattate.

Iran e Iraq

La fase post rivoluzionaria dell’Iran è stata caratterizzata dalla guerra contro l’Iraq, che ha avuto un ruolo di primo piano nella ridefinizione della politica interna ed estera del paese dalla sua fine, nel 1988, in poi. L’aggressione computa da Saddam Hussein viene interpretata come il tentativo degli Usa di impedire il compimento del processo rivoluzionario khomeinista. Da qui la necessità di creare all’esterno un asse di deterrenza e difesa sciita, che passasse dalla Siria di Assad, dal Libano di Hezbollah e da Gaza con Hamas; e all’interno un fronte di Guardie Rivoluzionarie e unità speciali che avrebbero potuto intervenire dentro e fuori dai confini nazionali. Dopo il 2003, con lo smembramento di fatto dell’Iraq, è venuta meno quella minaccia territoriale, e la politica di espansione può crescere.

L’Iran è stato il primo paese che si è detto disponibile a combattere lo Stato Islamico in Iraq sin dall’estate dello scorso anno. Oggi fra Siria e Iraq agiscono circa cinquanta formazioni militari che fanno capo all’Iran più o meno direttamente. L’Iran ha anche una grande influenza politica sul governo iracheno, e stretti rapporti con il Consiglio Islamico e i circoli religiosi di Karbala e Najaf. La scorsa estate Teheran ha anche avuto un ruolo chiave nella negoziazione per il passaggio di consegne fra primi ministri, da Nouri al-Maliki ad Haidar al-Habadi. Il peso iraniano a Baghdad si è concretizzato anche con la vendita di armi e mezzi militari, di fatto tollerata dalla comunità internazionale in nome del contrasto al Califfato, nemico comune.

Secondo quanto riportato dalla Reuters, nel febbraio scorso l’Iran ha firmato un accordo per vendere in Iraq armi, munizioni, visori notturni, dispositivi di protezione contro gli agenti chimici e apparecchiature di comunicazione, per un valore complessivo di 195 milioni di dollari. Oltre a fornire al paese energia elettrica e gas. E tutto questo quando era ancora in pieno regime di sanzioni internazionali. D’altra parte, l’Iran non ha mai fatto mistero della necessità di controllare il vicino, come testimonia un rapporto dell’Expediency Council, letteralmente il Consiglio di Teheran per la determinazione del bene comune, che inquadra l’Iraq nella sfida per la stabilità regionale – a guida iraniana – minacciata dalle insurrezioni sunnite.

Ma se ufficialmente l’Iran è in missione anti Stato Islamico in Iraq, e per questo ha dato supporto a Baghdad come pure ai curdi della regione autonoma del nord, di fatto ha reso il vicino una sua provincia…

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