Incontro con un cristiano siriano:
la guerra e l’assillo della protezione

Alto, passo spedito, sguardo sereno. R. A. arriva puntuale al nostro appuntamento nel cuore di Beirut, a due passi dal museo archeologico, dove un tempo passava quella linea verde che divise in due la città e che per quindici anni ha visto distruzioni che oggi chiunque, guardando una fotografia del tempo, attribuirebbe alla sua Siria. C’è anche questo nesso di fondo tra passato e presente a rendere la sua vicenda simile a quella di altri cristiani che all’epoca rifiutarono di prendere campo con i loro correligionari, i falangisti, nella convinzione che questi fossero in guerra con la promiscuità di Beirut, la sua levantinità, cioè la sua natura di città del vivere insieme o del morire tutti come degli stolti. Così, a Beirut, il presente cristiano di R.A. risulta familiare soprattutto per chi ricorda quello di tanti cristiani libanesi che si posero fuori dal coro sul finire dello scorso millennio. “I cristiani in Siria hanno memoria selettiva. Ricordano bene episodi anche lontani, certamente veri, di ostilità da parte musulmana. Ma dimenticano gli episodi passati o magari recenti di solidarietà. E questo probabilmente perché una cultura profonda, una lettura storica, ha fatto percepire i primi come veritieri, i secondi solo occasionali. Molti ad esempio parlano di vicende che risalgono ai tempi della colonizzazione francese. Ecco, insistere a usare il termine improprio di “cristiani d’Oriente”, evocativo della famosa “questione d’Oriente”, aiuta ad assimilare i cristiani alle vecchie potenze coloniali. È un piccolo esempio di quella cultura profonda di cui parlo. Non serve illudersi di poter raddrizzare le gambe alla storia, serve invece elaborare una memoria non selettiva per capire che il vivere insieme è possibile, e dipende dalle scelte di tutti, nessuno è depositario di un’ipotetica giustizia comunitaria o di un’altrettanto ipotetica ingiustizia comunitaria, eternamente valide.

Ora succede lo stesso con quel che accade o è accaduto in questi anni. Molti cristiani ad esempio dicono che le nostre comunità non hanno sostenuto Assad all’inizio della rivolta, ma solo dopo, quando la rivoluzione da non violenta si è fatta jihadista. Beh, questo non è vero. Molti hanno sostenuto Assad da subito, dall’inizio. Ricordo benissimo quando tutto cominciò da noi. Erano sette medici, col camice bianco, che andarono a protestare in Comune. E ricordo quelli che inveirono contro di loro; li volevano, almeno a parole, morti. Perché? Perché non si capisce la nostra vicenda se non si diventa familiari con il concetto di “protezione”. Noi viviamo con l’idea di protezione fissa in testa. Ci nasciamo con quest’idea impressa in testa. Proteggere è anche dover proteggere. Le faccio un esempio. Io avevo lasciato già il paese, ero qui, in Libano. Al tempo dovevo concludere il mio noviziato ma non mi sono sentito in grado di farlo in Siria, in quel contesto, con quelle idee diffuse intorno a me. Così qui dicevo, sommessamente e solo in convento, la mia. Poi un giorno mio padre venne convocato dai servizi segreti. Venne convocato da loro agenti, proprio lì, in chiesa. Quel prete, quel parroco, che si è prestato a una cosa del genere, lo ha fatto per l’idea di “dover proteggere”. Lui doveva proteggere mio padre. Favorirlo. E dunque lui non stava “collaborando” con i servizi, stava facendo una cosa utile. È un piccolo esempio di quanto profonda sia l’idea di protezione. Confessionalismo e tribalismo non conoscono le categorie della cittadinanza. Quanto è connessa con il sistema tribale l’indispensabilità della protezione… Quel prete, ne sono certo, deve essersi detto che faceva un’opera buona, il suo dovere, nei suoi parametri era un “servizio” consentire agli agenti di convocare mio padre non nei loro uffici, ma in chiesa, per dirgli di farmi sapere che era meglio se tenevo la bocca chiusa. Così quando mio padre è stato convocato nuovamente, ma negli uffici dei servizi, si sarà preoccupato. Come si preoccupa chiunque per un amico in difficoltà. Ma io cosa dicevo? Oltre a esprimere la mia opinione, facevo del male a qualcuno definendo non etico difendere un regime come questo?”

R. A. mi assicura che non ha problemi se scriverò di lui, anzi, mi invita a farlo, anche scrivendo il suo nome e cognome per esteso. “Non voglio anonimato, o nomi di fantasia, e neanche le sole iniziali. Non voglio che mi presenti come uno scuro di pelle o proveniente da una città della Siria che non è la mia. No. Non posso continuare a sentirmi braccato dalle mie idee, colpevole di pensare quello che penso. Io ho fatto la scelta di non essere un clandestino, ma di dire quello che so. Non sparo, non uccido, non combatto. Ma parlo, lavoro, scrivo. Questo sì. Questo non ammetto più di impedirmelo per paura. È per questo che non ho nostalgia della mia patria. La nostalgia non è questione di colori, o di canzoni, la nostalgia è questione di persone. E le mie persone non ci sono più né credo che potranno tornare.

Io ricordo, e credo che la mia non sia una memoria selettiva, quando la nostra città venne divisa in due. Le zone cristiane erano nel versante dei lealisti, e alcuni comandanti degli insorti per vincere la battaglia pensarono di chiudere l’unica strada che consentiva alla farina ed altri alimenti di raggiungere i nostri quartieri. Fu la popolazione ad opporsi. Furono tanti sunniti a dire “no, sono nostro fratelli”. Questo non possiamo dimenticarlo per la memoria dolorosa di quanti fatto da altri, dai gruppi jihadisti. Io credo che dobbiamo costruire una memoria che esca dal circuito della protezione.”

I racconti di R. A sono tanti, complessi, dolorosi, avvincenti. Ricorda quando ha lasciato il convento ed è andato a vivere in un campo profughi, tra siriani fuggiti e palestinesi di vecchia e dolorosa residenza in quelle baracche. Lì ricorda i giorni difficili, la paura, la ricerca di un lavoro, e quel giorno, quando, attraverso una zona di Beirut, venne fermato per il timore che stesse filmando qualcosa, mentre lui stava solo parlando al telefono. “È stata lunga, dura, poi mi hanno detto che potevo andare visto come mi chiamavo. Dunque mi lasciate perché sono cristiano? Sì, mi hanno detto. Ecco la protezione che ti entra dentro, che ti accompagna, è così che ti diventa familiare l’idea che quelli ti proteggono perché sei cristiano, facendoti dimenticare le ore precedenti. Ma questa memoria selettiva è un tumore che ci teniamo dentro, e che cresce… E la Chiesa deve avere il coraggio di rompere con certe prassi. Io ricordo benissimo il nostro vescovo melchita Isidore Batthika, quello invitato da Benedetto XVI a dimettersi e recarsi in un convento venezuelano. In Siria tutti sanno perché… Ora sento dire, e ovviamente spero che non sia vero, che il suo nome starebbe per essere inserito nella terna proposta al Vaticano che deve nominare il nuovo vescovo melchita (i greco cattolici) in Venezuela. Ma Roma deve sapere cosa significherebbe una cosa del genere, se dopo essere stato costretto a dimettersi e ad andare in Venezuela venisse adesso nominato vescovo del Venezuela. Voglio dire che noi dobbiamo parlare, con onestà e trasparenza. Io ho scritto a tutti quelli cui dovevo scrivere dopo essere stato molestato. È finita che nessuno mi ha risposto.” Io sono sicuro che R. A. tornerà alla sua vocazione in un altro contesto. La guerra siriana, secondo le cronache, si starebbe per concludere. Per quanto? Di certo protezione e memoria selettiva continueranno ad affliggere i siriani che invece hanno bisogno di cambiare priorità. E conoscendo lui mi sono chiesto perché non dovrebbero essere pronti.

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