Perché la Gran Bretagna non vieta il burqa come la Francia

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Il dibattito sul velo integrale – burqa e niqab – nei tribunali e nelle scuole britanniche era da sempre destinato ad aprirsi. La questione era stata sollevata qualche anno fa a seguito di alcune osservazioni di Jack Straw ma finora non si era mai trasformata in una discussione vera e propria riguardo all’opportunità di istituire per legge anche nel Regno Unito un divieto generalizzato sullo stile di quello francese.

Le proposte avanzate da politici come Phillip Hollobone, Jeremy Browne e Nick Clegg sembrano andare in quel senso, ma secondo me questo Paese non finirà mai per produrre una legge analoga a quella che è in vigore in Francia ormai dal 2011. Se lo facesse non sarebbe un bene, ma è comunque importante che questo dibattito si sia aperto.

La pubblica deliberazione è salutare per una democrazia. Nello specifico, il dibattito è uno dei tratti più preziosi tra quelli che contraddistinguono la democrazia britannica. Altrettanto preziosi, però, sono la tutela delle libertà individuali e il pragmatismo che connotano questo Paese. Da quest’ultimo punto di vista, non sono sicura che il numero di donne che indossano il niqab o il burqa in questa nazione sia in effetti tale da meritare davvero così tanta pubblica attenzione, e tantomeno un così grande dispendio di pubbliche risorse.

A differenza della Francia, la Gran Bretagna ha scelto un approccio fluido al tema della diversità e a quello del carattere multiculturale della propria società e, nelle circostanze attuali, non è facile – anzi, forse è addirittura impossibile – stabilire con chiarezza dove si collochi la soglia della cosiddetta “diversità”.

In ultima analisi, il dilemma più ostico che chiunque si trova ad affrontare al giorno d’oggi è quello di capire come raggiungere un equilibrio tra i diritti dei cittadini in quanto gruppo e quelli dell’individuo. Francia e Gran Bretagna hanno in comune parecchie convinzioni in materia di diritti umani oltre al principio della libertà religiosa e al profondo rispetto per lo stato di diritto, ma le culture politiche e i sistemi giuridici di questi due Paesi sono profondamente diversi tra loro.

I francesi attribuiscono un fortissimo ruolo simbolico alle istituzioni statali. Le istituzioni sono oggetto di enorme rispetto anche nel Regno Unito, ma la cultura politica e il sistema giudiziario della Gran Bretagna finiscono per indurre a un approccio più pratico a tali tematiche (tanto per fare un esempio, non esiste nemmeno un documento a cui sia stato attribuito il titolo di “Costituzione”).

I francesi hanno discusso per quasi due anni la loro legge anti-burqa, ipotizzando tutti i possibili scenari in cui il velo integrale potesse connotarsi come una minaccia al sacrosanto principio della laicité (secolarismo). La società britannica, invece, non pare aver preso davvero sul serio il significato del velo fino a quando esso non è arrivato a costituire un dilemma in un contesto specifico e assolutamente “concreto” in cui era rappresentato lo Stato, ovvero in un’aula di tribunale. E anche in questo caso, oggetto di accese contestazioni e polemiche, la soluzione adottata è comunque lontana da quella francese.

La decisione presa dal giudice Murphy su come gestire l’utilizzo del niqab nel suo tribunale di Londra ha chiaramente dimostrato come in Gran Bretagna, in relazione alla controversa questione se l’uso del velo integrale debba essere o meno vietato nei luoghi pubblici, prevalga il pragmatismo. Alcuni lo hanno accusato di aver ceduto troppo al compromesso, ma la sua scelta è stata invece ferma e saggiamente motivata.

Il giudice ha infatti evitato di seguire la strada del divieto assoluto, ma la richiesta da parte sua che la donna interessata si scoprisse il volto nel momento in cui prestava testimonianza stabilisce un precedente, per quanto sul piano tecnico si sia chiaramente ribadito che si trattava di una soluzione ad hoc e che eventuali situazioni analoghe che dovessero presentarsi in futuro verranno discusse caso per caso.

Nel suo optare per un approccio morbido che consente alla teste di restare velata in aula durante il processo ma la obbliga a identificarsi di fronte ai pubblici ufficiali al suo ingresso e a scoprirsi il volto durante la deposizione, il giudice ha di fatto sottolineato un duplice ruolo e un duplice ordine di priorità in materia di diritti di chi viene citato in giudizio, oltre che la posizione istituzionale della figura del giudice e della corte. In quanto persona semplicemente presente in aula, la donna vede data priorità al suo diritto individuale alla libertà di credo religioso, ma quando assume il ruolo “ufficiale” di imputata ecco che prendono il sopravvento gli interessi dello Stato (che le “richiede” di presentarsi al cospetto di una corte) con tutte le regole di identificazione, trasparenza e comunicazione che vanno rispettate nel corso di un processo.

Pur non essendo una fan della “moda” (così mi piace considerarla) del velo integrale, comprendo comunque la posizione e la logica di cui si fanno portatrici coloro che decidono di indossarlo e il significato profondo che esse attribuiscono al proprio diritto di esprimere la loro fede. Sono però altrettanto convinta che tra i compiti fondamentali di uno Stato ci sia quello di mantenere la pace, la libertà e l’ordine sociale.

Per tutte queste ragioni trovo che un divieto generalizzato sarebbe un pericolo più che un bene per il pubblico interesse e la coesione sociale. Servirebbe solo a suscitare inutilmente reazioni in ogni angolo della società, a esacerbare divisioni – che siano reali o anche solo percepite – tra le varie comunità e rischierebbe di destare preoccupazione tra i musulmani. Potrebbe addirittura finire per incoraggiare individui e gruppi inclini o già colpevoli di atteggiamenti offensivi nei riguardi di altre comunità razziali o religiose.

La mentalità a senso unico e l’esclusivismo costituiscono due gravi minacce per la società contemporanea. Possono portare al fondamentalismo, all’estremismo e al totalitarismo. La flessibilità e il pragmatismo vanno sempre e ovunque accolti con favore allo scopo di tutelare la democrazia, le libertà individuali e il bene comune. Quindi sia benvenuto il dibattito ma speriamo che, una volta chiusa la discussione, venga fuori che non c’è bisogno di una legge.

Traduzione dall’inglese di Chiara Rizzo

La versione originale di questo articolo è stata pubblicata su The Conversation. Leggi l’articolo originale.

Sara Silvestri è Senior Lecturer, Departement of International Politic, City University London

  1. La scelta della GB n lascia dubbi a discorsi ambigui.
    Essa e’ prettamente finanziaria.
    Il volto coperto nasconde un macrocosmo ( dato il numero di muslin in gb) di sottomissione, di illegalità , di pericolo ( e’ vietato coprirsi il volto in un luogo pubblico.. Oggi piu che in passato).
    Lasciare l islam equivale ad essere banditi da famiglia e comunità ( in Arabia saudita ed altri paesi … Pena di morte) anche nella democratica Londra, dove matrimoni forzati e prepotenze maschili si riflettono proprio in quel velo spesso imposto.
    Nn e’ una moda e lo dimostrano i casi di donne ripudiate o massacrate.
    La moda e’ una scelta libera, espressione di liberta’ nell occidente e , soprattutto in uk.
    Fare discorsi intorno a oscurantismo e sottomissione affinché si possa accettarli credo che sa inutile e pericoloso per quella civiltà democratica che a me piace molto ed esclude schiavitù , infibulazione, sottomissione e religione forzata.

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