Egitto, il mediatore fantasma
nella guerra di Gaza

Da Reset-Dialogues on Civilizations

C’è voluta una nottata di lampi e boati causati da bombardamenti che hanno ucciso decine di persone per convincere l’Egitto ad aprire Rafah, l’unico valico della Striscia di Gaza non controllato da Israele dal quale si possono raggiungere gli ospedali del Sinai. È qui che, nelle poche ore in cui il passaggio resta aperto, si fiondano i feriti dell’ennesima escalation di violenza tra israeliani e palestinesi, la più violenta dal novembre 2012.

Il tramonto della luna di miele tra Cairo e Gaza

Allora, a mediare una tregua fu proprio il Cairo. Ora però in questa regione molto è cambiato. L’asso nella manica della mediazione egiziana era il rapporto tra Fratelli Musulmani – rappresentati al Cairo dal presidente Mohammed Morsi – e i cugini di Hamas, costola della Confraternita islamista che ha il potere su Gaza. Ora che la Fratellanza è rinchiusa nelle carceri egiziane, la luna di miele tra gli arabi al di qua e al di là di Rafah è finita.

Il nuovo presidente Abdel Fattah Al-Sisi spera che la disfatta dei cugini palestinesi indebolisca la Fratellanza egiziana – nemica dell’esercito al quale lui è appartenuto. Per questo dal Cairo hanno fatto capire che questa volta l’Egitto non si sforzerà per mediare.

Da ieri però, tale posizione sembra essersi ammorbidita e l’Egitto torna ad apparire come un possibile mediatore. Un portavoce del presidente egiziano ha detto infatti che Sisi ha promesso al presidente dell’Autorità palestinese – al potere in Cisgiordania – di alzare la cornetta per chiamare quanti possono fare qualcosa per mettere fine alla mattanza. Più tardi Abu Zuhri, un portavoce di Hamas, ha rivelato all’agenzia Bloomberg l’esistenza di contatti tra Gaza e il Cairo.

Rivelazioni interessanti non solo perché qualsiasi mediazione di successo deve coinvolgere Hamas – e non solo l’Autorità palestinese che ha a sua volta ha problemi con gli islamisti che governano Gaza – ma anche perché fanno pensare che gli sforzi egiziani di cui si parlava a metà giugno non sono del tutto svaniti.

Sisi, possibile negoziatore

Non è quindi escluso che Sisi decida di fare scendere in campo i suoi negoziatori. Se da una parte è evidente che gli islamisti palestinesi non sono il suo alleato naturale, dall’altra è chiaro che il presidente egiziano non vuole rivoluzionare la politica estera del Cairo che mira a influenzare l’ordine regionale anche al fine di soddisfare gli interessi della Casa Bianca.

Nonostante le propensioni neo-isolazioniste degli statunitensi e il fatto che il morale del Segretario di Stato John Kerry sia ormai a pezzi a causa del fallimento dell’ennesimo tentativo di rappacificare Israele e Palestina, Washington desidera ancora un Medio Oriente stabile. L’Egitto rimane quindi una pedina importante.

Le parti in conflitto non sembrano però ancora pronte a riporre le armi. Per la diplomazia Usa il primo obiettivo parrebbe quello di scongiurare un’invasione di terra da parte del governo israeliano.

Gli obiettivi di Tel Aviv sono chiari. Mentre da un lato si cerca di punire la leadership di Hamas,  sotto accusa, seppure ancora senza prove convincenti, per il l’uccisione dei tre giovani israeliani, dall’altro si vuole scongiurare qualsiasi possibilità di riconciliazione tra gli islamisti di Hamas e i nazionalisti di Fatah.

La spina nel fianco della pace tra Fatah e Hamas

Alla base di questo conflitto infatti si trova anche il recente annuncio di riconciliazione palestinese e l’insediamento del nuovo governo di consenso nazionale a Ramallah con l’appoggio di entrambi le fazioni palestinesi. A supervisionare la nascita di questo esecutivo c’era Moussa Abu Marzouq, stratega di Hamas, famoso per tessere con successo la tela dei rapporti e delle mediazioni tra Egitto-Gaza e i servizi segreti israeliani. Abu Marzouq, il caso vuole, è l’unico uomo di Hamas a risiedere in Egitto anche dopo la morsa repressiva dei militari nei confronti degli islamisti.

Sebbene il governo sia di natura tecnica e quindi senza ministri affiliati a Hamas, Israele ha da subito condannato il nuovo esecutivo, dichiarandolo un governo di ‘terroristi’ con il quale Tel Aviv si rifiuterà di dialogare. Di stesso avviso però non sono state le principali potenze internazionali, a cominciare da Stati Uniti, l’Unione europea, Cina, India e Russia.

Difficile pensare che dopo l’ennesima escalation di violenza tra Hamas e Israele, e il continuo collaborare in ambito di sicurezza tra Fatah e Israele in Cisgiordania, il recente accordo di riconciliazione nazionale Hamas-Fatah possa sopravvivere. Così la divisione politico-militare tra la Striscia di Gaza, controllata da Hamas, e la Cisgiordania di Fatah continuerà a minare gli obiettivi nazionali della Palestina. Non è un caso, infatti, che lo stesso Benjamin Netanyahu abbia per anni puntato a questa divisione come prova della mancanza di un partner riconosciuto dall’intera popolazione palestinese con il quale siglare un accordo di pace. Mentre si aspetta che un mediatore – egiziano, turco, saudita o statunitense che sia – con serie intenzioni si faccia avanti, i violenti attacchi continuano ad aumentare, così come i morti e le tensioni intra-palestinesi.

Vai a www.resetdoc.org

Immagine con licenza CC, Amir Farshad Ebrahimi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *