Per una critica del conservatorismo urbanistico

Sta il fatto che un comunista non è mai riuscito a vincere in Italia le elezioni, e forse per vincerle – sosteneva Michele Salvati in una intervista su Il Foglio la settimana prima delle ultime elezioni – il Partito democratico avrebbe dovuto diventare davvero liberal-democratico.

Ma essere liberal-democratici non è un’astrazione, è un complesso di atteggiamenti e di programmi che di fatto contrasterebbero vivacemente con quelli della lunga tradizione comunista, quegli atteggiamenti e quei programmi che contribuiscono a rendere poco apprezzata l’offerta politica di una sinistra che vi si ispiri, e certo non tra i meno rilevanti quelli concernenti la politica urbanistica.

Roberto Della Seta ed Edoardo Zanchini hanno in un efficace libretto evocato le posizioni e le battaglie condotte in questo campo nel corso del dopoguerra, un libretto esaustivo e istruttivo di quanto uno schieramento di sinistra – cui credo di appartenere da sessant’anni ma che in questa sinistra che gli autori vorrebbero interpretare proprio non mi riconosco: è in realtà la vicenda dei comunisti soprattutto romani – non dovrebbe far proprio se volesse vincere le elezioni in quanto interprete delle aspirazioni popolari e non dei dubbiosi principi degli urbanisti di codesta scuola.

Tanto per incominciare eviterei di criticare le moltissime case costruite dagli anni Cinquanta in poi – e che hanno portato in Italia la percentuale di proprietari del loro alloggio all’80% – sottolineando il guasto causato al paesaggio e calpestando il loro aspetto estetico: quelle case sono il frutto di una generazione che ha lavorato duramente, che ha realizzato il miracolo italiano, e che con un accanito risparmio e molto con il TFR ha costruito e amato queste case, che i professionisti del piagnisteo criticano così aspramente.

Italia Nostra, il FAI, Salvatore Settis o Guido Ceronetti hanno tutto il diritto di mostrarsi indignati, una corrente conservatrice – nel senso proprio del termine, non in quello politico – è sempre esistita fin dai tempi dei romani antichi, ma un partito politico da questi punti di vista dovrebbe prendere le distanze, se non vuole rendersi sgradito in definitiva a quanti sono fieri della loro casa, del suo sito e del suo stile, e non sono poi tanto disponibili ad accettare il punto di vista, del tutto personale – ma con la pretesa di essere il solo legittimo – dei loro critici.

E neppure alzerei troppo la bandiera delle demolizioni delle case abusive e di ogni altro minuto abusivismo: se demolire trasgressioni cospicue come Punta Perotti costituisce un efficace monito a imprenditori troppo disinvolti, la demolizione delle casette sorte un po’ dovunque sarebbe in ogni caso impossibile e dunque starei molto attento a rendere i loro proprietari inquieti della solidità dei loro beni senza che poi siano attuabili le demolizioni di massa sbandierate, proprietari che propenderebbero per chi almeno non dichiara nel proprio programma di volerlo fare.

Lascerei dunque perdere queste minacce e cercherei di capire il motivo di un così vasto e pervicace abusivismo, magari domandandoci perché nel nord del nostro paese sia quasi inesistente: se queste politiche amministrative settentrionali fossero fatte proprie anche nel Mezzogiorno, l’abusivismo nuovo declinerebbe e la prospettiva di demolire le case abusive già esistenti perderebbe col tempo un significato.

Ma come ottenere questo obiettivo? I comunisti, intrisi dei principi della pianificazione nei paesi dell’est europeo, hanno privilegiato l’obiettivo di conseguire quella che consideravano “buona urbanistica” attraverso leggi nazionali, il mito di una nuova legge urbanistica che dall’alto verso il basso rigenererebbe le nostri città e i nostri villaggi: “una visione che rivendichi la necessità e l’utilità di regole, di politiche che vedano lo Stato come dominus del governo del territorio” chiedono gli autori.

Di questa legge statale le città e i villaggi non ne vogliono sapere, i loro amministratori sono consapevoli che aumenterebbe la difficile praticabilità di procedure già ora bizantine e nei cittadini consoliderebbe il sospetto che siano state concepite per consentire tangenti più corpose di quelle in uso, come già hanno sperimentato con i piani quinquennali prescritti e poi fortunatamente aboliti qualche tempo fa.

E’ consuetudine recriminare l’esproprio generalizzato dei terreni edificabili, proposto un tempo da Fiorentino Sullo, e la loro successiva riassegnazione con concessioni a tempo, simili a quelle inglesi, ma nel nostro paese – dove l’orgoglio del possesso della casa è radicato da dieci secoli – questo by-pass delle consuetudini non avrebbe potuto venire raccolto, se non quando le cooperative rosse e bianche non chiederanno per i loro associati le procedure di esproprio della legge 167.

Ecco dunque che il lettore di questo libro potrà esercitarsi a immaginare quali conseguenze avrebbero avuto e avrebbero quelle famose proposte di riforma, archiviate per l’appunto evitando di votare per i comunisti nelle elezioni nazionali: perché poi, se gli imprenditori edilizi spesso guadagnano parecchio denaro e finiscono nelle liste elettorali romane, come Marchini, è anche vero che la loro iniziativa arricchisce il paese – così sosteneva l’Apology of the builder, l’autodifesa di un imprenditore edilizio nella Londra del tardo Seicento – e che a lungo andare quanti hanno comprato da loro una casa vengono oggi considerati dai ricercatori europei tra i poveri più ricchi dell’Unione.

Questo genere di urbanista romano ha come riferimento il parlamento e concepisce la sfera politica del paese come un teatrino di burattini i cui fili dovrebbero venire tirati dai palazzi della capitale, dalle iniziative di qualche ministero cui arrivano di fatto soprattutto i suggerimenti romani la cui competenza è appunto soprattutto di essere urbanisti romani: e così gli eroi eponimi della buona urbanistica e della sua battaglia sono in questo libro tutti romani, Leonardo Benevolo, Giuseppe Campos Venuti, Edoardo Salzano, e quel mio carissimo amico che è Vezio De Lucia.

Questo maniacale atteggiamento centralista concerne anche le riforme – quella Bassanini e quella del titolo V della Costituzione – fuori dall’Agro romano accolte con molto sollievo e come un passo avanti verso una articolazione più democratica del Paese. Ma i centralisti romani lamentano che queste riforme hanno trasferito molte competenze alle Regioni, cui vengono tirate le orecchie perché non hanno sottoposto i loro piani paesistici all’approvazione del ministero, come vorrebbe il Codice dei Beni Culturali. Senonché le Regioni hanno esperti paesistici di straordinaria e riconosciuta competenza cui questi piani sono stati affidati e cui sono stati forniti strumenti tecnici e ricognitivi per il MiBAC inimmaginabili, Regioni che non hanno alcun interesse a concordarli con il vertice ministeriale perché poi le Soprintendenze vogliono comunque riservarsi il diritto di giudicare su ogni singolo caso anche dopo l’eventuale approvazione del piano paesistico: e dunque a che pro, se lo stesso confronto può avvenire in loco?

Ecco che il compound romano, fomentato da Asor Rosa che ha lì la sua casa di vacanza, eleva vibranti proteste e le solite schiere dei consueti firmatari – un giro di persone come un altro, accomunate dalla prontezza con la quale sottoscrivono vibrati appelli che per la loro frequenza lasciano ormai il tempo che trovano – insorgono per una schiera di casette sotto Monticchiello, così mettendo alla gogna la Regione Toscana. Solo che Alain Touraine, che per quasi vent’anni ha avuto lì una casa dove passava mezzo agosto, quelle casette non le ha trovate per nulla disdicevoli, lui che proviene da un paese che i nostri autori reputano “avanzato”.

E dunque ha forse ha ragione Enzo Rossi, il presidente della Regione Toscana – insieme a quello della Regione Veneto, Luca Zaia – a reagire a questa pretesa romana di saperne di più dei suoi tecnici e a dichiarare che il re è nudo chiedendo di farla finita e di trasferire le competenze delle sopraintendenze alle Regioni. Del resto forse le cose andranno in questa direzione, perché poi non si vede perché i tecnici locali dovrebbero essere di probità e di competenza secondarie: checché se ne possa pensare, Roma non è caput mundi e neppure al di sopra di ogni sospetto.

Ecco: in una res publica fondata sullo Stato ma anche sulle Regioni e sui Comuni la pretesa di una regolazione universale di tutti i comuni, dalla capitale al villaggio, con la medesima rete normativa, non è quello che occorre per migliorare il buon uso del territorio e quelle proposte, appena avvertite, consolidano la consueta diffidenza per i programmi dei comunisti e di quella schiera della sinistra che ne avevano subito il fascino negli anni Cinquanta e che ancora lo subiscono, quando la loro presunzioni di essere comunque “i migliori” creava negli altri il sottile disagio di essere diversi e dunque incoraggiava il l’intimidito conformismo di tutta la sinistra.

Beninteso gli amministratori locali – soprattutto nel nord del paese – non sono coinvolti in queste audaci prospettive di palingenesi normativa, e operano con la ragionevole competenza della quale sono capaci, affrontando problemi concreti e spesso continuando a mantenere la fiducia dei loro elettori. Dico il nord del paese perché mi sono imbattuto recentemente in un progetto di vincolo urbanistico dei quartieri storici di Bari che sembra concepito da una sezione urbanistica della GPU.

Ma ciò che mina la credibilità di tutta la faccenda è una questione più radicale, e viene dall’esperienza di quell’Italia che con i palazzi romani non ha volentieri dimestichezza ma ha fatto sul campo parecchio di più.

Qui a Milano, a partire dal 1956, l’ondata dei migranti meridionali è andata riversandosi sui comuni intorno al capoluogo, guidati da amministrazioni di sinistra, e i giovani architetti comunisti – quelli associati nel Collettivo di architettura ma anche altri, sempre comunisti ma non senza qualche socialista – chiederanno di redigerne i piani regolatori in modo da controllare la vivacissima spinta edilizia, piani redatti con tutte le regole consolidate della loro disciplina – quelle del resto fondate nella facoltà di architettura ancora sul testo di Cesare Chiodi, meritatamente riedito qualche anno fa da Giuseppe Imbesi per l’editore Gangemi – e nel caso contrattati con gli imprenditori edilizi, costretti a prendersi carico delle opere di urbanizzazione, a cedere aree e a costruire qualche asilo, aree e attrezzature codificate nel 1964 per tutti i comuni del Piano Intercomunale Milanese – che comprendeva Milano, allora di centro-sinistra – con la tabella degli standard da rispettare, quelli stessi che verranno poi fatti propri nel 1968 da Martuscelli con i complicati calcoli di Mario Ghio e la drastica spada di Marcello Vittorini: l’urbanistica riformista, insomma.

E va riconosciuta, tra la priorità dell’urbanistica milanese, anche l’usanza del partito comunista e presto anche di quello socialista di chiedere agli imprenditori un pourboire per il partito, quella che in seguito verrà chiamata tangente. Ma questa pratica ha sul campo messo in evidenza un fatto molto più radicale, la fragilità metodologica della nostra pratica urbanistica, perché gli argomenti strettamente tecnici del nostro lavoro – seppure del tutto ortodossi – apparivano così fragili da indurre il responsabile amministrativo del PCI a contrattare direttamente questo pourboire con l’imprenditore anche contro il parere di chi stava stendendo il piano regolatore. Come nel caso clamoroso di Melegnano, dove Lucio Stellario d’Angiolini intendeva concentrare tutti i nuovi quartieri a sud della via Emilia, e trovò bella e confezionata una lottizzazione dall’altra parte.

Leader di questi architetti condotti – perché poi era questo il loro ruolo – e rappresentante autorevole dei comunisti nel Piano Intercomunale Milanese era Alessandro Tutino, molto tempo dopo presidente dell’INU, con il quale andò maturando, verso la metà degli anni Settanta, il disagio da un lato per questa evidente esilità metodologica della nostra disciplina, sperimentata sul campo, e dall’altro la clamorosa ed evidente modestia ambientale di quei nuovi quartieri diligentemente pianificati nel nostro precedente ventennio: con tutta evidenza, il rispetto degli standard non era bastato a creare una città nuova soddisfacente.

E’ da questa constatazione di fatto che mi sono domandato quale fondamento avesse quella nostra disciplina, dove fosse annidato quell’”interesse generale” dato così per scontato ancora oggi dagli autori del libro qui recensito come immanente alla buona urbanistica, un “interesse generale” la cui sola fonte di attendibilità è la conforme dichiarazione degli esperti comunisti, una cosa che avrebbe reso perplesso Popper.

Ed ecco che da una ricognizione sulle fonti, a partire dagli anni Trenta del Novecento (vedi L’urbanistica in Italia nel periodo dello sviluppo 1945-1980, edito da Marsilio nel 1982) questa inconsistenza mi apparve clamorosa, questa urbanistica mi apparve come un coacervo di asserzioni indimostrabili il cui scopo evidente era di legittimare le pressioni degli urbanisti sugli amministratori per assorbire le loro competenze istituzionali. Se il fascinoso progetto dell’asse attrezzato romano rimarrà sulla carta non sarà tanto per le pressioni degli imprenditori – Virgilio Testa non mi parve, parlandogli, la loro testa di ponte – quanto per l’esilità delle motivazioni, combattere la tendenza naturale verso un’espansione a macchia d’olio: e, in fondo, questa missione degli urbanisti di contrastare ogni volta le tendenze consolidate connesse in ogni città alla sua peculiare tradizione sarà il marchio di una volontà totalitaria, quel sogno pervasivo di un regime di ortopedia sociale a tutto campo che continuerà a impedire a un comunista di vincere le elezioni.

Che fortuna può avere un partito politico che combatte il “partito del cemento” e che considera tutte quelle case così amate dai loro proprietari l’urbanizzazione anarchica? Ma quando mai! Le città del nord sono tutte pianificate, e di solito benissimo! E lì il cemento non viene considerato sterco del demonio, sono i cittadini che desiderano una casa e gli imprenditori che fondano un’azienda. Questo è il problema di una sinistra dominata dai comunisti, non accettare la società degli elettori: “case e capannoni più o meno inutili” li dicono i nostri autori. Che non sembrano convinti che le case siano il complemento necessario della cittadinanza e in quei capannoni venga prodotta quella ricchezza nazionale sulla quale loro medesimi campano.

Il fatto è che questo nostro mestiere non è quello che pensano i comunisti e i conservatori, correggere i comportamenti dei cittadini di questo paese, ma è di prendere atto dei loro desideri e disegnare i nuovi quartieri perché possano realizzarli nel modo migliore, confortati da quei temi collettivi promossi dalle città europee di questo millennio.

E se i nostri autori possono prendere a modello Torino è perché Augusto Cagnardi, senza bisogno di alcuna legge nazionale ma forte della sua intuizione sulla forma della città, frutto dei suoi studi e delle sue esperienze, ha progettato tanti anni fa un piano regolatore che ha dimostrato come sia possibile disegnare, con gli strumenti della nostra tradizione, un suo affascinante futuro e accendere la convinzione che sia possibile anche sognare, e la Spina, le Olimpiadi, la Venaria reale, porta Palazzo sono la materializzazione di questo sogno.

La bellezza! La bellezza! invocano nelle ultime pagine Della Seta e Zanchini: ma anche qui vediamo in controluce la radice culturale degli urbanisti della Roma comunista, tutti impegnati nella battaglia per stabilire nuove regole che consentano di governare l’intero paese da Roma ma allo scopo ultimo di tutto questo impegno, che sarebbe proprio quello di disegnare belle città, parecchio disattenti: perché poi di quanto ho scritto io da vent’anni sull’estetica della città europea e sulla base teorica della sua bellezza, i nostri volonterosi autori nulla sanno e nulla vogliono davvero sapere, convinti ancora una volta che il problema sia quello di instaurare un nuovo governo e nuove leggi che modificheranno da sola i comportamenti del paese, secondo la consueta tradizione della mitica conquista del potere cui seguirà la società dove la bellezza verrà da sola. Ma nel frattempo gli uffici tecnici dei comuni, senza un sapere e un mestiere propri e consolidati stanno lasciando ai privati il disegno dei nuovi quartieri, delegando un compito da ottocento anni rigorosamente di competenza collettiva.

Forse per questo il solo cultore romano della nostra disciplina che abbia dedicato vent’anni a suggerire come migliorare la vivibilità e la bellezza delle sventurate periferie della capitale, Paolo Colarossi, direttore del Dipartimento di Architettura e Urbanistica nella facoltà di Ingegneria, non verrà in questo libro neppure nominato: forse non è comunista.

Titolo: La sinistra e la città

Autore: Roberto Della Seta, Edoardo Zanchini

Editore: Donzelli

Pagine: 100

Prezzo: 16 €

Anno di pubblicazione: 2013



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