La deriva turca spiegata con Hannah Arendt. Intervista a Cengiz Aktar

Cengiz Aktar è un noto docente di relazioni internazionali in Turchia, ha lavorato sia con l’ONU sia con l’UE, ma soprattutto era tra gli intellettuali turchi più vicini a Hrant Dink, il giornalista di origini armena assassinato nella sua Turchia. Fu allora che Aktar lanciò il suo appello, una richiesta di perdono agli armeni per l’insensibilità mostrata dal suo Paese nei confronti della Grande Catastrofe della quale furono vittime gli armeni ottomani nel 1915.

 

 

 

 

Aktar, già nel 2013 lei sostenne in un’intervista con Reset che il problema era il leader turco Erdoğan e non il suo partito, l’AKP. È stato lui a creare la “miscela esplosiva”, unendo il proprio autoritarismo al nazionalismo già di per sé autoritario in Turchia? 

Ricordo bene quello che dissi a Reset in quell’occasione e mi piace iniziare da qui se è vero che le cose cambiano vale la pena ricordare che all’inizio del millennio l’AKP era un partito politico veramente riformista, con una leadership collegiale, e in effetti i primi anni portarono a riforme impensabili, molto più profonde di quelle di Mustafa Kemal Atatürk. Ma già allora si poteva scorgere in Erdoğan una tendenza autoritaria, e ciò che era temuto in quel momento oggi è diventato realtà. Le cose sono cambiate drasticamente da allora e oggi siamo in un nuovo regime. Per me la migliore analisi del rapporto tra masse e potere è quella di Hannah Arendt. Poiché non esiste un totalitarismo senza il consenso delle masse, i sistemi totalitari derivano dal consenso delle masse. Il consenso e il sostegno che Erdoğan ha registrato nelle elezioni, specialmente in quelle recenti in cui il regime era già lontano da qualsiasi caratteristica democratica, parlano chiarissimo. Vorrei sottolineare che emerge un magma totalitario fatto di fanatismo religioso e nazionalismo. Diamo un’occhiata ai recenti, terribili sviluppi sul fronte siriano, l’assalto principalmente contro i curdi. La scelta della guerra fatta da Erdoğan ha il consenso dell’80% dei turchi, forse di più. E quelli che lo seguono non sostengono tutti quello che viene chiamato Islam politico, in realtà potrebbero non essere neanche praticanti musulmani, ma sono nazionalisti. Qui possiamo dire che l’Islam politico in Turchia oggi ha adottato l’ideologia dei nazionalisti del primo Novecento, dei tempi del partito del Progresso e dell’Unione. Questo partito, una volta pienamente responsabile del governo nel 1909, ha fatto ricorso al genocidio degli armeni ottomani, che consisteva in una “perfetta” pulizia etno-religiosa.

 

Siamo alla questione curda, che va bel al di là dei confini interessati dal conflitto in atto. Lei non crede che parlare genericamente di questione curda, in termini di solidarietà ai curdi, avalli l’idea di un sostegno a un altro stato etnico, che forse non è quel che si intende fare?  

 Ma come altro fare? Come altro esprimere solidarietà ad un popolo che ne ha assoluto bisogno? Questo è un dovere politico. Forse il punto importante da sottolineare è che qui sosteniamo l’esperimento del Rojava, che non è uno stato curdo, ma un esperimento di autogoverno federale che comprende anche arabi, armeni, assiri, yazidi e turcomanni di Siria. Quello del Rojava è stato un esperimento non etnico e secondo me è soprattutto questo carattere plurale che ha irritato molti in Turchia e certamente ha irritato Erdoğan. A differenza della natura decentralizzata dell’autogoverno del Rojava, la Turchia probabilmente anche più che in altri stati della regione è un paese altamente centralizzato. E sotto la morsa di Erdoğan è ancora più centralizzato, l’uomo è un micro-manager che vuole controllare qualsiasi cosa. L’esperienza del Rojava è in ogni caso l’antitesi del dominio totalitario di Erdoğan. Ecco perché ne ha un odio personale.

 

A questo riguardo, come è stata recepita dall’Islam turco e dalla società turca la dichiarazione sulla fratellanza di Abu Dhabi, firmata a febbraio da Papa Francesco e dall’imam di al-Azhar, lo sceicco al-Tayyeb? La sua idea di Rojava coincide infatti con la loro idea di Stati fondati sulla comune cittadinanza, nel nome di una legge laica e condivisa. È un’altra idea di nazione, che archivia anche nell’Islam l’idea di millet e conduce alla nazione dei cittadini, dove il popolo non è un dato etnico o religioso ma territoriale.

Non credo che deluderò o sorprenderò nessuno dicendo che per i turchi e per l’Islam turco ciò che è accaduto ad Abu Dhabi è un non-evento. Nessuno ha parlato della Dichiarazione qui, tranne quando alcuni ultra-cattolici hanno criticato il Papa per questa iniziativa. Non dovrebbe sorprendere perché in uno dei paesi con la più alta percentuale di musulmani al mondo, la Turchia, non esiste un solo pensatore o teologo musulmano riconosciuto fuori dai confini nazionali. Non partecipano a conferenze o incontri di dialogo perché non sono interessati; sono parrocchiali, isolati. Al tempo dell’Impero ottomano non era così, e forse questo parrocchialismo è un prodotto della nazionalizzazione della religione da parte di Ataturk. L’Islam sunnita era così strettamente controllato dallo Stato che divenne sotterraneo e difensivo.

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