DA MADRID

Marco Calamai

ingegnere, dirigente sindacale CGIL, funzionario Nazioni Unite. Giornalista, ha scritto libri e saggi sulla Spagna, America latina, Balcani, Medio Oriente. All'ONU si è occupato di democrazia locale, dialogo interculturale, problematiche sociali, questione indigena. Consigliere speciale alla CPA ( Autorità Provvisoria della Coalizione, in Iraq (Nassiriya) si è dimesso dall'incarico ( 2003 ) in aperta polemica con l'occupazione militare. Vive a Madrid dove scrive su origini e identità.

Uno o tre Iraq?

Sappiamo bene quanto sia difficile, ma noi occidentali dovremmo rassegnarci all’idea: l’Iraq non è una nazione bensì un’entità territoriale dove tre realtà etnico – religiose – culturali profondamente diverse sono state costrette a vivere insieme. Ci sono due razze: arabi e curdi. Due religioni: sciiti e sunniti. Intrecciate a loro volta con altre minoranze e tradizioni diverse. Sono state tenute insieme con la forza per decenni (dagli anni venti del secolo scorso ai primi anni duemila) da regimi sunniti autoritari e centralisti, espressione di interessi tribali e occidentali di varia natura.

Qualcuno, dopo l’invasione americana del 2003, sostenne la tesi che sciiti, sunniti e curdi potessero convivere insieme garantendo I diritti di ogni comunità. Era un’illusione, come dimostrarono ben presto i fiumi di sangue che percorrevano il paese del Tigri e dell’Eufrate. Sunniti e sciiti, in particolare non potevano, non volevano, stare insieme. I curdi volevano l’autonomia e l’hanno ottenuta riparandosi in un piccolo Kurdistan (in attesa di quello più grande) che ormai è quasi uno Stato indipendente. I sunniti non intendevano convivere con gli sciiti sotto un regime che assegnava a questi ultimi, per via dei numeri (20% e 60% della popolazione) e quindi dei voti, il controllo dello Stato e delle risorse. In teoria era possibile, (ma gli americani non capirono) fondare uno Stato confederale che riconoscesse pienamente I diritti delle tre comunità irachene. Il che implicava un vero decentramento; rispetto dei diritti di tutte le correnti etniche e religiose; distribuzione equa delle risorse (in particolare la più importante: il petrolio). Un patto sottoscritto dalle tre comunità che invece hanno iniziato subito, invece, ad aggredirsi. Gli americani (ricordate: a quell’epoca dominavano I neoconservatori che ipotizzavano in Iraq una democrazia che avrebbe “modellato” il Medio Oriente, un faro per tutto il mondo musulmano) non seppero confrontarsi con la realtà sociale e storica di quella parte del mondo e restarono intrappolati nell’ideologia della “esportazione democratica”.

Quanti errori hanno fatto gli americani con la complicità dell’Europa! E ora, mentre lo Stato iracheno sta crollando, come se ne esce da questo nefasto disastro? Bombardando dal cielo gli insorti, i radicali sunniti dell’ISIS, e lasciando ad Al Maliki, o magari ad un’altra figura locale, il compito di ricomporre una lacerazione che è ormai diventata guerra civile? Oppure cercando di promuovere un assetto totalmente nuovo che garantisca davvero non solo la libertà di votare ma anche una adeguata distribuzione del potere economico e politico alle diverse comunità?

Se si vuole ancora un solo Iraq occorre dare vita ad un assetto completamente nuovo del paese. Che non può essere quello che circa novanta anni fa una ricca e nobile signora inglese, Gertrude Bell, propose alla diplomazia di Londra: uno Stato nazione ottenuto dall’unificazione da tre ex provincie dell’impero ottomano fino a quel momento separate tra loro. Curdi, sunniti e sciiti furono obbligati a stare insieme, le tre provincie furono abolite, il potere venne attribuito dalla Gran Bretagna ad una monarchia sunnita centralizzata. Da allora, fino al 2003, l’Iraq è rimasto sotto il controllo autoritario delle tribù sunnite (tra cui quella di Saddam Hussein) che hanno fatto di tutto e di più, come ben si sa, contro l’altra minoranza (i curdi) e la maggioranza (gli sciiti).

Ora appare chiaro che stabilità e pace in Iraq (ma il discorso vale per molti aspetti anche per la Siria), isolando le componenti estremiste dell’Islam, andranno ricercate non solo con interventi militari ma con strategie e proposte adeguate al carattere urgente e drammatico della guerra civile in atto. Come? Le possibili alternative alla catastrofe attuale sono due:

1. Dare vita ad uno Stato fortemente decentrato basato sulle tre differenti “nazioni” che compongono la società irachena. Una soluzione non impossibile se la risorsa petrolifera fosse opportunamente distribuita fra queste tre realtà. All’interno di ogni “nazione” andrebbero garantiti i diritti delle piccole minoranze.

2. Rassegnarsi all’idea che l’Iraq è uno Stato fallito e quindi procedere alla costituzione di tre Stati indipendenti.

Sia la prima, sia la seconda ipotesi richiedono l’impegno attivo delle tre comunità irachene e quello delle potenze la cui influenza regionale è comunque decisiva: Stati Uniti, Russia, Arabia saudita, Iran, paesi del golfo. Il che, tra l’altro, richiede che gli Usa e l’Europa si decidano a riconoscere il ruolo centrale dell’Iran negli assetti regionali. Dialogare con l’Arabia saudita si, ma anche con Teheran. Un ennesimo intervento dell’Onu autorizzato dal Consiglio di Sicurezza? Si, purché lo si faccia attorno ad una credibile ipotesi di medio e lungo periodo accettata dalle tre principali realtà storiche dell’Iraq. L’azione diplomatica che giustamente propone il Ministro degli Esteri Mogherini, ha un senso se persegue obiettivi di fondo coerenti e realistici.

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