STORIE USATE

Siegmund Ginzberg

Le trame nere dei mercenari

Non si fidavano più dei mercenari. Ma, al tempo stesso, come Vladimir Putin, ne avevano disperatamente bisogno. Da che mondo è mondo, il potere ha bisogno dei soldati. E i soldati vogliono essere pagati. In contanti. La parola stessa viene da solidus, soldo, la moneta pesante, spesso d’oro, con cui venivano pagati i legionari romani. Tutti i soldati erano quindi per definizione mercenari. Ma i mercenari hanno sempre avuto cattiva fama. Sono sempre stati odiati, più di tutti gli altri soldati. Anche gli americani ce l’avevano molto più con i mercenari tedeschi dell’Assia al servizio di Giorgio III che con le Giubbe rosse. Solo negli ultimi anni erano tornati di moda, saliti in prestigio e remunerazione. Ma non gli si perdona se per soldi si mettono contro i loro stessi committenti.

L’Italia del Rinascimento conobbe il boom degli eserciti mercenari. Nell’estate 1425 Filippo Maria Visconti, duca di Milano, impegnato in una dura guerra su due fronti, contro Firenze e contro Venezia, aveva ingaggiato a caro prezzo, e con un contratto quinquennale, l’esercito privato di Francesco Sforza. Alla prima occasione sciolse il contratto e lo licenziò in malo modo. Nuovamente attaccato dai veneziani, dovette richiamarlo. Ma quello aveva alzato il prezzo. Per rabbonirlo, Visconti gli promise in sposa la figlia Bianca Maria. A una condizione: che lui aspettasse il tempo necessario. Lui aveva trent’anni, lei solo sei. Imperterrito, Francesco Sforza attese e, alla scadenza, dieci anni dopo, pretese che la cambiale fosse onorata. Si sposarono nel 1441. Alla morte di Filippo Maria, Francesco avanzò la pretesa al Ducato di Milano. I Milanesi non ne volevano sapere. Proclamarono la Repubblica Ambrosiana. Sulla testa del pretendente indesiderato fu posta una taglia enorme, 200mila ducati. In risposta, nel 1447 lo Sforza marciò col suo esercito privato su Milano, la assediò per otto mesi, bloccando vie di comunicazione e di approvvigionamento. Gli oligarchi e il popolo di Milano, gente pratica, voltarono le spalle alla Repubblica, gli aprirono le porte e lo acclamarono nuovo Duca.

È solo uno dei molti esempi che fanno scrivere a Niccolò Machiavelli che “le armi mercenarie sono inutili e pericolose”. Inutili perché non funzionano, quando più servono. Per definizione, “non hanno altro amore, né altra cagione che le tenga in campo, che un poco di stipendio, il quale non è sufficiente a fare che e’ voglino morire per te”. Pericolose, perché possono ritorcersi contro chi li ha assoldati. Se la milizia privata funziona, prima o poi vorrà il potere. Se non funziona, perdi la guerra, o perdi la faccia. “I capitani mercenari o sono uomini eccellenti, o no; se sono [eccellenti], non te ne puoi fidare, perché sempre aspirano alla grandezza propria o con l’opprimere te, che li sei padrone, o con l’opprimere altri fuora della tua intenzione; ma se non è il capitano virtuoso, ti rovina per l’ordinario”. Soluzione: un esercito di cittadini, comandato da generali che rispondano alla Repubblica: tali che “quando ne manda uno che non riesca valente, debbe cambiarlo; e quando sia [valente], tenerlo con le leggi che non passi il segno” (Il Principe, capitolo XII). Il segretario fiorentino di politica e di storia se ne intendeva. Di cose militari forse un po’ meno. Specialisti come il britannico Michael Mallett, autore del classico Signori e mercenari: La guerra nell’Italia del Rinascimento, ritengono che esagerasse nel deprecare i mercenari.

Pullulavano, in Italia e in tutta Europa, gli eserciti privati. Spesso funzionavano, valevano quel che costavano. Senza contare che si pagavano in parte da soli, coi diritti di saccheggio e i riscatti per i prigionieri. I loro condottieri spesso erano veri e propri geni dell’arte militare. Alcuni si rivoltarono contro le città che li avevano ingaggiati, quando queste non furono più in gradi di pagarli. O passarono a miglior offerente. Molti si ritagliarono il potere per sé stessi. La Vita di Castruccio Castracani da Lucca è una biografia, parecchio romanzata, che Machiavelli dedicò nel 1520 all’imprenditore di eserciti privati che nel 1300 era riuscito a impadronirsi di buona parte della Toscana occidentale. Il personaggio è da romanzo. Anche Mary Shelley glie ne dedicò uno, Valperga, che segue a ruota il successo di Frankenstein.  Assoldato, con la sua banda di 1800 cavalieri mercenari tedeschi, da Uguccione della Faggiuola, il capo riconosciuto dei Ghibellini e signore di Arezzo e Pisa, aveva conquistato per lui Lucca. Uguccione, come Putin con Prigozhin, non riusciva a fare a meno dei suoi servigi. Ma al tempo stesso era ossessionato dall’idea di liberarsene appena possibile. Sospettava che volesse farsi Signore al posto suo. Lo aveva imprigionato e condannato alla decapitazione con l’accusa di tradimento. Mal glie n’era incolto. Castruccio era stato liberato a furor di popolo e acclamato tiranno a vita di Lucca. Machiavelli era affascinato da questa figura quasi quanto era affascinato dal contemporaneo Cesare Borgia, lo spietato Duca Valentino, di cui fece un modello per il suo Principe.

Meno gli piaceva un altro contractor, John Hackwood, avventuriero inglese il cui nome fu italianizzato in Giovanni Acuto. Era finito in Italia durante una delle rare pause della Guerra dei cent’anni. Aveva lavorato per Pisa contro Firenze, poi era disinvoltamente passato al servizio del Biscione di Bernabò Visconti contro Pisa e contro il Papa, infine dello stesso Papa di cui aveva fino a poco prima devastato i territori (l’orrendo massacro di Cesena fu la Bucha dell’epoca). Era un tecnico, non un politico. Faceva affidamento sui micidiali archi lunghi due metri dei suoi duemila arcieri gallesi, il massimo di potenza di fuoco a quell’epoca. Era assolutamente crudele, quanto e più degli altri. Un perfetto criminale di guerra. Pare si riferisca a lui il modo di dire: “Inglese italianato, diavolo incarnato”. Abbandonato il Papa, cattivo pagatore, dal 1390 in poi, aveva lavorato per Firenze contro i suoi precedenti datori di lavoro. A Firenze era rimasto fedele sino alla fine.  Nel solo 1376 il suo esercito era costato 481.000 fiorini d’oro, una somma pari all’intero PIL della ricchissima Siena. Inoltre Firenze gli versava a titolo di stipendio da capitano 37.500 soldi al mese, 140 volte il salario di un capomastro. Rigorosamente in contanti. Fecero del macellaio un salvatore della Patria. La decorazione della sua tomba a Santa Maria del Fiore fu affidata a Paolo Uccello.

Tra gli esempi storici a cui Machiavelli ricorre per spiegare la diffidenza nei confronti delle milizie commerciali c’è l’ammutinamento dei mercenari di Cartagine alla fine della Prima guerra punica. Roma vinceva grazie al suo esercito nazionale di contadini. Gustave Flaubert ne avrebbe fatto argomento del suo romanzo storico in costume, Salammbò. Fu una questione di soldi, e di veleni politici interni. Persa la guerra, persa la Sicilia, costretta a pagare una grossa indennità a Roma, Cartagine non aveva più soldi per pagare i mercenari reclutati da tutti gli angoli del Mediterraneo: ispanici, galli, sardi, corsi, siciliani, greci, ma soprattutto libici e numidi. Quelli si erano ribellati, avevano fatto strage degli ufficiali cartaginesi. Assediata Cartagine, minacciavano di metterla a ferro e fuoco. Cartagine, divisa in fazioni, lacerata tra poteri in competizione, cincischiava. Alla fine si decisero di pagarli. Ma era troppo tardi. Quelli volevano di più, uccisero i capi che trattavano con i Cartaginesi, elessero al loro posto un ex schiavo italico e un guerriero berbero.

La cosa curiosa è che a quel punto Roma aiutò i nemici Cartaginesi a soffocare nel sangue la rivolta. Evidentemente preferivano avere a che fare con un nemico che si conosce. Esattamente come l’intero Occidente ha tirato un sospiro di sollievo nell’apprendere che la sollevazione della Wagner era stata risolta. Siamo tutti più tranquilli a sapere che potere e atomiche sono in mano a Putin, all’esecrato ed esecrabile Putin, piuttosto che in mano all’ex cuoco e pregiudicato comune Prigozhin, o di chissà chi. Non per niente Washington si è precipitata a negare ogni coinvolgimento nella vicenda, si è limitata a dire che sapevano in anticipo della mossa di Prigozhin e che ne era informato anche Putin. Non è chiaro se la fonte della loro intelligence è così vicina a Putin da sapere quello che lui sa o se, addirittura sono stati gli americani ad avvertire il presidente russo. Sempre una soffiata dell’intelligence americana al New York Times rivela che del piano di ribellione di Prigozhin sapeva il generale Sergei Surovikin, l’ex macellaio della Siria e comandante supremo russo in Ucraina. Chi sta accoltellando chi? Ci si deve aspettare una Notte dei Lunghi coltelli, come quella in cui Hitler fece ammazzare dalle SS a lui fedeli le SA di Ernst Röhm (le SA superstiti furono integrate nelle forze di polizia del Reich nazista)? I “lunghi coltelli” si riferiscono a quelli usati nel V secolo dai mercenari sassoni, ingaggiati dal re dei Britanni, per ammazzare i maggiorenti celti, attirati con l’inganno a una conferenza di pace a Salisbury.

L’impero di Putin si fonda su delicati equilibri tra i siloviki (gli “uomini della forza”) e gli oligarchi, tra le diverse constituencies armate: l’esercito, i diversi servizi, il FSB erede del KGB, l’ancor più misterioso GRU, che sovrintende l’intelligence militare, gli Spetsnaz (e fino a ora in teoria anche la Wagner), e anche la punizione esemplare e spettacolare dei “traditori”. Non fosse così, non si capirebbe perché Putin abbia tollerato fino all’ultimo le bizze dell’ex cuoco Prigozhin e gli abbia dato tanta corda. Né a che gioco giochi Prigozhin, perché si sia permesso di fare il buffone e provocare platealmente prima i capi delle forze armate e poi lo stesso titolare del Cremlino. Qualcuno ha sostenuto: per la stessa ragione per cui nel 1700 aveva acquisito un enorme potere, anche militare, Aleksandr Menšikov, il buffone di corte dello zar Pietro il Grande. Era un outsider rispetto all’aristocrazia. Poteva permettersi ogni estremo di brutalità e buffoneria. Non aveva niente da dimostrare a nessuno, se non al padrone.

Succedeva anche sotto Stalin. GRU e NKVD si facevano le scarpe a vicenda. Si riferivano gli uni agli altri come “i nostri” e “i loro”. In un’analisi su Foreign Affairs, Andei Soldatov e Irina Borogan raccontano di aver chiesto a un dirigente del GRU a cosa gli servisse una compagnia privata come la Wagner. E quello gli aveva risposto che era come per i consiglieri militari mandati in Spagna negli anni ’30 con falsi nomi: servivano a fare il lavoro più sporco, per quella che veniva considerata una buona causa, senza mettere direttamente di mezzo il loro datore di lavoro. Persa la guerra di Spagna, richiamati a Mosca, anziché essere accolti come eroi, furono liquidati. Tutti. Dovunque avessero trovato rifugio. Tranne uno, Aleksandr Orlov, che ebbe il fegato di ricattare Stalin, scappò in America dopo averlo avvertito per lettera che, nel caso gli fosse successo qualcosa, sarebbe stato reso pubblico tutto quello che aveva messo in mani sicure.

La Russia non ha una tradizione di colpi di Stato militari. Politics and the Russian Army: Civil-Military Relations, 1689-2000 di Brian D. Taylor, un compendio quasi enciclopedico, nota che l’ultimo golpe che riuscì risale al 1801. Era morto lo zar Alessando I e c’era un problema di successione. I colpi di Stato in Russia sono sempre finiti male, fino a quello del 1991 in cui i duri rapirono Gorbačëv. Semmai l’autocrate del momento ne ha approfittato per rafforzarsi. Nel 1937, giusto poco prima della Seconda guerra mondiale Stalin, aveva fatto arrestare, processare e giustiziare in gran segreto il maresciallo Tuchačevskij, accusato di complottare con Hitler per rovesciarlo. Il fior fiore dell’Armata Rossa, 37000 ufficiali, 63 dei 72 generali di corpo d’armata, 154 su 186 generali di divisione, 220 dei 406 generali di brigata, quasi tutti i commissari politici, furono giustiziati o mandati in Siberia. Un terzo dei sopravvissuti fu poi recuperato. Ancora si discute se fosse una trappola preparata a Berlino dal capo della Gestapo, Heydrich, con documenti falsificati apposta.

Anche la Cina non ha una tradizione di colpi di Stato militari. Il potere nasce dalla canna del fucile. Ma è il partito a comandare il fucile, i golpe sono politici. L’aereo del ministro della difesa Lin Biao, successore ufficiale designato di Mao, fu abbattuto nel 1971 mentre, si disse, cercava di scappare in Unione sovietica, allora nemica per la pelle della Cina, dopo la scoperta di un suo piano per assassinare Mao. A oltre 50 anni di distanza, non si sa cosa successo davvero..

La cosa su cui non ci piove è c’entra sempre l’incertezza sulla successione. È una certezza statistica. Questo è il tallone d’Achille di Putin. Così come lo è di Xi Jinping. Uno studioso canadese di origine cinese, Charles Z. Zeng ha elaborato un complesso modello matematico in cui vengono messi a confronto le crisi militari che hanno turbato nei secoli l’impero romano e la successione di dinastie imperiali cinesi. Dal 27 A.C.  al 476 D.C. la proporzione degli imperatori acceduti al potere a Roma per vie militari è del 67%, quella delle successioni ereditarie di appena il 33,3%. In Cina, dal 221 A.C. al 1912 D.C. (ma si potrebbe estendere il calcolo ad oggi), la proporzione è rispettivamente del 20% di prese del potere per via militare e addirittura del 91% di successioni ereditarie. A controprova, la proporzione dei generali giustiziati dagli imperatori è del 10% in Cina contro il 21% nell’antica Roma. Spiegazione: a Roma gli imperatori delegavano la difesa, quindi il potere di fare la guerra, ai loro generali; in Cina i militari erano costantemente controllati dall’autorità politica, dalla burocrazia imperiale. Nella dinastia Ming l’amministrazione delle forze armate era suddivisa in addirittura 5 diverse branche della burocrazia civile, con i comandanti sul campo nominati direttamente dall’imperatore e i generali controllati da eunuchi appositamente assegnati all’esercito. Superare gli esami da mandarino valeva più che vincere battaglie. Avevano inventato i commissari politici. Secoli prima che lo facessero i Bolscevichi.

 

Quest’articolo è stato pubblicato in origine sul Foglio di sabato 1 luglio 2023. 

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