Gli Yazidi: quei fieri combattenti
anti-Isis tra mito e realtà

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Nel sempre più intricato puzzle mediorientale sembra essersi aggiunto, recentemente, un tassello nuovo. Quello degli Yazidi (o Yezidi), combattenti contro l’integralismo islamico più volte citati dalla stampa a partire soprattutto dall’agosto 2014: quando – contemporaneamente alla resistenza anti-ISIS dei curdi a Kobane, la “Stalingrado del Medioriente” – il sedicente “Stato Islamico” ha avviato, nei confronti appunto degli Yazidi, una vera e propria persecuzione. Con, episodio emblematico, l’intrappolamento di circa 30.000 di loro sui monti di Sinjar (area del nord dell’Iraq a circa 50 km dal confine con la Siria, vicino al Kurdistan iracheno) e il successivo ponte aereo organizzato, per liberarli, da USA, Australia e Francia. Ma chi sono gli Yazidi, e che posizione occupano nel panorama religioso e geopolitico dello scacchiere dal Caucaso al Mediterraneo?

Gli Yazidi – contrariamente a quanto si crede di solito, a causa delle inesattezze dell’informazione – non sono un gruppo etnico, ma religioso: essi appartengono, infatti, all’etnia curda (dopo la caduta di Saddām Hussein nel 2003, i curdi chiesero che gli Yazidi fossero riconosciuti, a tutti gli effetti, come appartenenti al loro popolo). La comunità religiosa professante lo yazidismo è composta da 200-300.000 individui. Il gruppo principale (circa 150.000 persone) vive in due aree dell’Iraq, i ricordati monti del Jebel Sinjar, al confine con la Siria, e i distretti di Badinan (o Shaykhān) e Dohuk (nord-ovest del Paese); nonché nell’area di Mosul (ovvero l’antica Ninive), territorio che, insieme a quello di Kirkuk, fa parte geograficamente del Kurdistan meridionale, ed è d’enorme importanza strategica, fornendo il 75% dell’esportazione petrolifera irachena. Ora è in parte controllata dall’ISIS, che nel 2014 occupò appunto l’area di Mosul, poi però liberata dalle truppe USA. Almeno altri 50.000 Yazidi vivono nell’ex URSS (Armenia e la regione di Tbilisi, in Georgia); ma ce ne sono anche in Siria, soprattutto nei dintorni di Aleppo (circa 5000 sul Monte Simeone), e infine, in numero imprecisato, in alcune zone dell’Iran. Può dirsi che questo gruppo religioso vive in tutte le aree dove i curdi costituiscono la maggioranza della popolazione locale: quindi in tutto il Kurdistan, quel vasto altopiano, a cavallo di ben 5 Paesi (Turchia, Siria, Iraq, Iran, Armenia ex-sovietica), che include l’alto bacino dell’Eufrate e del Tigri, i laghi di Van e Urmia e le catene dei monti Zagros e Tauro, col mitico monte Ararat e la Mesopotamia come confini settentrionale e meridionale. Si stima, infine, che circa 50.000 Yazidi, provenienti specialmente dalla Turchia (dove erano fortemente discriminati) siano emigrati in Europa occidentale negli ultimi decenni del ‘900, in cerca d’asilo e di lavoro, soprattutto in Germania (dove oggi sono circa 40.000). Esistono, su Facebook, vari account intestati a gruppi Yazidi, o a singoli individui, che però, per comprensibili motivi, sono piuttosto restii a concedere contatti.

“Yazidi”, o “Ezidi” (in lingua originale,”Yezidis”, i membri di questo gruppo religioso parlano il curdo, dialetto ario affine al persiano, dal quale ha mutuato numerose parole) deriverebbe, secondo alcuni, dalla città persiana di Yazd, o dal termine persiano “Yazdan”, che significa “Dio”. Giuseppe Furlani (1885-1962), assiriologo e storico delle religioni nel solco del mitico Raffaele Pettazzoni (fondatore italiano di questa disciplina, all’insegna del metodo storico-comparativo), in La religione dei Yezidi, saggio d’un secolo fa di cui esiste una recente ristampa anastatica, propende appunto per quest’ultima ipotesi (avvalorata, all’epoca , dagli stessi Yazidi con cui l’autore era venuto in contatto). Ma non esclude l’altra, anch’essa autorevole, che ricollega il termine “Yazidiyyah” alla presenza, nella religione zoroastriana (da cui lo Yazidismo ha preso in prestito numerosi elementi), di esseri “degni di adorazione” (propriamente angeli, che trasmettono agli uomini la volontà divina): chiamati “Yazada”, in lingua avestica – la lingua appunto della Avesta, il libro sacro di questa religione, usata come lingua liturgica dello zoroastrismo – o, in neopersiano, “Ized”. Infine, non va dimenticata l’esistenza storica di Yazid, secondo Califfo della dinastia degli Omayyadi, che regnò a Damasco dal 60 al 64 dell’ Egira (680-683 d. C.).Secondo una tradizione yazida (priva, però, di adeguati riscontri storici), Yazid avrebbe abbandonato a un certo punto l’Islam per abbracciare la nuova fede, che da allora avrebbe portato il suo nome.

Ben poco si sa circa le precise origini di questa comunità di credenti: una tradizione accreditata li ritiene originari in gran parte dell’attuale Iraq nord-occidentale, dell’Anatolia sudorientale (attuali province di Diyarbakir e Mardin) e della Siria (dove infatti è presente, nelle regioni di Nordest, l’etnia curda, a cui essi appartengono), mentre è probabile che, in origine, parlassero l’arabo. Mentre varie sono le tradizioni esistenti sulle origini della loro fede, e confortate – diversamente che per l’Islam – da assai pochi dati storici. La religione yazida, infatti, pur tendenzialmente monoteistica, ha un carattere sostanzialmente sincretistico, che favorisce l’inserimento di più esseri sovrannaturali (e spiega, in parte, la presenza di più tradizioni in merito alle sue origini), mentre forte – diversamente che nel cristianesimo, e più che nell’Islam – è anche il suo carattere esoterico, con un nucleo più autentico solo in parte conosciuto dagli stessi specialisti di storia e sociologia delle religioni. Gli Yazidi credono in un Dio primordiale, che ha creato – o è divenuto – l’universo, manifestandosi, per emanazione (ecco un forte legame sia con lo gnosticismo che col neoplatonismo plotiniano), in Sette Grandi Angeli (figura, questa degli Angeli, importante sia nelle tre “Religioni del Libro” che nello zoroastrismo): il principale dei quali è Melek Tawus. Quest’ ultimo è la figura centrale dello Yazidismo: un angelo dalle sembianze di pavone (Melek vuol dire appunto “Angelo”, e Tawus “Pavone”), “essenza attiva di Dio”. Ma che ruolo aveva, quest’ angelo, nella mitologia yazida?

Si tratta, in realtà, di Lucifero: l’angelo ribelle, leader della rivolta a Dio degli angeli superbi (episodio dei primordi dell’universo, questo, presente, con varie versioni, in più religioni, compresa quella degli antichi greci, con la rivolta dei titani a Zeus). Per gli Yazidi, però, Melek (come già Iblis, il Lucifero islamico, per i musulmani) non ha una configurazione così maligna come per ebrei e cristiani: l’Angelo Pavone, anzi, scacciato dal Paradiso,«cadde, ma essenzialmente buono, pianse, e le sue lacrime di pentimento, deposte in settemila anni di pianto ininterrotto in sette anfore, hanno estinto le vampe dell’inferno». Precipitato sulla terra, Melek, in forma di pavone (animale, quest’ultimo, del resto sacro, o comunque degno di speciale riguardo, un po’ in tutta l’Asia occidentale, sino ad esser stato, a suo tempo, il noto simbolo della monarchia iraniana) viene raccolto e amorevolmente curato dal pastore Yezid (il nome è comune nel mondo islamico), una sorta, diremmo, di “pastore Faustolo” mediorientale. A lui, secondo questo mito di fondazione, una volta ristabilito, Melek si presenta in modo ambiguo, come seminatore d’infelicità e di discordia tra gli uomini (il “diabolos” dei greci, quindi): ma, al tempo stesso, come essere bisognoso d’assistenza, che all’uomo, rifacendosi appunto all’aiuto avuto da Yezid, chiede compassione nei confronti del male.

Tutto questo spiega la forte ostilità agli Yazidi da parte dei musulmani, che li considerano adoratori del Diavolo; mentre gli Yazidi, invece, definiscono sé stessi “Adoratori degli angeli”, e in primo luogo di Melek. Il quale, va detto, comunque non è certo il Satana degli ebrei e dei cristiani, o lo Shaytan degli Islamici: è più un Lucifero nella sua accezione originaria (cioè un angelo “portatore di luce” così come, osserviamo, è stato venerato, tra XIX e XX secolo, anche da alcune osservanze massoniche, per questo ritenute sataniche – a torto – dalla Chiesa). «È lui – dichiara un esponente yazida, citato dallo studioso delle religioni Danilo Arona, in uno dei periodici raduni di dicembre dei fedeli, commemoranti la nascita del pastore Yezid e il solstizio d’inverno, già caro al mitraismo e ad altri antichissimi culti – che ha creato il mondo materiale». (Parziale riflesso di quella visione dualistica dell’universo, imperniata su due divinità, o comunque due princìpi opposti, irriducibilmente nemici, Bene e male, spirito, positivo, e materia, negativa e in fondo maligna, che da zoroastrismo e mandeismo è passata poi al manicheismo permeando, infine, vari filoni dello stesso cristianesimo, o comunque ad esso affini, dai catari ai Testimoni di Jehova, N.d.R.). «Usando parti smembrate dell’uovo cosmico, la Perla, nel quale una volta risiedeva Dio, lo spirito universale» (ecco, invece, riflessi degli antichi miti greci, come quelli cantati da Esiodo nella “Teogonia”). La filosofia religiosa degli Yazidi, per quanto permeata di elementi giudaico-cristiani, nega l’esistenza del male, della malvagità, quantomeno come entità, o semplice forza negativa, a sé stante (rifiutando quindi l’idea di peccato, del Diavolo e dell’Inferno).

Il male nasce più dall’errata comprensione, da parte degli uomini, della vera natura di Melek (concetto, questo, che richiama singolarmente la celebre formulazione di Seneca che i grandi mali non stanno tanto nelle cose, quanto nella valutazione errata che noi diamo di esse). La cattiveria presente nel mondo si spiega, nei casi più gravi, considerando che gli uomini, comunque, possono inavvertitamente compiere azioni malvagie, atte a favorire la vittoria del male; e la disobbedienza umana alle leggi divine viene espiata attraverso la metempsicosi, la trasmigrazione delle anime cara già agli antichi culti orientali e alla dottrina pitagorica, che permette la progressiva purificazione dello spirito (come accaduto già allo stesso Lucifero/Melek, caduto sulla terra e trasferitosi in un corpo di pavone). Mentre ai giusti – come per l’ebraismo – è destinato il Paradiso.

La forma con cui è conosciuto attualmente lo Yazidismo è il risultato della predicazione di Adī Hakkārī, o Adī b. Musāfir, teologo e religioso vissuto nel XII secolo (contemporaneo, quindi, dell’aristotelico ebraico Maimonide e di quello arabo Al Ghazali). Preteso discendente della dinastia omayyade, Musafir studiò a Baghdad con Abū l-Khayr Ammād al-Dabbās. Successivamente si stabilì non lontano da Mosul, dove iniziò la sua predicazione. In quella zona vivevano curdi nomadi che professavano una religione non Islamica, un culto molto antico: Musāfir la riformò (introducendo però, in gran parte, un vocabolario preso da quello Islamico). Considerato dai suoi seguaci “inviato” o salvatore, dopo la sua morte la sua anima si sarebbe unita a quella dell’Angelo Pavone, attraverso la trasmigrazione. Da allora la tomba di Musāfir a Lālish (a nord di Mosul) è meta d’un pellegrinaggio devozionale, cui sono chiamati – come i musulmani per La Mecca – tutti i devoti dello Yazidismo (Furlani, però, nel saggio ricordato ritiene invece puramente occasionale la convergenza tra Yazidismo e Musafir: ricordando la sua precisa natura di santo e sufi islamico).

Il pellegrinaggio si svolge una volta all’anno, e dura sei giorni: durante la celebrazione, i fedeli s’immergono nelle acque d’ un fiume, e –  proprio come facevano assiri e seguaci del mitraismo – sacrificano anche dei tori. Molti studiosi concordano, poi, sull’identificazione tra Adi b. Musafir e il leggendario Seyh (o Shaykh) Adi: personaggio citato nei più antichi testi Yazidi appunto come fondatore, o rinnovatore, di questa religione, e con una vita su cui – proprio come con gli Islamici per Maometto – sono fiorite le più incredibili leggende. In pratica – rileva l’antropologo Riccardo Cecchini, ricercatore esperto di religioni extraeuropee – nello Yazidismo, Dio, il Pavone e Adi sembrano concepiti come una Trinità: tra loro e gli uomini, esiste una quantità di esseri intermedi, aventi in parte caratteri sovrannaturali, angeli, santi, ecc…Mentre sempre Giuseppe Furlani cita l’incredibile cifra di 124.000 (!) profeti senz’altro riconosciuti dagli Yazidi: il primo dei quali, in ordine di tempo, Adamo, e tra i quali c’è anche Gesù Cristo.

Fanno parte della religione yazida, infine, varie pratiche d’origine anche ebraica o islamica: come le abluzioni sacre, il divieto di mangiare certi cibi, la circoncisione (diffusa, ma non obbligatoria), il digiuno, l’interpretazione dei sogni. La società yazida presenta una struttura gerarchica che – un po’ come accadde all’Islam dopo i primi, tumultuosi secoli d’espansione – vede ai vertici un capo laico, detto “Emiro” (Amīr), e un capo religioso, detto “Maestro” (Shaykh). L’Emiro, che risiede a Ba’adra (65 km a nord di Mosul), rappresenta gli Yazidi presso le autorità pubbliche dell’Iraq. Ha il potere di insediare il “Maestro”, che risiede invece nel Sinjar: e che, oltre ad essere il capo religioso supremo, rappresenta l’autorità infallibile nell’interpretazione delle Sacre scritture. Che sono costituite dal Kitāb al-ilwa (“Libro della Rivelazione”) e dal Mishefa Res (“Libro Nero”, in curdo), entrambi scritti in kurmanji, un dialetto della lingua curda.

Gli Yazidi sono monogami, anche se, in alcuni rari casi, ai loro capi è concesso avere più d’ una moglie. I bambini vengono “battezzati” alla nascita, esiste la “fractio panis” tipica del cristianesimo, e s’usa rendere rispettosa visita ad alcune note chiese cristiane. Nel XIV secolo, importanti tribù di cultura curda, la cui sfera di influenza arriva sino in Turchia, vengono citate per la prima volta nelle fonti storiche come “Yazidi”. Da allora, varie fonti citano le qualità umane e il forte grado di tolleranza nei confronti delle altre culture e religioni tipiche di questo gruppo. Gli Yazidi, però, ritenendosi gli unici veri discendenti di Adamo (discenderebbero da una coppia di gemelli nati, a loro volta, da una brocca contenente il seme del primo uomo), hanno la tendenza a vivere solo tra loro, un po’ come gli ebrei delle comunità di più stretta, ortodossa osservanza; e non accettano né i matrimoni interreligiosi, neppure coi curdi di religione musulmana, né le conversioni. La pena più grave per un fedele è l’espulsione dalla comunità (poiché l’espulso va incontro alla perdita dell’anima): anche se non mancano casi di violenza fisica, come nel caso di Du’a Khalil Aswad, una diciassettenne curda, di fede yazida, uccisa a calci e pietre nell’ aprile 2007, per essere stata vista con un ragazzo di diversa etnia.

Già nel VII secolo, la resistenza yazida ai dominatori arabi, piombati su Mossul nella prima, travolgente fase dell’espansione Islamica, passò alla storia. Mosul (da allora, Mosul, in arabo) era una delle principali città yazide: bagnata dal fiume Tigri e ai piedi delle montagne del Kurdistan, punto di passaggio obbligato per le carovane che dall’Asia centrale si dirigevano verso la Siria, l’Anatolia e il Mediterraneo. Pur entrando sotto la dominazione mussulmana, gli Yazidi superarono indenni il dominio delle dinastie Zengide, turco-selgiukida, e Ayyubide, curdo-mussulmana (secoli XII-XIV), e degli ottomani, che si contesero nei secoli il controllo della città. I Mongoli di Hulegu, che pure nel 1258, dopo un breve assedio, avevano preso Baghdad, a Mosul dovettero mantenere l’assedio per un anno intero. Nei secoli successivi, gli Yazidi furono duramente perseguitati dagli ottomani e poi dal Governo turco: nel 1892 – proprio come sarebbe capitato, due anni dopo, agli armeni – rischiarono una prima volta l’estinzione, quando le truppe ottomane, nel quadro della generale politica persecutoria contro le minoranze decida dal sultano Abdul Hamid II, penetrarono nella valle di Lālish e passarono a fil di spada migliaia di abitanti, distruggendo il mausoleo di Shaykh Adī.

Nella seconda metà del ‘900, riprendono le persecuzioni: la prima durante il penultimo anno del regno di Faysal II, il 1957. Dopo il sanguinoso golpe del ’58 e l’instaurazione in Iraq della repubblica, è Ahmed Hasan al-Bakr, il primo presidente del Partito Ba’th (fazione irachena), al potere col nuovo golpe del ’68, a proseguire, nel 1969 e 1975.

Durante il regime di Saddām Hussein, gli Yazidi vengono classificati come “arabi”, in modo tale da falsare gli equilibri etnici nella regione: anche se il regime li emargina e discrimina socialmente e culturalmente. Negli anni 1987-88, il dittatore ordina anche una deportazione. Decine di migliaia di Yazidi sono costretti a trasferirsi centinaia di km ad ovest, in un loro “Mussa Dagh”: l’area montuosa, al confine con la Siria, del Jebel Sinjar (peraltro, come abbiamo visto, loro luogo di storico insediamento). Feleknas Uca, membro tedesco del Parlamento Europeo, è stata in assoluto l’unica parlamentare di origine yazida sino al 2005, anno delle prime elezioni libere in Iraq.

Ed eccoci al 2014, quando la piana di Mosul/Ninive è assalita dai guerriglieri fondamentalisti sunniti dell’ISIS. A seguito della persecuzione anti-yazida avviata dallo “Stato Islamico”, l’ONU – che parla esplicitamente di genocidio – stima che tra gli Yazidi dell’Iraq (i quali politicamente appartengono, in buona parte, al Partito comunista curdo), 5000 siano stati uccisi e 5000-7000 catturati e venduti come schiavi; mentre altri 50.000 costretti ad abbandonare la regione per evitare analoga sorte. Ad agosto 2014, l’agenzia di stampa curda “Rudaw” diffonde l’accorato appello all’Occidente che una ventiquattrenne yazida , detenuta dall’ISIS con altre donne, è riuscita incredibilmente a lanciare dalla prigione della contea di Baaji, in provincia di Mosul (gli jihadisti ogni giorno offrono le loro prigioniere agli emiri). Il 30 agosto, l’orrore medievaleggiante dell’ISIS – analogo a quello che già da tempo imperversa in Nigeria con Boko Haram – prosegue a mostrarsi, con le foto che Brigitte Gabriel, attivista araba libanese, riesce a twittare: «sempre vicino Mosul, donne yazide con meno di 35 anni, rapite, velate integralmente, incatenate e minacciate con le armi, vengono trasportate su camion al mercato, per essere vendute come schiave».

Un anno dopo, a settembre 2015, una diciottenne yazida, riuscita con altre a fuggire dalle prigioni dell’ISIS, pubblica in Francia il libro Esclave de Daech, che narra nei particolari la loro agghiacciante esperienza (le donne che si rifiutano di sottostare alle pretese dei jihadisti non vengono uccise ma torturate in tutti i modi, persino obbligate a bere acqua inquinata da topi morti). Il 14 novembre, forze peshmerga curde trovano, sempre in Iraq, una fossa comune in stile centroamericano, coi corpi di 80 ragazze yazide; il giorno dopo, a Shingal, a sud di Sinjar, ne viene scoperta un’altra, coi cadaveri di 50 uomini Yazidi. Ma due giorni prima, il 13 novembre, a quasi un anno e mezzo dalla proclamazione, per bocca di Al-Baghdadi, del sedicente Califfato Islamico (giugno 2014) Masoud Barzani, presidente della Regione autonoma del Kurdistan iracheno, ha potuto annunciare ufficialmente che l’offensiva dei peshmerga curdi e delle forze curdo-irachene, sostenute dalle truppe USA, ha portato a una prima sconfitta dell’ISIS e alla liberazione, dopo Mosul, anche di Sinjar.

Come si muoveranno ora gli Yazidi, gruppo la cui fiera determinazione è stata citata, in discorsi ufficiali, anche dagli eterni “alleati-rivali”, Obama e Putin, nel caos di tutto lo scacchiere mediorientale? La capacità di lotta nuovamente dimostrata in queste situazioni servirà a garantire finalmente maggiore dignità e sicurezza a questo gruppo, nel pieno rispetto della sua identità e della sua cultura?

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