Il ruolo della questione palestinese nella grazia di Alaa Abd al-Fattah

Alaa Abd al-Fattah, uno dei volti più iconici della rivoluzione del 2011 e il prigioniero politico più conosciuto nell’Egitto di al-Sisi, è stato scarcerato con decreto presidenziale lunedì 22 settembre. Dopo che l’avvocato della famiglia e candidato alle elezioni presidenziali del 2012, Khaled Ali, ha confermato la notizia, grande è stato il giubilo di familiari e attivisti politici. Mona Seif, sorella di Alaa e anche lei militante politica di lungo corso, ha postato su X un telegrafico “il mio cuore sta per fermarsi”. A questo breve messaggio si è aggiunta la reazione della madre, Laila Soueif, protagonista di un lunghissimo sciopero della fame che ne ha minato seriamente la salute e anche fatto temere per la sua vita. Dalla sua casa a Giza, mentre si trovava accanto a suo figlio circondata da familiari e amici, oltre a esternare una comprensibile felicità, ha voluto comunque rimarcare come la battaglia non sarà finita fino a quando non ci saranno più prigionieri politici in Egitto. Non sono mancati neanche gli attestati di felicitazione dal mondo degli attivisti egiziani, molti dei quali costretti a vivere in esilio, che non hanno mai fatto mancare la propria voce a sostegno del caso di Alaa, visto come paradigmatico nell’Egitto del generale divenuto presidente Abdel Fattah al-Sisi.

Un ritratto di Alaa

 

Alaa è cresciuto in una famiglia dove si è sempre respirato e parlato di politica. La madre, professoressa di matematica all’università del Cairo, si è battuta contro il regime di Anwar Sadat (1970–1981) prima e di Hosni Mubarak (1981–2011) poi, mentre il padre Ahmed Seif è stato uno dei leader del vitale movimento studentesco negli anni settanta. Arrestato non meno di quattro volte e condannato a una pena di cinque anni nel 1983, Ahmed ha studiato legge in carcere, diventando avvocato e difendendo così attivisti e militanti politici nei tribunali egiziani, fino alla morte nel 2014. La vicenda politica e umana di Alaa intreccia in maniera originale le parabole dei genitori, con un retrogusto forse ancora più amaro. Attivista, scrittore e informatico, Alaa può vantare il triste primato di essere finito in carcere sotto ogni stagione politica che l’Egitto ha conosciuto negli ultimi decenni – nell’ordine il regime di Mubarak, la fase rivoluzionaria e infine il regime militare di al-Sisi.

Arrestato per la prima volta nel 2006 con l’accusa di aver organizzato una manifestazione a favore di una magistratura indipendente nel solco di un processo mobilitativo più ampio lanciato dall’organizzazione Kifaya nel 2004, viene rilasciato dopo 45 giorni di carcere. Emigra quindi con la moglie in Sudafrica, dove entrambi lavorano come programmatori, ma rientra in Egitto a seguito dello scoppio del processo rivoluzionario inaugurato dalla storica giornata del 25 gennaio 2011. Diventa rapidamente uno dei simboli della rivoluzione e, immancabilmente, non sfugge agli occhi dei militari che guidano la transizione che segue alla cacciata di Mubarak. Partecipa a un corteo coopto al Cairo il 9 ottobre 2011, dove l’esercito spara indiscriminatamente sulla folla, causando decine di morti. La denuncia degli eventi da parte di Alaa porta al suo arresto. Minacciato di essere giudicato da un tribunale militare, viene rilasciato dopo due mesi circa. Si giunge così al suo terzo arresto, questa volta in piena fase controrivoluzionaria. Il colpo di stato militare guidato da al-Sisi il 3 luglio 2013 contro il presidente democraticamente eletto della Fratellanza Musulmana, Mohamed Morsi, assesta un colpo mortale alla rivoluzione. Di fronte alla supposta minaccia di un’islamizzazione del paese portata avanti dalla Fratellanza, buona parte della sinistra egiziana accetta, in alcuni casi anche con entusiasmo, l’ingresso sulla scena dei militari. Non Alaa però che continua ad organizzare manifestazioni in piazza Tahrir, epicentro della sollevazione del 2011. La partecipazione popolare però si è ridotta drasticamente a poche migliaia di attivisti. Il regime ha quindi gioco facile con una repressione tanto spietata quanto capillare. Alaa viene arrestato nuovamente nel novembre del 2013, mentre la condanna giunge l’anno seguente: 15 anni di carcere, poi ridotti a cinque senza la possibilità di ulteriori sconti. Alaa ottiene la libertà vigilata nel 2019 con l’obbligo però di trascorrere le notti per i successivi cinque anni in una stazione di polizia. Arrestato nuovamente dopo una serie di proteste scoppiate nel 2019 contro il regime di al-Sisi, è condannato a cinque ulteriori anni di carcere, che però di fatto diventano sette, visto che non vengono conteggiati i due trascorsi in custodia in attesa di processo. Il resto è storia di oggi.

 

Perché la grazia adesso?

 

Il titolo del paragrafo cela due domande in una. La prima si ottiene lasciando cadere l’avverbio finale e ha quindi un carattere generale – investe le motivazioni che spingono un governo a concedere la grazia ad alcuni detenuti. E qui troviamo un elemento che accumuna molti regimi autoritari – ovvero, la tendenza, in determinate circostanze, a scontare la pena ai propri detenuti politici – cosa che invece è molto meno frequente nei regimi democratici. Questo potrebbe suonare come un paradosso. Dopo tutto, nell’accezione comune, un regime autoritario è visto come un sistema di governo dove la repressione del dissenso è marcata e vengono negati i più elementari diritti civili e politici. La concessione della grazia però non contraddice alla base questi aspetti, ma al contrario tende a completarli. Dato che l’autoritarismo si caratterizza per l’assenza, o per meglio dire la debolezza, di uno stato di diritto, le decisioni della magistratura tendono ad avere natura fortemente arbitrale. Tale arbitrarietà trova nella grazia presidenziale il suo apogeo: questa decisione ratifica infatti, al tempo stesso, la magnanimità del governante e il suo porsi al di sopra delle leggi. La grazia presidenziale ai detenuti politici è quindi, in fin dei conti, un tratto peculiare e non un paradosso dei regimi autoritari.

Quanto detto fin qui inquadra il fenomeno politico nella sua cornice più generale, ma manca ovviamente di rispondere al perché proprio Alaa sia stato graziato e come mai la grazia giunga adesso. La ragione principale che aiuta a rispondere a entrambi i quesiti riguarda la questione palestinese e le sue ripercussioni sulla politica interna egiziana. A partire dal pieno dispiegamento dell’azione genocida di Israele contro la Striscia di Gaza, il regime di al-Sisi è stato attraversato da numerose contraddizioni. Due di queste sono di vitale importanza. In primo luogo, la frizione tra uno Stato, quello egiziano, che si autorappresenta come simpatetico alla causa palestinese e la sua completa inazione di fronte allo sterminio in atto. Questo iato mette in questione la legittimità del regime di al-Sisi perché si dipana sopra una società che è in larghissima parte al fianco della popolazione palestinese. Come già successo per la rivoluzione del 2011, incubata a partire dal movimento in solidarietà con la Seconda Intifada del 2000, ogni volta che la questione palestinese torna al centro del dibattito politico nazionale e internazionale, il regime del Cairo soffre di questa lacerazione tra l’immagine proiettata e quanto concretamente fatto. In secondo luogo è centrale la questione del ricollocamento della popolazione palestinese. Questo aspetto si pone con forza dato che appare ormai evidente il tentativo dello Stato Ebraico di giungere a una pulizia etnica completa o quasi della Striscia. Come unico Paese confinante, l’Egitto è il naturale candidato per accogliere una parte di questi due milioni circa di esseri umani. Esisterebbe nel caso l’opzione di un ricollocamento in altri Paesi arabi. Tale operazione, oltre a richiedere diversi mesi, rimarrebbe comunque soggetta alla dubbiosa possibilità che una buona parte degli abitanti di Gaza accetti di finire nel Golfo.

L’Egitto si troverebbe così con ogni probabilità sul proprio territorio con svariati campi profughi, contenenti centinaia di migliaia di palestinesi. Una fucina perfetta, come già successo in passato, per la lotta armata palestinese. In tal caso però, gli attacchi contro Israele partirebbero dal territorio nazionale egiziano. Dato che in un simile contesto la rappresaglia israeliana sarebbe praticamente scontata, cosa farebbe l’Egitto? Accetterebbe la violazione della propria sovranità, aggiungendosi quindi alla lista dei semi-Stati arabi come il Libano e la Siria, oppure risponderebbe come ha fatto in estate l’Iran? In caso di risposta, però, il conflitto non potrebbe esaurirsi, per quanto letale questo possa essere per i civili, a uno scambio di missili e droni. Al contrario, tracimerebbe in uno scontro di terra tra due Paesi confinanti. In virtù del fatto che i militari egiziani vogliono evitare il dipanarsi di una situazione del genere più di ogni altra cosa hanno tutto l’interesse ad adoperarsi per bloccare lo sterminio nella Striscia. Come ottenere questo obiettivo visto che la pressione egiziana su Israele è al massimo ininfluente?

Qui entra in campo Alaa Abd al-Fattah, come piccola pedina di scambio in un gioco molto più grande. A partire dal 2022, grazie al fatto che la madre è nata a Londra, Alaa ha ottenuto la cittadinanza britannica. Questo ha determinato un rafforzamento importante degli sforzi diplomatici britannici per convincere il presidente al-Sisi a concedere la grazia al suo detenuto politico più in vista. La mossa di al-Sisi però non è un inchino alle pressioni internazionali, quanto piuttosto un tentativo di ulteriore avvicinamento tra Londra e il Cairo, con molti analisti che hanno evidenziato come le relazioni tra i due Paesi siano migliorate molto in questi ultimi mesi. Tale avvicinamento riguarda il parziale riposizionamento del Vecchio Continente dopo l’avvio della seconda presidenza Trump che ha imposto alcune decisioni sorprendenti sugli alleati europei (dai dazi all’aumento delle spese militari) e schierato in maniera ancora più univoca Washington al fianco di Tel Aviv. Pur non abbandonando l’idea che Israele rappresenti un presidio vitale per la difesa dei propri interessi in Medio Oriente, le principali potenze europee hanno iniziato a prendere cautamente le distanze dallo stato Ebraico, o per lo meno dal modo in cui porta avanti la conquista della Striscia di Gaza.

Visto che né le capitali europee né al-Sisi sono genuinamente interessati alla creazione di uno Stato di Palestina, ma puntano alla firma di una tregua per necessità di legittimità interna e per un complesso gioco sullo scacchiere internazionale, la grazia concessa ad Alaa è emersa come mossa utile e a costo zero per al-Sisi. La speranza è ovviamente che questa, assieme ad altri fattori, possa contribuire a disinnescare la “grana palestinese” per i governanti del Cairo.

Sarebbe quindi sbagliato leggere la scarcerazione di Alaa come un ammorbidimento del grado repressivo del regime di al-Sisi. Questo è stato e rimane un gigantesco panottico militare. Non per questo però è destinato a durare in eterno. Le contraddizioni interne, la subordinazione alle potenze occidentali e una perdurante incapacità di migliorare le condizioni materiali dei vasti settori popolari rendono il regime egiziano un gigante dai piedi da argilla. La ripresa di un certo fermento sui luoghi di lavoro, come recentemente sottolineato da Hossam el-Hamalawy, analista e militante dei Socialisti Rivoluzionari, mostra come anche la repressione asfissiante voluta da al-Sisi non sia abbastanza per mettere a tacere ogni voce critica. Gli scioperi del 2025 hanno avuto, per adesso, una natura prevalentemente economica e difensiva. Sono stati cioè risposte a salari non pagati, bonus non corrisposti, licenziamenti ingiusti e soprusi sui luoghi di lavoro. Differiscono quindi dal ciclo 2006–2008, quando il protagonismo operaio, assieme al fervore democratico di attivisti come Alaa, preparò il terreno per lo scoppio rivoluzionario del 2011. Rappresentano comunque un segnale importante di controtendenza e che potrebbe preannunciare una maggiore forza dell’opposizione nel prossimo futuro in Egitto.

 

 

Immagine di copertina: l’attivista e dissidente politico Alaa Abdel Fattah celebra la grazia a casa sua al Cairo il 23 settembre 2025. (Foto di Mohamed El-Raai / AFP)

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