Siria. Tra Syrian Sisters e leonesse di Assad: il volto femminile della guerra

Da Reset-Dialogues on CIvilizations

A parlarne è stato alla fine del mese di aprile un articolo di Sada, il magazine online pubblicato dal think tank Carnegie Endowment for International Peace, intitolato “The Rise of the Syrian Sisterhood”, anche se non è una novità delle ultime ore. Il volto della rivoluzione siriana è sempre più rosa. Ciò significa che a dispetto, o nonostante, la presenza di gruppi di matrice islamista e qaedista, la rivolta siriana in questo suo lungo e doloroso percorso ha visto le donne meritarsi un spazio sempre più ampio. E non si parla soltanto delle donne che la guerra la subiscono nelle sue modalità più atroci e vili. Sono donne, si spiega nell’articolo, che si stanno ritagliando un ruolo crescente sia nel movimento stesso, sia come forza armata all’interno del Paese.

Quando si dice “sorellanza siriana” ci si riferisce all’ala femminile della Fratellanza Musulmana, il movimento che dal 2011 ad oggi, non solo in Siria, ma prima in Tunisia, poi in Egitto e ancora Libia, si è guadagnato via via il sostegno della popolazione, dopo essere stata per anni tagliata fuori dalla vita politica di molti Paesi.

In generale, l’origine dell’attivismo femminile in Siria si ritrova nei primi anni ’50 e ha un nome e cognome, quello di Amina Sheikha, una giovane militante che dopo il suo incontro con  il leader dei Fratelli Musulmani siriano, Mustapha al-Sibai, decise di creare l’ala “rosa” del gruppo, le Sorelle Siriane, appunto, che si dimostrarono particolarmente partecipi sia a livello ideologico sia organizzativo. Fino agli anni Settanta, però, quando la brutale repressione operata su tutto il movimento rese ancora più difficile e rischiosa la loro attività. Un esempio, noto a molti, è l’assassinio di Banan al-Tantawi, la moglie di un leader del gruppo, uccisa il 15 marzo del 1981 in Germania.

È dal 2000 che le Syrian Sisters sono riuscite a a ridefinire progressivamente il proprio ruolo, soprattutto attraverso i circoli all’estero e in Paesi vicini come la Giordania. Quello che è accaduto poi alle sorelle e ai fratelli musulmani, e la spinta propulsiva ricevuta da tutto il movimento grazie alla Primavera Araba, è cronaca degli ultimi anni.

Come rileva il Carnegie Endowment for International Peace, in Siria, la Fratellanza Musulmana sarebbe formata attualmente dal 10% di “sorelle”; sei di loro sarebbero state elette recentemente come parte del consiglio consultivo del movimento e, fra queste, altre due sono entrate nella dirigenza.

Ma quando si parla di donne non si parla solo di Syrian Sisters. È della scorsa estate la notizia della formazione, a Homs, del battaglione “Banat al-Walid”  tutta femminile, con l’obiettivo non solo di aiutare feriti e profughi, ma anche di proteggersi dalle aggressioni (e abusi) dei soldati fedeli ad Assad e di imparare a imbracciare le armi. Un gruppo che si è dichiarato formalmente distante da qualunque sigla. Diversamente, quindi, dalle donne del Free Syrian Army come Thwaiba Kanafani, entrata nelle file del gruppo di ribelli, dopo essere stata addestrata in Turchia e soprattutto dopo aver lasciato Toronto, suo marito, due figli e un lavoro come ingegnere per tornare nel suo Paese e prendere il kalashnikov.

Thwaiba è solo una delle tante che si sono unite ai ribelli e che stanno combattendo la propria rivoluzione. Come spiega Fotini Christia su Foreign Policy, coloro che hanno partecipato alla prima fase di manifestazioni pacifiche sono rimaste coinvolte anche quando la lotta si è fatta violenta; donne che trafficano in armi per l’opposizione, che preparano esplosivi improvvisati nelle loro cucine; che lavorano negli ospedali salvando le vite dei combattenti o che, come sostiene Thwaiba, compiono azioni di spionaggio.

Attività di sostegno, in molti casi, a quelle maschili, compiute da circa 5mila donne. A tenere i conti è Rami Abdul-Rahman, col suo Syrian Observatory for Human Rights esperto anche in altri pesanti conteggi. Lo scorso mese di aprile, il fondatore del sito che raccoglie tutte le informazioni sugli abusi in Siria, compreso il computo delle vittime, ne aveva parlato sul New York Times  sottolineando come nel caos attuale sia difficile calcolarne il numero esatto, ma “certamente ce ne sono molte altre coinvolte”.  Nello stesso articolo, intitolato proprio “Sisters in Arms Join the Fighting in Syria”, alcuni esponenti del Free Syrian Army confermavano la presenza di miliziane di tutte le età e condizione sociale. Il fenomeno sembra essere esploso agli occhi dei media solo negli ultimi mesi, al punto che il Time gli ha dedicato un lungo servizio fotografico.

Dall’altra parte della barricata le cose non sono poi troppo diverse. La reazione del regime è arrivata lo scorso gennaio con le “Leonesse per la Difesa Nazionale”, una milizia composta da volontarie per implementare le Forze Armate lealiste che hanno subito una serie di defezioni. Il battaglione ha il chiaro sapore di una risposta ben confezionata anche dal punto di vista propagandistico:  soldatesse in riga che scandiscono slogan pro regime e giurano di difendere il presidente “col nostro sangue e la nostra anima”. “Siria” e  “Assad”, le parole di incitamento urlate durante i loro training.

Uno dei video più completi e agiografici delle “leonesse di Bashar” proviene dalla pagina facebook della National Defence Force: quasi venti minuti in cui le soldatesse si mostrano sia nella loro dimensione familiare, di mogli e mamme, sia di militari al servizio di Assad: l’addestramento, le pattuglie, il perché di una scelta.

Ma se facciamo un salto indietro nel passato, all’epoca di Hafez, troviamo già delle donne in divisa nel tentativo di compiacere il proprio leader. Le immagini, per molti versi crude, provengono dall’archivio personale di Donald Rumsfeld (capo del Pentagono tra il 2000 e 2006) e furono pubblicate sul suo sito “The Rumsfeld Papers”. Mostrano le soldatesse durante una parata, di fronte al leader Hafez al Assad, uccidere a morsi dei serpenti per poi arrostirli e mangiarli di fronte a una platea compiaciuta. In realtà, il video, che pare essere stato un omaggio di Saddam Hussein a Rumsfeld negli anni ’80, quando il rapporto fra i due Paesi erano buoni, offre anche il raccapricciante spettacolo dell’uccisione di un cucciolo di cane, accoltellato da alcuni militari, sempre per assecondare il capo, ma questa è un’altra storia.

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