Marocco, un paese sospeso. Ma per quanto ancora?

Da Reset-Dialogues on Civilizations

In Marocco l’onda della primavera araba non è mai diventata un maremoto. Le proteste non sono mai sfociate in una rivoluzione e le riforme non hanno segnato alcuna svolta. Eppure il Marocco, mai del tutto illuminato dai riflettori della ribalta internazionale, racchiude in sé i fermenti, le contraddizioni, i progressi e le recrudescenze che continuano ad agitare il Nord Africa. Trascorsi due anni dalle manifestazioni guidate dal movimento 20 febbraio, che sulla scia delle rivolte in Tunisia e in Egitto chiedeva maggiore democrazia e rispetto dei diritti umani, il paese continua a essere attraversato da ventate di dissenso e le voci critiche continuano a essere represse con violenza dalle autorità.

Migliaia di persone sono sfilate il primo aprile per le strade di Rabat, per protestare contro la disoccupazione, la corruzione e l’elevato costo della vita. Il malcontento era rivolto in particolare contro le politiche attuate dal governo islamico moderato guidato da Abdelilah Benkirane, vincitore delle elezioni di novembre del 2011, accusato di spingere il paese “nel baratro” e di avere causato “una regressione sociale”. I manifestanti lamentavano le mancate riforme per ridurre le disuguaglianze sociali, combattere la corruzione, riorganizzare il sistema pensionistico, garantire una magistratura indipendente e maggiori libertà civili. Tutte promesse contenute nella nuova Costituzione, approvata con un sì plebiscitario a luglio del 2011, ma per ora rimaste disattese. Già allora i membri del movimento 20 febbraio avevano definito la Carta uno “specchietto per le allodole” voluto da re Mohammed VI con il plauso delle principali forze politiche per arginare la mobilitazione popolare promettendo una democratizzazione del paese con il passaggio a una monarchia parlamentare. Ma i diritti garantiti dalla Costituzione sono rimasti lettera morta, come ha sottolineato anche Ann Harrison, vicedirettrice del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International: “Le pretese riforme promosse dalle autorità marocchine sembrano una mossa per scrollarsi di dosso le critiche dei partner internazionali, mentre le proteste continuano a essere represse”.

A chiedere al re e al parlamento ulteriori riforme è anche Human Rights Watch che ha esortato il presidente francese François Hollande, in visita in Marocco all’inizio di aprile, a sollevare la questione del rispetto dei diritti umani durante gli incontri istituzionali. Secondo l’organizzazione, il governo non ha ancora fatto proprie le garanzie per le libertà civili contenute nella Costituzione e continua a infrangere gli standard internazionali limitando la libertà di espressione, conducendo processi militari iniqui, ricorrendo alla tortura in carcere e consentendo il lavoro minorile. Nessun passo avanti, inoltre, è stato fatto per risolvere la questione della regione contesa del Sahara occidentale, l’ex colonia spagnola ricca di riserve di fosfato e annessa dalla monarchia di Rabat 37 anni fa. Sono stati proprio 25 civili saharawi, molti dei quali attivisti per la difesa dei diritti umani, le vittime dell’ingiusta sentenza pronunciata da un tribunale militare il 17 febbraio, che ha condannato nove di loro all’ergastolo e gli altri a pene detentive comprese tra i 20 e i 30 anni. Gli imputati sono stati riconosciuti colpevoli di aver partecipato alle violenze scoppiate a novembre del 2010, quando le forze di sicurezza marocchine intrapresero un’azione per sgombrare un campo profughi di Gadaym Izik, allestito il mese precedente nei sobborghi di Layoun per rivendicare l’autonomia del popolo saharawi dal Marocco e chiedere migliori condizioni di vita. Negli scontri persero la vita undici membri delle forze di sicurezza e due saharawi.

A lungo considerato il paese più stabile del mondo arabo, il Marocco ha dunque mancato la sua svolta democratica e resta esposto alle tensioni tra i movimenti che chiedono cambiamento e le autorità arroccate e sorde alle richieste della popolazione. E il malcontento serpeggiante e represso potrebbe corrodere una società già provata da anni di violazioni dei diritti umani e difficoltà economiche. Sin dalla sua salita al trono nel 1999, dopo 38 anni di regno di suo padre Hassan, Mohammed VI si è presentato come un monarca illuminato e riformatore. Ricevuto in eredità dal padre un paese segnato da violenza, tortura, detenzioni illegali, censura, con il record di violazioni dei diritti umani e con un tasso di analfabetismo superiore al 50 per cento, uno dei peggiori del mondo arabo, Mohammed promise di costruire un nuovo sistema basato sulla monarchia costituzionale, su un sistema multipartitico, sul liberalismo economico, sulle libertà individuali e collettive e sulla sicurezza e la stabilità per tutti. Ma la luna di miele è finita presto e, dietro uno sbandierato processo democratico, il re ha dimostrato le sue tendenze da molti definite autocratiche. Poco dopo l’insediamento di Mohammed, la manifestazione per la legalizzazione del gruppo islamista al Adl wal-Ihsan (Giustizia e Carità), organizzata a Rabat a dicembre del 2000, fu repressa nel sangue.

Negli ultimi dieci anni il tasso di alfabetizzazione è salito di poco, mentre il 15 per cento della popolazione vive ancora con meno di due dollari al giorno e il Marocco è al 130esimo posto nell’Indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite, dietro a Gabon, Fiji e Territori palestinesi occupati. Tra il 1999 e il 2009 il governo ha arrestato, processato e incarcerato quasi trenta giornalisti. Negli ultimi anni i giovani laureati disoccupati hanno manifestato diverse volte a Rabat e durante una manifestazione a Marrakech nel 2008 un gruppo di attivisti fu detenuto per mesi senza ricevere accuse formali. Secondo un rapporto della Banca Mondiale del 2012, metà dei marocchini tra i 15 e i 29 anni non lavora né va a scuola. E i diritti delle donne, sebbene sanciti dalle leggi che garantiscono la parità di genere nel mercato del lavoro e riconfermati dalla Costituzione, sono ancora tenuti in scarsa considerazione. Negli ultimi anni l’integrazione economica delle donne si è persino ridotta e di conseguenza la loro capacità di diventare finanziariamente indipendenti è diminuita. Nel 2012 la percentuale della partecipazione femminile al mercato del lavoro non ha superato il 25 per cento, in calo rispetto al 30 per cento del 1999, mentre il tasso della disoccupazione per le donne ha raggiunto il 21 per cento, contro l’11 per cento degli uomini. Questa condizione ha portato il Marocco a classificarsi al centoventesimo posto dell’Indice di Disuguaglianza di Genere su 135 paesi in tutto il mondo, dodicesimo tra i 15 paesi del Medio Oriente e Nord Africa. E invece proprio dall’uguaglianza di genere il Marocco potrebbe partire per garantire un maggiore rispetto dei diritti umani, chiave di volta per superare le tensioni che ancora agitano un paese sospeso tra apertura al progresso e involuzioni antidemocratiche.

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  1. credo che la priorità l’ha la drastica situazione politica italiana , e le persone che si suicidano per mancanza di lavoro . su scriva su questo!

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