Libano, l’equilibrio precario ai confini del caos siriano

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Il 12 novembre scorso un doppio attentato suicida ha ucciso 43 persone e ne ha ferite altre 240 nel sobborgo di Burj El Barajne, a sud di Beirut. La “tregua” agli attacchi che andava avanti dal 19 febbraio 2014, quando un’autobomba era stata fatta saltare in aria davanti al centro culturale iraniano causando 11 vittime, è finita.

Nell’attentato di novembre, sono stati due uomini a farsi esplodere nella roccaforte di Hezbollah: il primo a bordo di una motocicletta, in mezzo alla gente, davanti a un centro culturale sciita, e il secondo subito dopo e poco più in là, mentre altri abitanti della zona accorrevano sul luogo della prima deflagrazione. Secondo quanto riferito dal ministro degli Esteri Nouhad Mashnouq, l’attacco sarebbe stato inizialmente pianificato per danneggiare l’ospedale Rasul Al Azam, per poi essere dirottato su luoghi meno sorvegliati. Il polo sanitario, uno dei migliori del paese, dipende dall’Istituto Medico Islamico di Hezbollah. La rivendicazione dello Stato Islamico arrivò subito dopo, e, autentica o meno, firmò di fatto un’azione mirata contro il movimento filo-iraniano e il suo coinvolgimento nella guerra in Siria al fianco delle truppe di Assad.

L’esasperazione delle tensioni politico-confessionali, gli scontri intestini fra comunità, la percezione di un vuoto nelle istituzioni, si sono nutriti di questa guerra, dal 2011 ad oggi: per la partecipazione militare di Hezbollah, che oggi diventa bersaglio di rappresaglie ed alimenta una insicurezza interna, e per il flusso di profughi provenienti dalla Siria, in una situazione complessiva di profonda incertezza e stallo politico. Con questi elementi si può dire che il Libano sia rimasto relativamente al riparo dall’onda d’urto della vicina guerra e dall’impatto dello Stato Islamico. Ma il bersaglio del 12 novembre è stato chiaro: si tratta di una parte della città abitata prevalentemente da sciiti, dove vivono anche alcuni dirigenti Hezbollah. Il partito di Dio è una delle forze più organizzate che partecipa alla guerra sul campo siriano. Anche se molti sciiti erano inizialmente scettici sul suo coinvolgimento a fianco del regime di Damasco, con la crescita dell’Is hanno accresciuto il sostegno, e nonostante le divisioni, il paese è riuscito a evitare di essere completamente assorbito nel conflitto. Eppure l’attacco a Beirut, così come quello di Parigi del giorno seguente, è arrivato in un momento di stallo, se non di perdite, per lo Stato Islamico, che nel giro di pochi giorni ha perso Sinjar in Iraq, conquistata oltre un anno fa e ora ripresa dai peshmerga, Hader in Siria, riconquistata dalle truppe del regime come pure l’aeroporto di Kweires, nell’area di Aleppo.

Come ha dichiarato alla Abc il ricercatore Greg Barton, esperto di Politiche Islamiche alla Deakin University di Victoria, in Australia, l’intento è proprio quello di rimarcare la sua presenza, anche e soprattutto se gli è stato sottratto del terreno “in casa”. Insomma l’attentato è il racconto mediatico del potere, indipendentemente dalle conquiste o perdite reali sul campo di battaglia. Ed è una strategia che lo Stato Islamico ha già saputo impiegare.

Il fatto che il Libano sia deciso a non portare ulteriore caos dentro ai suoi confini, è stato confermato anche dallo stesso leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, che in un video mandato in onda dalla “sua” Al Manar, oltre ad esprimere solidarietà alle vittime di Parigi, ha precisato che fra gli arrestati per gli attentati di Beirut non ci sarebbe alcun palestinese, come riportato subito dopo i fermi da alcuni organi di stampa.

Lo scorso anno il Middle East Institute ha pubblicato un’analisi sugli effetti in Libano della guerra in Siria, e ha fornito un quadro del salafismo libanese in relazione alla situazione delle comunità sunnite. Quanto è emerso, e che oggi si delinea negli ultimi attentati, è la nascita di una nuova generazione di jihadisti libanesi, in un contesto di frammentazione e debolezza politica. Secondo le conclusioni del MEI, Hezbollah avrebbe dovuto ritirare le milizie dalla Siria già da tempo per ricostruirsi un credito con i leader sunniti locali, e ridare stabilità al paese. La fiducia dei libanesi nelle istituzioni statali e negli apparati di sicurezza nazionali è molto bassa, mentre il successo delle organizzazioni parastatali è garantito dai servizi che si offrono alla gente, e dalla cooperazione costante della comunità di riferimento. L’appoggio ad Assad da parte di Hezbollah e la scarsa percezione della presenza di uno Stato che sappia preservare un’integrità territoriale, ha favorito la crescita di frange che cercano di ridurre l’influenza sciita. E se al Nord i “nuovi jihadisti” tendono ad andare direttamente in Siria a combattere al fianco delle opposizioni al regime, a sud, in particolare nei campi palestinesi, hanno più probabilità di impegnarsi in attacchi all’interno del paese.

Fino all’assassinio di Rafiq Hariri, dieci anni fa, i salafiti erano stati tenuti ai margini dell’arena politica, poi hanno finito con l’essere assimilati nelle fila delle opposizioni a Hezbollah, man mano che i sunniti sono diventati sempre più critici nei confronti del partito di Nasrallah, a causa anche di altri omicidi di sunniti di spicco come l’investigatore della polizia Wissam Eid, nel 2008, il generale Wissam al-Hassan nel 2012, e l’ex ministro delle Finanze Mohamad Chatah nel 2013. Tenendo conto che il caso Hariri è ancora aperto, e che fra il 2011 e il 2013 cinque membri di Hezbollah erano stati accusati di aver partecipato all’assassinio.

A tutto questo si è aggiunta la guerra in Siria. Nel 2012 il salafita di Sidone Ahmad al Assir, arrestato la scorsa estate all’aeroporto di Beirut mentre tentava di lasciare il Libano, ha iniziato ad organizzare manifestazioni di protesta nella capitale, nelle quali invitava i sunniti a sostenere l’opposizione siriana. A Tripoli, uno dei tre leader dell’establishment salafita, Salem al Rafei, ha messo pubblicamente sotto accusa il coinvolgimento di Hezbollah sul campo, perché avrebbe portato le fazioni anti Assad a colpire anche il Libano.

I sunniti sono delusi dalla leadership nazionale, e la tendenza risulta particolarmente evidente fra i giovani che risiedono in aree – come Tripoli – dove il conflitto settario è evidente. Secondo il Mei, almeno 300 combattenti si sarebbero uniti ai ribelli siriani, fino agli inizi del 2014, anche se non ci sono statistiche precise e confermate. Ma l’emarginazione dal governo centrale è sentita, in tutte le aree periferiche lungo il confine con la Siria. Basti pensare alla cittadina di Arsal, nella valle della Bekaa, che su una popolazione residente – a prevalenza sunnita – di circa 40 mila persone, ospita 100 mila profughi siriani ed è stata bersaglio di diversi attacchi da parte delle truppe di Assad.

Eppure il paese tiene, nonostante le dimissioni del premier Michel Suleiman nel maggio 2014, e la mancata elezione del suo successore. Se c’è stato un risvolto politico nell’assassinio Hariri che si riflette ancora oggi sulle alleanze, è stato la nascita di due coalizioni contrapposte strutturatesi a seguito delle due manifestazioni dell’ 8 e del 14 marzo 2005. La prima convocata da Hezbollah con l’intento di parlare a tutti i libanesi, senza distinzione confessionale, per chiedere verità sull’accaduto, e la seconda di impronta sunnita, nata con lo stesso scopo ma in contrapposizione con le forze sciite.

Oggi l’Alleanza 8 marzo, filoiraniana, comprende oltre a Hezbollah anche il Movimento Patriottico Libero, e sostiene il generale Michel Aoun, sulla scena politica dal 1984, quando ricopriva l’incarico di Capo di Stato Maggiore, durato sei anni. Contestatore degli accordi di Taif che ristabilivano una divisione del potere incentrata sul ruolo delle comunità e legittimavano di fatto un’intromissione della Siria negli affari libanesi, è stato in esilio per poi rientrare nel suo paese dopo il ritiro siriano, nel 2005. Attualmente invece sposa la causa della resistenza di Hezbollah al fianco di Assad.

L’Alleanza del 14 marzo sostiene la candidatura del leader delle Forze Libanesi Samir Geagea, che dopo la fine della guerra civile era stato processato per crimini commessi fra il 1975 e il 1990, e che nel 2005, dopo aver scontato 11 anni di carcere, ritorna in libertà e poi in politica, nella coalizione Hariri. Allo scopo di limitare l’ingerenza siriana sul Libano.

In una sua intervista di Bernard Selwan El Khoury, pubblicata da Limes nel luglio 2015, Geagea aveva parlato anche dello Stato Islamico: noi in Libano diciamo tfaddalou, accomodatevi, vi stiamo aspettando, non abbiamo paura. Così ci hanno detto diversi cittadini che hanno preso parte alla guerra civile del 1975-1990. dichiarazioni rese da uomini che durante la guerra civile si sono trovati a combattere contro guerriglieri palestinesi e mercenari arabi a volte più spietati dei jihadisti dell’Is. Tuttavia questa è una minaccia che le istituzioni non stanno sottovalutando. Geagea, comparando la situazione del suo paese a quella di Iraq e Siria, aveva affermato che fosse ancora sostenibile, nonostante le tensioni derivanti anche dall’assenza di un presidente della Repubblica. E sul ruolo dell’esercito, aveva detto di quanto fosse fondamentale quanto stava facendo per la sicurezza nazionale.

Il 15 novembre anche il suo rivale Aoun ha rilasciato un’intervista a Ya Libnan nella quale ha sostenuto esattamente il contrario, a proposito di esercito: senza Hezbollah non è in grado di difendere il territorio libanese. E sulla Siria ha sostenuto che gli appoggi internazionali, di qualunque provenienza, non mettono in discussione l’aspetto dei diritti umani ma solo gli interessi economici, sempre tenendo separati i due blocchi, nella sua visione, fra terroristi da una parte e Assad dall’altra.

Vai a www.resetdoc.org

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *