La crisi siriana e il futuro delle minoranze in Medio Oriente

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Roger Owen, professore di Storia del Medio Oriente all’Università di Harvard, è autore di due classici di riferimento sulla storia di questa regione: Stato, potere e politica nella formazione del Medio Oriente moderno e Storia delle economie del Medio Oriente nel Ventesimo secolo. Lo abbiamo intervistato.

Professor Owen, in Siria le minoranze – soprattutto quella curda – si trovano a fronteggiare enormi difficoltà?

Prima di tutto bisogna operare una distinzione tra gli interessi del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) e quelli dei restanti movimenti curdi che stanno cercando di trarre vantaggio dall’attuale crisi. C’è un flusso continuo di curdi turchi e iracheni verso Washington. I curdi iracheni sostengono che una loro amministrazione sarebbe di gran lunga più efficiente del governo al-Maliki. Tuttavia, le famiglie che gestiscono l’intero flusso degli aiuti internazionali destinati all’Iraq sono soltanto due. Cristiani e sunniti sono anche loro in attesa: chi riuscirà a permetterselo, cercherà di partire per Beirut. Il dato più preoccupante è rappresentato dalla presenza degli alawiti che hanno disperso i musulmani sunniti in parecchi villaggi. Ancora, è interessante tener d’occhio i drusi, dal momento che non possono contare su nessun supporto esterno e sono quindi costretti a cercare rifugio tra le montagne.

Al momento, in Siria la situazione sul campo appare tutt’altro che chiara.

A oggi è impossibile tracciare una mappa della Siria. Il governo ci assicura di avere sotto controllo alcune città ma non altre. L’esercito può contare su appena due divisioni affidabili. Stando così le cose, il personale militare è costretto a ritirarsi da alcune aree e i ribelli ne traggono vantaggio. Ovviamente, lo scopo dell’esercito regolare è prima di tutto quello di controllare i confini, specialmente quelli con l’Iraq e la Giordania, perché è da lì che le armi raggiungono il Paese. Lo stesso avviene a nord, lungo il confine con la Turchia e il Libano. Ciò consente il passaggio di materiali bellici da una parte all’altra dello Stato, destabilizzando il regime.

Malgrado ciò, è estremamente difficile cogliere l’effettiva natura dell’opposizione siriana.

Ci sono movimenti a matrice ideologica ma anche di opposizione locale che fanno affidamento su armi e denaro provenienti dal Qatar e dall’Arabia Saudita. Ci sono poi i qaedisti che sono molto ben organizzati, ma non hanno alcun tipo di collegamento con la tipologia di ribelle di cui sopra. I jihadisti hanno provato a istituire comitati e corti popolari, ma non riescono a far prendere piede a un’interpretazione restrittiva della Sharia. E non possono nemmeno imporsi alla popolazione perché pur se disposti a morire non sono molti, come nel caso dell’Afghanistan.

L’ex Segretario di Stato americano Hilary Clinton e l’attuale John Kerry hanno entrambi cercato di dare origine a un fronte unito dell’opposizione. Sono partiti con l’intenzione di dare aiuti alle ONG, ma non ne hanno trovate. Quel che avrebbero dovuto fare in effetti era supportare le associazioni per la difesa delle donne a nord del Paese: sono le uniche a sapere di cosa abbia bisogno la gente e chi effettivamente controlli ogni rete locale. Oltretutto, i siriani di Washington e Londra esercitano una forte azione di lobby a favore dell’intervento militare, ma anche nel loro caso non abbiamo a che fare con un movimento organizzato e coordinato.

Se il tentativo di creare un fronte unito di opposizione è fallito, quale sarà da adesso in poi la nuova strategia degli Stati Uniti?

Di fronte a loro si profila un unico finale possibile. Se Assad verrà sconfitto, gli Stati Uniti sosterranno l’intervento in Siria delle truppe di Arabia Saudita e Qatar per favorire il ritorno dei rifugiati nel Paese. Il timore è che il potere possa cadere nelle mani dei Fratelli Musulmani. Ma ormai è troppo tardi per intervenire. Bisogna aspettare il momento in cui i siriani saranno arrivati allo sfinimento. Al contempo, le autorità russe non vogliono un cambio di regime. Sanno che Assad può contare su un ottimo esercito, in grado di abbattere gli aerei turchi. È importante notare che la sensazione generale è che Israele non attaccherà l’Iran. Malgrado ciò, il timore è che i missili arrivino dal Libano meridionale e questo terrorizza Tel Aviv.

L’economia siriana sta attraversando una fase di bancarotta come all’epoca quella della sua controparte egiziana?

L’economia non collassa mai. La gente trova sempre un modo per ripartire, e non parlo solo dei ribelli. Queste persone vivono nel contesto di un libero mercato. Di certo, una crisi di questa portata implica il ritorno a una pianificazione a lungo termine. È per questo che la sinistra, a prescindere dal fatto che in passato sia stata annientata o assorbita nello status quo, potrebbe tornare alla ribalta, a partire dall’Egitto. La gente comune sta attraversando una fase rivoluzionaria e questo vale soprattutto per le donne del ceto medio. Stanno sperimentando l’emancipazione sessuale e non importa quanto dovranno aspettare perché ciò venga metabolizzato dalla loro legislazione, non lasceranno perdere.

La trasformazione che oggi sta investendo il Medio Oriente ha qualche precedente storico?

Nel 1917-18 in Russia i leader locali organizzarono dei comitati popolari facendo affidamento sulla buona fede della gente. Tuttavia, le società del Medio Oriente sono patriarcali, gestite da autorità al tempo stesso religiose e politiche. Le rivoluzioni coinvolgono sia i politici che i magistrati: in caso di epurazione, nessuno può far nulla. Se in Libia il nuovo governo vuole escludere dalle cariche pubbliche chiunque abbia avuto rapporti con Muammar Gheddafi, di fatto chi rimane?

Un altro modello individuabile è quello della Rivoluzione francese, con quella sua straordinaria seppur disordinata sollevazione popolare, in cui è stata la stessa piazza a innescare il processo rivoluzionario. Oppure possiamo guardare anche alla variante americana, con un documento nato dalla gente e dalla sua necessità di dare vita a un nuovo ordine politico, sistemarsi e obbedire a quelle nuove regole.

Traduzione di Chiara Rizzo

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