Piazza Tahrir, cinque anni dopo
l’Egitto censura la sua rivoluzione

Da Reset-Dialogues on Civilizations 

Una ricorrenza ogni anno più difficile da celebrare. Anzi, giunto al suo quinto compleanno, l’anniversario dello scoppio della rivoluzione di Piazza Tahrir è più temuto che festeggiato. Anche se gli attivisti che hanno partecipato ai 18 giorni di sommossa contro il vecchio dittatore, Hosni Mubarak, continuano a ritenere il 25 gennaio uno dei giorni più significativi della storia dell’Egitto contemporaneo, questa data spaventa quanti, temendo che diventi occasione di proteste anti-establishment, hanno deciso di vietare qualsiasi tipo di manifestazione. Il già risicato spazio pubblico egiziano è quindi destinato a restringersi ulteriormente. Questo grazie anche al saldo controllo esercitato dai media, specialmente dai canali privati che trasmettono di continuo le stesse affermazioni dei nostalgici di Mubarak. Basta trascorrere una serata facendo zapping tra i principali dibattiti televisivi per notare la presenza, sempre più massiccia, di anti-rivoluzionari che ribattezzano la rivoluzione come una ‘cospirazione straniera’ volta a dividere l’Egitto e il mondo arabo, consegnando il potere ai Fratelli Musulmani, dal 2013 nuovamente clandestini.

La stigmatizzazione del 25 gennaio era già iniziata nel 2012, quando il quotidiano Al-Shorouk svelò i dettagli – tutti da verificare – di un piano destinato a mettere in ginocchio il Paese, proprio in concomitanza con il primo anniversario della rivoluzione. Nel 2013, i festeggiamenti furono invece rovinati dai gas lacrimogeni degli scontri tra gli oppositori dei Fratelli Musulmani, all’epoca al potere, e la polizia. La repressione vera e propria è tornata a caratterizzare questa data – in passato dedicata alla polizia – nel 2014, quando le forze dell’ordine in divisa antisommossa repressero una protesta anti-governativa organizzata davanti al sindacato dei giornalisti, scatenando uno scontro nel quale perse la vita Sayed Abdullah, giovane attivista del Movimento del 6 aprile. L’anno scorso simile sorte toccò a Shaimaa al-Sabbagh, trentenne uccisa il 24 gennaio da un ufficiale mentre andava a deporre un fiore a piazza Tahrir per onorare i martiri della rivoluzione.

Con l’approssimarsi del quinto anniversario della rivoluzione, i militari del “nuovo” regime di Abdel Fattah Al-Sisi si sono mobilitati al massimo per prevenire manifestazioni o atti anti-establishment. Negli ultimi due mesi hanno intensificato le retate contro gli oppositori, generalmente descritti come terroristi. Oltre ai continui arresti di presunti membri della Fratellanza – generalmente accusati d’istigazione alla violenza – le forze dell’ordine hanno anche intensificato gli arresti nei confronti di attivisti (su posizioni più laiche) del Movimento del 6 aprile. Accusati di organizzare proteste contro il regime, questi sono stati vittime di perquisizioni e retate sommarie che hanno preso di mira anche celebri centri culturali del Cairo come la TownHouse e il Teatro Rawabet. Nel mirino del regime è entrata anche Dar al Merit, la celebre casa editrice che durante il regime mubarakiano cercò di pubblicare tutto quello che veniva bloccato dai censori.

Questa capillare azione da parte delle forze dell’ordine è stata rafforzata dall’attività del Ministero degli Affari Religiosi che è sceso in campo a fianco del regime, emettendo fatwa (editti religiosi) nelle quali ha descritto le manifestazioni di strada come atti contro l’Islam. Messaggi simili sono stati quelli contenuti nei sermoni del venerdì scritti dal Ministero; gli unici, per legge, che possono essere letti nelle moschee durante la preghiera comunitaria. Sermoni che lodano l’apparato di sicurezza del regime e le sue azioni, descrivendole come anticorpi contro il collasso del Paese nel baratro del terrorismo.

Se da una parte la paura del 25 gennaio e le campagne securitarie che ne derivano mostrano fino a che punto si è dissipata l’energia positiva di Piazza Tahrir, dall’altra svelano anche una serie di tensioni causate dal fallimento della rivoluzione che, cinque anni dopo il suo scoppio, non è riuscita a realizzare i suoi obiettivi. Eppure, il Ministero degli Esteri egiziano sta sfruttando questa ricorrenza per lanciare #EgyptBetterToday, una campagna mediatica globale nella quale si elencano, giorno dopo giorno, i 25 successi raggiunti dall’Egitto del post Mubarak. Dalla partecipazione politica (in realtà sempre più scarsa), alla lotta contro la disoccupazione giovanile (ancora alle stelle).

Diversamente da quanto avviene nel dibattito domestico dominante, fuori dal Paese il 25 gennaio viene ancora presentato come una data memorabile, un giorno di successo che ha scritto una pagina gloriosa della storia della Nazione. Questa doppia narrativa, ambivalente nei termini più che nella sostanza, svela ulteriormente l’anima del “nuovo” Egitto, un Paese in mano ai gattopardi del vecchio regime. Mostrandosi orgogliosi dei cambiamenti di facciata e dipingendosi come i leader di un paese stabile e in crescita, i “nuovi” vertici sono in realtà nostalgici di quel passato che vogliono restaurare.

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