Per la Consulta l’impedimento non era legittimo

 

Il Corriere della Sera: “No della Consulta a Berlusconi. Protestano i ministri Pdl. Il Cavaliere: continuo a sostenere il governo. Bocciato il ricorso sul legittimo impedimento, processo in Cassazione. L’ex premier: vogliono eliminarmi”. Un richiamo in prima pagina ad un “retroscena” dà conto dei pensieri di Berlusconi: “’Non fate dichiarazioni incendiarie’”.

A centro pagina le dichiarazioni del Presidente Usa Obama, ieri a Berlin: “Obama: ridurre di un terzo le armi nucleari”.

 

La Repubblica: “La Consulta boccia Berlusconi. Il Cavaliere: vogliono eliminarmi, ma resto leale al governo. La Corte: no al legittimo impedimento, sulla condanna nel processo Mediaset ora deciderà la Cassazione. Le minacce del Pdl”. A centro pagina: “M5S, il verdetto della Rete: Gambaro espulsa”. Di spalla, Obama a Berlino: “’Riduciamo le testate nucleari’”.

 

La Stampa: “Consulta, stop a Berlusconi. Respinto il legittimo impedimento. L’ira del Cavaliere: ‘Ma sarò leale col governo’”. E poi: “Caso Mediaset, ora il ricorso in Cassazione. Gasparri: ‘Se scatta l’interdizione, dimissioni dei parlamentari’”. A centro pagina: “Scontri in Brasile, la Seleçao con la gente. Manifestazioni alla Confederations, Blatter: il calcio è più importante. I giocatori vicini alla piazza”.

 

Il Fatto quotidiano: “La corte sbugiarda B., lui abbaia ma non morde”.

 

L’Unità: “Berlusconi, era solo una scusa”. A centro pagina le vicende del Movimento 5 Stelle: “Gambaro espulsa ma il 35 per cento contro Grillo”.

 

Il Giornale: “Pdl sveglia. A un passo dalla fine. La Corte costituzionale non ferma il processo Mediaset. Tra la vita e la morte politica di Berlusconi c’è solo una sentenza (già scritta). Il governo: occhio ad andare a braccetto con chi ti sta uccidendo”.

 

Il Sole 24 Ore: “Fed, stop agli stimoli entro il 2014. Già entro l’anno la riduzione di acquisto di titoli se l’outlook sarà rispettato. Bernanke lascia i tassi invariati. Riviste al ribasso le stime di Pil, migliora la previsione dell’occupazione”.

 

Libero si occupa del Ministro Idem e della sua falsa dichiarazione di residenza “per pagare meno tasse sulla casa”: “La ministra è abusiva”.

 

Berlusconi

 

Scrive Stefano Folli sul Sole 24 Ore che “a conti fatti il governo Letta non sarà destabilizzato dalla sentenza della Corte”, e che sarebbe “un errore fatale per Berlusconi trasferire sul piano politico una sconfitta giudiziaria, peraltro prevista, quando è chiaro che la scacchiera decisiva sarà la Cassazione in inverno”. L’ultima parola sul processo Mediaset toccherà infatti alla Corte di Cassazione, e il verdetto non è previsto prima dell’autunno. Prima ci sarà la sentenza sul caso Ruby, processo che è ancora in primo grado. Su La Stampa si scrive che se la condanna per la vicenda Mediaset fosse confermata in Cassazione (4 anni di reclusione e 5 di interdizione dai pubblici uffici), Berlusconi decadrebbe dallo scranno di senatore, e vedrebbe dunque dissolversi lo scudo parlamentare anche per gli altri processi in corso. “A meno che, trattandosi di una causa di fronte al giudice di legittimità, e non più di merito, l’ultimo baluardo schierato dalla difesa del Cavaliere, ovvero il cassazionista Franco Coppi, entrato in campo al posto dell’avvocato Longo, non riesca a far valere qualche cavillo o vizio procedurale in quello che più in generale gli avvocati definiscono ‘il diritto di difesa negato’, punto centrale del ricorso in Cassazione, presentato proprio ieri mattina”.

Il Corriere della Sera intervista il ministro delle Riforme Gaetano Quagliariello: “E ora non possiamo fare finte di niente, non possiamo mica mettere la testa sotto la sabbia come gli struzzi. Non possiamo farlo perché la Corte Costituzionale, con un tratto di penna, ha cancellato tutto quello che la tradizione occidentale ha pensato della politica e della sua autonomia, da Machiavelli a Carlo Schimitt E dunque mi sembra una enormità affermare che i giudici possano sindacare sulle scelte politiche del governo, perché stabilire la data di un consiglio dei ministri piuttosto che un’altra è un atto squisitamente politico”.

Le motivazioni della decisione della Consulta, come ricorda Il Sole 24 Ore, saranno note solo tra qualche settimana, ma il comunicato diffuso ieri al termine della Camera di consiglio già spiega sinteticamente le ragioni della decisione, “peraltro in linea con i precedenti della Corte. In sintesi, bene ha fatto il Tribunale, ‘in base al principio di leale collaborazione’ ad escludere che costituisse un ‘impedimento assoluto’ alla partecipazione all’udienza del 1 marzo 2010 ‘l’impegno dell’imputato presidente del Consiglio dei ministri di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno’. Giorno, aggiunge la Corte, ‘che egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all’udienza’. Insomma, è stato Berlusconi a non dimostrare ‘leale collaborazione’, non il Tribunale”. La Corte ricostruisce così la vicenda: “Dopo che per più volte l’imputato aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei Ministri già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall’imputato presidente del Consiglio in altra data, coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti) né circa la necessaria concomitanza e la ‘non rinviabilità’ dell’impegno né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario.

Alessandro Sallusti, sulla prima pagina de Il Giornale, scrive che tra pochi mesi il leader del Pdl “perderà l’agibilità politica. Non uso il condizionale perché sono sicuro che la sentenza di morte è in realtà già scritta”, “so che non pochi, dentro il Pdl e nella Corte consigliano Berlusconi di stare fermo e immobile, perché in qualche modo le cose ancora si possono aggiustare. Sono le famose colombe, le stesse che garantivano il buon esito della sentenza di ieri”, “mi pare che le nostre colombe partano invece con il ramoscello e tornino regolarmente a zampe vuote. Cioè sono inutili, direi dannose, come i piccioni”.

 

Giuliano

 

Il Giornale interpella gli 007 che sorvegliano i jihadisti italiani e, sulle cifre che sono circolate relative al coinvolgimento nel jihadismo internazionale di una cinquantina di nostri connazionali dice: “Se parliamo di italiani arrivati veramente a combattere in Siria, allora Giuliano era l’unico. Se parliamo di personaggi con il domicilio in Italia o partiti dal nostro Paese, allora i casi sotto controllo sono circa 15. Ma attenzione: nessuno di loro ha un passaporto italiano, si tratta di siriani, di un egiziano, e di qualche maghrebino. Le loro zone di attività e partenza sono concentrate tra Milano, Brescia e Bologna”. Il ridimensionamento del fenomeno in termini numerici non ne riduce la potenziale pericolosità. “Li seguiamo e li teniamo sotto controllo”, “sono personaggi ch euna volta rientrati in Italia non si portano dietro solo la capacità di combattere e usare armi ed esplosivi, ma anche la mentalità dei gruppi, con cui condividono la prima linea”, “una volta rientrati possono venire usati per dar vita a cellule terroristiche”. Oggi “non rispondono ad organizzazioni o sollecitazioni esterne”, spiega ancora lo 007. Partono per iniziativa individuale, si organizzano il viaggio fino alla Turchia, e da lì entrano in contatto con i gruppi combattenti. Il rischio è invece l’entrata in gioco di organizzazioni più strutturate, come la Sharia4, assai attive in Olanda, Belgio, Inghilterra o Francia”. La fonte de Il Giornale dice che Giuliano era uno “sprovveduto” entrato “in un gioco più grande di lui”. Non era quindi un reclutatore.

Cambiando quotidiano, il titolo sintetizza un’altra lettura: “’Giuliano era un reclutatore’, dagli appelli web alla guerra santa, ecco le rotte dei nuovi combattenti”. Era cioè un reclutatore in rete, poiché sarebbe la rete il luogo centrale di formazione dei mujahidin. Non più le moschee, non più gli imam itineranti, e neppure le carceri, ma i social network e i gruppi di discussione. E’ questa la lettura che emerge dalle indagini della Digos di Genova e dei Pm di quella città che indagavano su Giuliano Del Nevo. Prima che sparisse dall’Italia nel dicembre scorso era entrato in contatto con tre uomini che vivevano nell’estremo ponente ligure, stranieri ma musulmani come lui. Il quotidiano intervista la madre di Del Nevo. Che racconta di averlo accompagnato all’aeroporto, in partenza per la Turchia. Si è inginocchiato ed ha pregato prima di salire sull’aereo, e tremava per l’emozione. Era il 28 novembre 2012. E la madre racconta di aver preso un aereo anche lei il giorno dopo, perché aveva avuto la sensazione che fosse in pericolo. E di aver fatto lo stesso viaggio per riportarlo a casa. Lo ha inseguito per 91 giorni in Turchia. Racconta di aver tentato di superare il confine, e di esser stata respinta. “Invece quei ragazzi no, quelli li lasciavano entrare in Siria”. Dicono fosse un reclutatore di terroristi: “Si è arruolato da solo, era solitario, e per quello che mi ha raccontato era l’unico italiano. Chi parla di campi di addestramento dice sciocchezze”, “se fosse stato addestrato, se avesse fatto parte di una rete internazionale, all’arrivo in Turchia gli altri gruppi non lo avrebbero rifiutato”.

 

Turchia

 

Alle pagine R2 de La Repubblica, reportage dedicato alla Turchia. Più esattamente ad Erdogan, definito “Il sultano”. Ne scrive Marco Ansaldo spiegando che spesso ora è la stessa gente che lo ha votato a dichiararsi delusa. L’orizzonte del leader turco, dopo le frasi contundenti pronunciate contro l’Europa, “è sempre più legato al mondo arabo e mediorientale, eppure anche lì, adesso, la sua stella brillante nella cosiddetta ‘primavera’ di Egitto, Tunisia e Libia, comincia a offuscarsi perché considerato troppo vicino ai Fratelli Musulmani. La cartina da tornasole è stata chiara domenica quando, nella manifestazione convocata dai suoi ultras alla periferia di Istanbul, inzeppata di Anatolici e donne velate, in un crescendo retorico ha gridato alla folla plaudente: ‘E’ qui il Pakistan, è qui Lahore, è qui Gaza, la Mecca, Beirut. E qui Baku, Sarajevo e la Medina’. Nessun riferimento, nemmeno per sbaglio, a Parigi, Berlino o Londra. Pure il fronte musulmano interno è diviso e frastagliato, uno dei contrasti più forti è quello consumato con Fetullah Gulen, pensatore trasferitosi dalla Turchia agli Usa negli anni 90, voce dell’Islam moderato e del dialogo tra le religioni”, in esilio dal 1999 per sfuggire alle accuse dei militari di lavorare a un piano di golpe islamico. Gulen ha favorito l’ascesa di Erdogan ma, secondo Ansaldo, la fiducia si è incrinata, e lo testimonierebbe il video in cui Gulen ha detto: “se si dice che i manifestanti non stanno rivendicando i loro diritti si ignorano le istanze di tanti giovani”. Di fianco, la scrittrice Elif Shafak scrive: “Questa non è una spaccatura tra ‘kemalisti’ e ‘islamisti’. All’improvviso il vaso di Pandora è stato aperto e ne sono usciti nuova rabbia e vecchi rancori accumulatisi nel tempo. La ragione principale di questi scontri non l’islamismo, come ipotizzano alcuni commentatori in Occidente. La causa di tutto è l’autoritarismo, l’autoritarismo ha una lunga storia in Turchia, l’impero ottomano nacque da una forte tradizione statale. L’elite kemalista modernizzò la società dall’alto verso il basso, poiché credeva in uno Stato forte, così come il suo avversario, il partito Akp. Ogni volta che una opposizione o la possibilità di una opposizione prospera, le tendenze autoritarie reagiscono.

 

Afghanistan

 

Scrive La Stampa che il Presidente afghano Karzai ha deciso di fare “lo sgambetto” a Obama sui negoziati di pace nel Paese. A poche ore dall’annuncio del presidente americano sull’avvio dei colloqui con i talebani, Karzai ha fatto sapere che la delegazione afghana “non si presenterà” all’appuntamento di Doha, in Qatar, aggiungendo che “sono sospesi anche i negoziati con Washington” per il mantenimento di 16 basi americane dopo il ritiro delle truppe nel 2014. Il doppio affondo del Presidente Usa contro Obama nasce dalla irritazione per quanto avvenuto a Doha, dove i taleban si sono affrettati a riaprire l’ufficio di rappresentanza accompagnandolo con gesti plateali: l’esposizione della loro bandiera dall’edificio, la denoninazione della sede come “ufficio politico dell’emirato islamico dell’Afghanistan”, e la presenza di numerose tv al taglio del nastro. Per Karzai, l’ufficio dei taleban a Doha “deve essere solo un indirizzo”, perché “non hanno il diritto di esporre la bandiera, né di definirsi un emirato islamico, essendo solo un gruppo di insorti, senza status legale”. Karzai considera quindi una provocazione l’arrivo a Doha dell’inviato Usa James Dobbins per incontrare i Taleban, “prima di accordarci sulle modalità”. Karzai rimprovera quindi ad Obama di aver accelerato e di aver scavalcato Kabul, consegnando alla guerriglia una legittimazione che potrà avvenire solo a pace siglata, come spiega La Stampa.

Il Foglio scrive, dando conto del colpo di freno di Karzai, che tanto i talebani quanto il Presidente afghano sanno di avere tra le mani leve più vantaggiose di quelle a disposizione di Obama: “I talebani hanno usato il loro potere iniziale per trasformare un neutro tavolo di rappresentanza in qualcosa di più simile a una ambasciata oltreconfine dell’emirato islamico dell’Afghanistan, presa di posizione intollerabile per Karzai. Per il governo afghano la colpa della legittimazione dei talebani è solo dell’America, che ha lavorato nell’ombra per organizzare dialoghi che hanno spezzato il fragile asse tra Washington e Kabul prima ancora di sedersi al tavolo, ‘alla luce della contraddizione tra i fatti e le dichiarazioni Usa sul processo di pace il governo afghano ha sospeso i negoziati’, ha dichiarato l’ufficio di Karzai. Qualche ora più tardi, mentre la delegazione americana guidata da Dobbins atterrava a Doha, Kabul ha confermato le condizioni: ‘ Se il processo di pace non sarà guidato dagli afghani il consiglio per la pace non parteciperà ai negoziati del Qatar’. Negoziati che, dicono i talebani, inizieranno oggi anche senza i rappresentanti afghani. Una specie di incontro bilaterale che taglia fuori Karzai da un gioco delle tre carte pericoloso per la casa bianca. Ieri sera però il cronista diplomatico del Daily Best, Josh Robin, scriveva che il meeting è stato cancellato.

 

E poi

 

Da segnalare su La Stampa due intere pagine dedicate alla rivolta in Brasile, che si allarga: “’Più pane, meno circo’, fra il popolo deluso da Dilma ‘la banchiera’. E’ il titolo del reportage dal Paese, dove si racconta come in piazza ci siano anche gli ex seguaci della Presidente Roussef, accusata di pensare solo alle multinazionali. Il quotidiano intervista Moises Naim, che è stato ministro dell’industria in Venezuela, e membro del Carnegie Endowmente. Spiega che c’è “in qualche modo un paradosso: queste proteste nascono dal successo economico, in Brasile come in Turchia o in Cile. Il progresso economico sveglia nuovi bisogni. Nell’ultimo decennio questi Stati sono diventati modelli di crescita, basati sulla liberalizzazione dell’economia: il Pil è aumentato, così come il reddito pro-capite, e le disuguaglianze sono diminuite. Anche in Tunisia, dove però il progresso non è bastato a salvare il governo di Ben Ali, e sono esplose le proteste da cui è nata la primavera araba”. Di coloro che scendono in piazza a lamentarsi del mondiali di calcio in Brasile, Naim dice: “Questa nuova classe media emergente sta sviluppando aspettative e aspirazioni ad una velocità più grande della capacità di risposta dei governi. Prima volevano le scuole, ora scuole di qualità; prima volevano gli ospedali, ora ospedali che funzionino bene. Così in Brasile si scende in piazza per domandare un esecutivo meno corrotto. In Cile gli studenti aspirano ad avere università buone, ma poco costose; in Turchia i cittadini si rivoltano contro un governo che impone le sue decisioni, senza ascoltarli. Il potere ha una sua debolezza, nella risposta, ma un altro elemento comune a tutte queste proteste è anche l’assenza di una leadership e di una agenda chiara. Non c’è un Walesa e neppure un Cohn Bendit. Sono manifestazioni catartiche, condotte da persone sfinite dalle difficoltà, e denunciano la corruzione. Ma così i governi, già deboli di loro, non hanno interlocutori” Rischiano di cadere? “Non credo. Le proteste però attirano l’attenzione dei politici, chiarendo che il ‘business as usual’ non è più sostenibile”.

Su L’Unità si parla di un pamphlet che va a ruba a Parigi, firmato dal filosofo Jean-Paul Galibert: “Suicide et sacrifice. Le mode de destruction hypercapitaliste”. La tesi è che il vecchio capitalismo fosse ancora fondato sulla produzione, mentre l’ipercapitalismo è un modo di distruzione: si fonda sull’”hypertravail”, l’iperlavoro, un doppio modo di sfruttamento totale, in cui il consumatore accetta di lavorare per il venditore per poi comprare la merce. Regalerebbe cioè due volte la merce in cambio di nulla. L’ipercapitalismo spiega l’onda anomala di suicidi, che in Francia arrivano ad essere 10 mila l’anno.

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