Il Pd a lezione sul web (si spera)

La rete e i partiti. Si annusano, si cercano, iniziano a conoscersi, ma ancora non sono riusciti a fare amicizia, almeno in Italia. È che un po’ di fretta ci sarebbe perché la vita delle persone è ormai anche là.
Se nella politica di professione il legame con i mass media ha una sua storia ormai consolidata fatta di spin doctor, di agenda setting, di calze sulle telecamere e cerone, quello con il web in Italia deve ancora maturare causa una certa pigrizia della classe dirigente italiana. Finché il politico non viene tirato per i capelli dentro il nuovo, rimane ben seduto sulle vecchie abitudini della comunicazione.

Ora c’è chi prova a dare una scossa sistematica a una parte politica che sebbene annoveri qualche appassionato non si può dire all’avanguardia nella consapevolezza 2.0. Pippo Civati e Antonio Tursi – l’uno giovane consigliere regionale in Lombardia, l’altro giovane ricercatore – hanno curato il volume Partito digitale. Il Pd che viene dal futuro (Mimesis, pp. 124, euro 10) nel quale raccolgono numerose voci e consigli diretti a un partito che voglia affrontare senza paura la sfida che rete e social network hanno lanciato nel nuovo spazio pubblico.

Gli autori sono tutti under 40 (c’è la Serracchiani che no, ma lei è giovane lo stesso). Tutti nati con quel 7 dopo il 9 che chissà quanto ancora potremo permetterci di lasciare come linea d’ombra della gioventù. Alcuni fanno politica, altri sono nell’accademia – da precari, neanche a dirlo – altri ancora bazzicano tra la comunicazione, i giornali e il web. Tutti, in un modo o nell’altro hanno a che fare col Pd, un partito, inutile nasconderlo, nel quale il divide generazionale esiste, ma dove quello digitale è ancor più forte se possibile. E nel quale l’esorcismo del web rappresenta ancora la pratica più diffusa rispetto alla fatica di capirlo e di sintonizzarcisi almeno un po’. C’è chi ci si lancia come Michele Emiliano twittatore forsennato dalla riunione a porte chiuse con Monti. C’è Matteo Renzi che ci si è costruito anche parte del suo brand con lo smartphone.

Ci sono i deputati di #opencamera e delle webcronache dal parlamento. Ma insomma, c’è un andare in ordine sparso, sebbene di recente il partito abbia messo in piedi iniziative lodevoli come la Summer School di Cortona dedicata proprio alla comunicazione.
La gran questione è dunque: il web è strategico per la politica, ma per far cosa? D’accordo la capillarità, rapidità, personalizzazione, e chi più ne ha più ne metta, delle comunicazioni, ma poi? Possibile che ancora oggi la classe dirigente (ovviamente non solo democratica) pensi che la rete sia perlopiù una macchina superveloce per fare cose che si facevano già prima con più lentezza e più difficoltà? Non più 6X3 con i faccioni, non solo spot e ospitate nei talkshow, ora ci sarebbe anche questo enorme spazio bianco da riempire.

Quando Bersani dice che la “realtà viene prima della comunicazione” si capisce dove vuole andare a parare, e si capisce a chi si rivolge ma purtroppo anche a chi non riesce a parlare e quale è il giudizio che dà della rete. Come quando accusa i “fascisti del web” e l’accento è su fascisti ma anche su web, inevitabilmente. Facebook e Twitter, per parlar chiaro, non sono solo a rischio di conquista da parte di poteri che li forzerebbero verso interessi non proprio limpidi (spesso lo si è detto a proposito di Grillo) e neanche megafono di ultima generazione per strillare più forte e più lontano. Anzi, i social network se possono essere una risorsa per i partiti dovrebbero funzionare innanzitutto come grandi orecchie per ascoltare al meglio quel che i cittadini pensano e vogliono dire.
«La politica – scrive Civati nel saggio introduttivo – deve trovare una modalità di relazione che ora in molti casi nemmeno conosce». Il problema non è tanto che non la conosce ma che non abbia neanche la curiosità di sapere cosa accade di là dello specchio. Relazioni che sono inevitabilmente più paritetiche e orizzontali oggi rispetto a quelle che media e politica replicavano fino a pochi anni fa.

Tanto il politico quanto l’elettore hanno ora in mano il magico strumento per comunicare. E questo non può lasciare tutto com’è. Va da sé che il politico che non risponde a tutti i tweet che gli si inviano non è un maleducato, ma prova soltanto a sopravvivere. Come non è uno scandalo che abbia qualcuno che gestisca i suoi profili in rete, e con cui lavori necessariamente gomito a gomito. Tuttavia, difficilmente sarà apprezzato colui che è presente in rete ma non risponde e non ascolta mai.
«L’opinione pubblica 2.0 – scrive Emanuele Toscano nel suo contributo – non è meno importante di quella che si forma e si costituisce al di fuori della rete». L’asimmetria dei ruoli tra cittadini e politici in rete viene ridimensionata se non annullata, e allora i partiti devono rimboccarsi le maniche per sperimentare nuove vie di incontro di una audience che non è più tale. Se il ruolo storico del dirigente che dalla federazione arriva nella sezione a spiegare le scelte del partito ha sempre meno senso, ciò significa che leadership e base devono trovare un modo nuovo per parlarsi (si veda il contributo di Antonelli e Castrucci). La militanza oggi batte strade autonome e il partito paternalistico nell’epoca della rete fa flop.

Sentire autorevoli amministratori locali – ci è capitato pochi giorni fa all’Internet Festival di Pisa – dire che la rete e i social network sono spazi manipolabili da grandi player economici significa non aver appreso nulla della lezione ormai stracitata di #sucate e dell’elezione di Giuliano Pisapia. Roberta Maggio ripercorre quella che forse è la più importante operazione di comunicazione politica degli ultimi anni. Ma quell’hashtag (il #) che ha dato un colpo mortale alla campagna della Moratti è stato a costo zero. Quel che molti, moltissimi politici fanno ancora fatica a digerire è che non è così facile pianificare “operazioni” in Rete; gli utenti, molti di loro, hanno ormai prodotto anticorpi che li proteggono, almeno un po’, dalle campagne astroturf, fredde e pensate a tavolino. Una nuova militanza è ormai matura e si affianca a quella radicata sul territorio e “geolocalizzata” come scrive Di Maio.

Nel complesso gli articoli del libro sono chiari e fotografano bene quale sia la nuova frontiera della comunicazione politica 2.0. Ma appunto, il cuore è molto spesso la comunicazione, diversa, orizzontale e bottom-up. Quel che aspettiamo come secondo tomo per l’aggiornamento digitale del Pd è quello dedicato all’opengov, alla cittadinanza e all’alfabetizzazione digitale.

Titolo: Partito digitale. Il Pd che viene dal futuro

Autore: Giuseppe Civati e Antonio Tursi

Editore: Mimesis

Pagine: 124

Prezzo: 10 €

Anno di pubblicazione: 2012



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