Barbari sono sempre gli altri, fin dal principio

Si potrebbe, recensendo questa ottima raccolta di studi sulla presenza e l’uso dell’idea di “barbari” nella cultura dal Settecento a oggi, iniziare da Hegel sempre folgorante: “ciò che per l’auto coscienza è altro da sé esiste per essa come oggetto privo di realtà essenziale e segnato dal carattere di entità negativa”.

Ma penso che sia meglio scendere nel tempo e nella storia e renderci così conto che l’accusa di essere barbari – rivolta a coloro che sono percepiti prima di tutto come “altri” – sia un “vezzo comune, trasversale e millenario” (dice Massimo Campanini) che nonostante le conseguenze negative non ha in sé all’origine nulla di strano. È umano, molto umano. Ma è anche qualcosa che provoca molti danni.

Constatazione forse banale che però è bene ogni tanto ricordare.

La magistrale introduzione di Isabel Dejardin lo mette ben in chiaro affondando l’analisi sino alle origini dell’idea nel mondo greco e poi risalendo a Dante (Inferno canto XXVIII) e all’Otello di Shakespeare, quel barbaro così amabile e inflessibile.

“Barbaro” si evidenzia sempre più non come un concetto preciso, ma – nota la Dejardin – “una riserva iconografica e drammatica […] un angolo morto che condiziona un certo sguardo sul mondo. Barbaro indica ciò che sfugge e questo non è che il minore dei suoi difetti”.

Il volume contiene anche saggi mirati a ricerche più particolari: Cacciapuoti, Sana, Riccio e Zarka illustrano la presenza della definizione in testi importanti come l’Encyclopedie e le pagine di Vico, Gibbon e Leopardi mentre altre indagini – di Mascolo, Rota, Vanzulli e Mormino – riguardano la ambivalente presenza del termine “barbaro” negli scritti del secolo scorso. Contributi che mettono in luce la polivalenza dell’idea di “barbaro” e il suo uso, non sempre consapevole, nel delineare progetti sociali assai diversi.

Molto godibili, dotte e originali (e felicemente “lutulente” come dicevano i latini) le pagine di La Vergata: una scorribanda fra i significati di termini simili ma non equivalenti.

Chi nel nostro mondo è percepito come barbaro? E chi è definito selvaggio? Sono due sinonimi che si rafforzano a vicenda? O il barbaro è incluso nel selvaggio?

Ma attenzione: in certi momenti della nostra cultura occidentale (ricordo solo i “figli della natura” Paul et Virginie di Bernardin de Saint Pierre ) il selvaggio è stato considerato talmente buono e pregevole da diventare un modello morale, un mito da recuperare contro la corruzione del mondo europeo. Non tutti i selvaggi dunque sono barbari.

E i barbari non sono tutti selvaggi: vivono nelle nostre città, parlano alla televisione, occupano posizioni ufficiali e di responsabilità, a volte esibiscono giacche e cravatte impeccabili ma esprimono pensieri e sentimenti e purtroppo anche progetti politici e sociali che molti di noi avvertono come ”barbari” nel senso di arretrati, primitivi, non assimilabili a quell’ideale di vita “civile” fondato sull’uguaglianza che si credeva conquistato una volta per tutte. D’altra parte si può osservare come anche questa percezione (la “vita civile”) non sia dopo tutto completamente positiva e da adottare acriticamente e possa portare anzi a una stasi, a una rinuncia fredda e chiusa a qualsiasi mutamento. Per limitarci a un campo “non pericoloso” basta pensare alla strepitosa novità delle forme e dei contenuti arrivate all’estetica europea dall’arte africana. Oh Picasso!

Definire l’altro come barbaro potrebbe quindi persino essere una illusione dannosa che chiude nuove strade di cultura e bellezza.

Giorgio Bertolotti in Alcuni usi di “barbarie” nel Novecento rileva “l’amarezza” presente in un passo di Levi Strauss perfetto per indicare la complessità della questione: “Sembra che la diversità delle culture sia raramente apparsa agli uomini per quella che è, ossia un fenomeno naturale. Piuttosto si è visto in essa una sorta di mostruosità e di scandalo […] Il progresso della conoscenza in questo campo non è consistito tanto nel dissipare questa illusione quanto nell’accettarla e trovare il modo di rassegnarvisi”.

Le cose – come notava fin d’allora Platone – sono dunque più complicate di quanto vorremmo ma sembra che l’unica via da imboccare sia affrontare ancora una volta la ricerca possibilmente senza illusioni e senza (troppi) pregiudizi.

 

Titolo: Barbarie in età moderna e contemporanea

Autore: G.Cerchiai, G. Rota e L.Simonutti

Editore: FrancoAngeli

Pagine: 300

Prezzo: € 35.00 €

Anno di pubblicazione: 2019



  1. E’ sempre importante ricordare come dietro al volto contingente ed effimero dei barbari (di volta in volta, lo straniero, l’extracomunitario, il migrante etc.) si nasconda in realtà una proiezione antropologica e radicata della nostra paura dell’Altro. Ben più insidiosa perché può vivere e prosperare in assenza di cause, senza almeno un flebile appiglio a fatti reali e a quella coerenza minima che chiediamo a ogni ragionamento, fosse anche quello quotidiano per cui cambiamo panettiere quando il suo pane non ci piace più. Paura umana, come dice bene l’articolo, molto umana. E forse troppo umana, per dirla alla Nietzsche: una complessità di fronte alla quale il barbaro è chi la ignora, piuttosto che chi accetta di soffermarvisi per pensarla.

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