Il dilemma della scialuppa e l’inciampo dei libertari sulla lotta alla pandemia

Il 25 Luglio 1884, il capitano Dudley accoltellò a morte il suo assistente di cabina e, insieme a due compagni, se lo mangiò. Benché il verdetto emesso contro di lui mesi dopo quel fiero pasto fosse di morte per impiccagione, il Ministro della Giustizia dell’epoca, William Harcout, commutò la pena in appena sei mesi di carcere. Perfino il fratello del giovane di cui i tre si erano cibati si era comportato cordialmente con gli imputati in tribunale. Per comprendere il perché di tanta clemenza è necessario conoscere la storia che il capitano raccontò. L’equipaggio di quattro marinai era salpato dall’Inghilterra alla volta dell’Australia quando, a mille miglia dalla costa, fu colto da una tempesta che affondò la loro imbarcazione. I quattro si salvarono su una scialuppa di salvataggio con solo pochi barattoli di rape. Dopo tre settimane alla deriva, stavano tutti morendo di fame e di sete. Il giovane assistente di cabina, tale Parker, era quello messo peggio di tutti e stava per essere il primo a lasciarci la pelle. A questo punto Dudley propose agli altri due di uccidere Parker in modo da potersene cibare. Uno degli altri due, tale Brooks, rifiutò, mentre il secondo, un certo Stephens, aderì al piano. Così fu fatto. Mangiarono la carne e bevvero il sangue. Incluso Brooks. Tempo dopo, la piccola imbarcazione venne intercettata da una nave tedesca e i tre superstiti vennero portati in salvo.

“Il naufragio” di William Turner, 1805

La relazione che Dudley scrisse rese impossibile non perseguire quegli uomini per omicidio. Eppure, molte persone, gran parte dell’opinione pubblica dell’epoca, e perfino lo stesso ministro ritennero che Dudley avesse una giustificazione logica al suo atto e che quindi l’azione non fosse moralmente riprovevole. In fondo, il povero mozzo sarebbe morto comunque. La nostra grammatica morale, quindi, sembra ripercorrere la logica di ciò che in economia si chiama efficienza paretiana o ottimo paretiano. Secondo Vilfredo Pareto, infatti, la situazione di maggiore efficienza che si possa raggiungere in una situazione data è quella in cui non ci può essere nessuna riassegnazione di beni che migliori la condizione di uno o più individui senza peggiorare quella di nessun altro. In altre parole, una situazione è pareto-efficiente nel momento in cui si raggiunga il miglioramento della condizione di almeno un individuo senza peggiorare quella di nessun altro individuo. E’ quello che è successo sulla scialuppa in cui il povero Parker ha nutrito i suoi compagni. La condizione del ragazzo non è peggiorata, perché questi sarebbe comunque deceduto, ma in tempi tali da mettere a rischio la vita degli altri tre, mentre la condizione dei cannibali estemporanei è decisamente migliorata. Un ottimo esempio di pareto-efficienza che la nostra mente morale sembra cogliere alla perfezione, benché la cosa violi palesemente il principio di non aggressione. Quest’ultimo è il principio che funge da base filosofica del libertarismo ed è propugnato quale unica istanza morale dai seguaci di questa corrente di pensiero che porta il liberalismo alle sue estreme conseguenze. Secondo tale visione, va condannata qualunque forma di “aggressione” ad un individuo o alla sua proprietà, considerata come estensione del diritto alla “proprietà di se stessi”. Ciò indipendentemente dal fatto se il risultato di questa azione aggressiva sia dannoso, benefico o neutrale per il proprietario. Che possa essere utile ad un più ampio numero di persone, cosa che renderebbe morale un’azione secondo la prospettiva dell’utilitarismo, non riveste alcun interesse per il liberal-libertario, insensibile al “bene comune” e interessato solo al rispetto della libertà personale. L’unico diritto, in definitiva, rimane quello di proprietà (di sé stessi e del frutto del proprio lavoro). Pertanto, il solo criterio per definire legittima un’azione è la valutazione sul fatto se essa salvaguardi o violi detto principio.

E’ su tale base che gli esponenti del libertarianism, la corrente comunemente nota come anarco-capitalismo, ritengono illegittimo lo Stato; questo, infatti, aggredisce la proprietà dei produttori tramite la tassazione e persegue quali crimini comportamenti che non costituiscono aggressione alcuna (victimless crimes) come la prostituzione, lo spaccio di stupefacenti, il gioco d’azzardo, ecc. La questione acquista particolare rilevanza nel momento in cui la pandemia da Covid 19 ha portato i governi a limitare fortemente le libertà individuali per contrastare la diffusione del virus. Ne è nata una ovvia contrapposizione fra coloro i quali ritengono prioritaria la salvaguardia della salute pubblica, cioè chi segue l’etica del bene comune, e coloro i quali ritengono ogni limitazione degli individui quale una forma di illegittima aggressione alla libertà individuale. Curiosamente, molti degli esempi di scuola sovente utilizzati per distinguere l’etica della libertà da quella del bene comune è proprio quello dei naufraghi alla deriva. Una tradizione che deriva dalla Lifeboat Ethics inaugurata da Garrett Hardin. Ad esempio, è possibile leggere:

Ci sono cinque naufraghi su una zattera che ne può contenere senza affondare solo quattro. Uno va eliminato altrimenti muoiono tutti. È evidente che la soluzione dove si salvano in quattro è migliore di quella dove non si salva nessuno. Il problema però è come si elimina un naufrago. Se ci si riconosce nel paradigma dell’etica della libertà non ci sono dubbi, un naufrago si può solo sacrificare volontariamente. Nel caso pertanto che uno o più naufraghi buttino a mare il più debole o il meno utile, questi sono assassini e dovranno pagare le conseguenze del loro crimine.

Innanzitutto, la storia di Dudley e dei suoi uomini testimoniano del contrario, ma non solo quella. Il 6 Marzo 1987, nel porto belga di Zeebrugge, la nave passeggeri Herald of Free Enterprise imbarcò acqua e si capovolse. Persero la vita quasi 200 persone. Fra le testimonianze raccolte fra i superstiti, spiccò quella di un caporale dell’esercito che raccontò di essersi trovato sulla scaletta che portava alla scialuppa insieme a molti altri, tutti bloccati da un individuo che pareva paralizzato, probabilmente dal terrore, e che ostruiva l’unica via d’accesso alla salvezza. Tutti quanti iniziarono ad urlare verso questo individuo cercando di smuoverlo, ma questi sembrava incapace di muoversi. A questo punto, il caporale estrasse la pistola d’ordinanza e fece fuoco. Abbattuto l’ostacolo, tutti guadagnarono la scialuppa. Nessuno considerò l’azione del caporale un crimine e questi non fu mai perseguito. La pistolettata aveva raggiunto la condizione di ottimo paretiano.

L’aneddotica è utile a comprendere come esista una grammatica morale che ci appare di per sé evidente e che è tale da sembrare innata, naturale. Ciò è degno di nota, perché i connotati di sacralità di cui i “libertari” investono il principio di non aggressione, e che lo rendono non negoziabile come si trattasse di un dogma religioso, è proprio l’idea di un diritto naturale di per sé evidente, quello appunto di non essere aggrediti. Ciò è spia esattamente della sua origine giusnaturalista, cioè del suo derivare dalla teoria filosofica secondo la quale esistono diritti naturali ed immutabili, giusti a-priori. Che ogni corpo appartenga al suo “manovratore” è, ad esempio, una consapevolezza che non necessita di acquisizione o di essere dimostrata. Pertanto, che noi non si possa disporre a piacimento del corpo altrui è evidente di per sé. E’ ciò a cui gli anglofoni si riferiscono col termine di moral dumbfounding. Si tratta della condizione in cui si esprimono valutazioni sulla opportunità di una azione e la si sostiene con fermezza anche se non si sa spiegarne il perché (Haidt, 2001, 2007). Sennonché, tutto sembrerebbe dimostrare che l’uomo valuti nello stesso mondo non pienamente consapevole che anche l’aggressione può essere appropriata in alcune situazioni. Che questo avvenga soprattutto in condizioni in cui l’aggressione comporti un esito utilitaristicamente valido (il bene per il maggior numero) non dovrebbe sorprendere, visto che l’evoluzione, oltre e più della sopravvivenza dell’individuo, persegue quella della specie.

In secondo luogo, affermare che, se ci si riconosce nel paradigma dell’etica della libertà “non ci sono dubbi, un naufrago si può solo sacrificare volontariamente”, presuppone un altruismo che si nega come principio ordinatore delle scelte collettive, ma che dovrebbe diventare eroico nella scelta dell’individuo. La libertà di ogni naufrago, quindi, è di poter scegliere se sacrificarsi per salvare gli altri, opzione non generalmente praticata da individualisti coerenti, o annegare insieme a tutti gli altri, ma senza pagare il prezzo di un vulnus alla libertà individuale. Ciò è esemplare e paradigmatico del conflitto tra la razionalità interessata a sé e l’irrazionalità dei suoi esiti. Non solo, cioè, il perseguimento di un pay-out individuale positivo comporta un pay-out collettivo negativo, ma addirittura l’auto-interesse, in alcune condizioni, distrugge se stesso. ll “self-interest” è “self-defeating”. Nel caso di una pandemia va esattamente così. Infatti, quello che sfugge a molti “liberali”, e soprattutto a molti “libertari”, sono due cose. La prima è che una malattia contagiosa è diversa da una malattia non contagiosa. Ciò comporta che il non seguire norme di buon senso per evitare di ammalarsi non investe negativamente solo chi le elude, ma tutti. Pertanto, le geremiadi sul paternalismo mancano il bersaglio, perché agire nella totale noncuranza del danno che si procura agli altri è esattamente una violazione del “principio di non aggressione”. Non lo dico io, lo dice John Stuart Mill. Non averlo letto è sicuramente un peccato veniale per un socialista o un fascista, ma mortale per chi si dice liberale.

Una manifestazione contro l’obbligo di Green Pass – Roma, 7 agosto (Alberto PIZZOLI / AFP)

La seconda cosa che molti libertari distratti non tengono in conto è che la salute si sta sempre più configurando come un bene comune. Gli economisti tendono a classificare i beni privati, comuni e pubblici sulla base dell’intensità con cui posseggono due caratteristiche: l’escludibilità e la rivalità. Un bene è escludibile quando è possibile escludere gli altri dal suo godimento. E’ il caso di una casa di proprietà. I beni sono invece rivali quando il godimento di qualcuno li consuma e ne impedisce l’analogo godimento per altri. E’ il caso, per esempio, di una pizza. Si definiscono quindi beni privati quelli che presentano escludibilità e rivalità, e beni pubblici quelli che mancano tanto di escludibilità quanto di rivalità. Per esempio, non si può impedire a chi si trova in prossimità del lampione di godere della sua luce (non escludibilità) e chi la sfrutta non la consuma impedendo ad altri di goderne (non rivalità). Ciò ne fa un bene pubblico. A metà tra i beni pubblici e quelli privati, troviamo i beni comuni, quei beni, cioè, che sono, non-escludibili, ma rivali. L’acqua e l’intero ecosistema sono un bene comune. Non possiamo esserne esclusi, l’utilizzo li consuma e i danni subiti da questi beni hanno ripercussioni su tutti. Ciò chiarito, si capisce che durante una pandemia la salute sta assumendo le sembianze di un bene comune anomalo. Infatti, se in tempi normali la salute è un fatto privato, in una pandemia è un fatto sociale, perché ogni azione (o non azione) di qualcuno ha effetti sugli altri. Non possiamo essere volontariamente esclusi dall’immunità di gregge e, nei paesi ad elevato welfare state, non possiamo essere neppure esclusi dalle cure. Le risorse, però, sono limitate e quindi si tratta di un bene con caratteristiche di rivalità.

E’ allora paradossale che proprio l’autore dell’etica della scialuppa, Garrett Hardin, ci avesse avvertito della tragedia dei beni comuni. Nel suo famoso articolo su “Science” nel 1968, proprio questo autore venerato dalla cultura di riferimento dei libertari aveva evidenziato come chi utilizza un bene comune, come un terreno, tenda a massimizzare il proprio beneficio scaricando i costi sugli altri. Egli faceva l’esempio di un terreno sul quale gli allevatori portano al pascolo il bestiame. Ogni allevatore cerca di portare il maggior numero di capi di bestiame al giorno in modo da sfruttare al massimo la risorsa. Ciò comporta alti benefici e bassi costi. Se però tutti gli allevatori usano questa strategia, nel giro di poco tempo si determinerà un sovrasfruttamento e la distruzione della risorsa stessa. E’ il tipico caso della scelta ottimale dal punto di vista individuale ma pessima a livello collettivo. Alla fine pagano anche i singoli egoisti.

Traslando la cosa alla pandemia, date le misure di distanziamento, mascherine chirurgiche e vaccinazione (non importa ora se tali misure siano consigliate o prescritte), i non collaboranti (per tacer dei negazionisti) si comportano come gli allevatori egoisti di Hardin. Ad esempio, non vaccinarsi utilizzando l’immunità di gregge grazie al buon senso altrui significa ottenere i massimi benefici individuali facendo ricadere i costi su tutti gli altri e mettendo anche a rischio gli immunodepressi. Ciò comporterà anche un ritardo nel raggiungimento – o addirittura il non raggiungimento – dell’obiettivo dell’immunità, quindi anche del proprio vantaggio personale. Per finire, l’eventuale non collaborante che dovesse ammalarsi gravemente, andrebbe ad usufruire del bene comune della sanità, che, considerato il requisito della rivalità, è anche un bene dal cui godimento viene sottratto qualcun altro. Questo dovrebbe quindi significare che è necessario un paternale richiamo al senso di responsabilità o che lo stato deve implementare le sue disposizioni in materia con l’uso della forza? Assolutamente no, ma finiamola col nobilitare come libertarismo quella che è solo strafottenza.

 

Luigi Corvaglia è uno studioso dei rapporti fra libero arbitrio e persuasione. Fra i maggiori esperti internazionali di culti totalitari, è autore del saggio “No Guru. Le sette e I loro difensori” (2000).

  1. Non condivido affatto le considerazioni di Luigi Corvaglia che alla fine sono una forzata giustificazione morale del più bieco utilitarismo violento e opportunista a danno dei diritti nagativi altrui.
    L’episodio citato dei naufraghi cannibali, così come quello della scialuppa (tratto da un mio articolo su libplus.it), sono una giustificazione dell’omicidio per ottenere un tornaconto individuale sulla base del fatto che tale omicidio comporterebbe anche un vantaggio a terzi.
    Il comandande che decide di uccidere l’assistente perché tanto sarebbe morto lo fa per salvare la sua vita e non si pone certo il dubbio che anche l’assistente avrebbe potuto sparargli in fronte e poi cibarsi delle sue carni e magari si sarebbe ripreso.
    Se siete homo homini lupus, questa è la filosofia per voi. Se no, no.

    In tali situazioni estreme le vite non hanno un valore cumulabile, la mia conta quanto la tua e la somma di quella di tutti, e se io ti uccido per salvarmi sono un assassino e non posso sottrarmi alla giustizia nè avere alcuna clemenza. Questo vale senza dubbio per i soggetti coinvolti, ma anche per soggetti che non lo sono. Un osservatore esterno ugualmente non avrebbe il diritto di scegliere chi uccidere per salvare gli altri, non è mica Dio, sulla base di cosa mai lo potrebbe fare?

    Non c’è da sorprendersi che questo stiracchiamento morale porti alla facile giustificazione del lockdown e del vaccino obbligatorio.
    Una cosa molto pericolosa, perché la giustificazione morale di chi prende queste decisioni per il bene comune fornisce a questi individui argomenti che rischiano di rendere superficiale e approssimativa anche la valutazione utilitaristica dell’intervento, con la conseguenza che esso può facilmente essere clamorosamente dannoso.

  2. Il principio che «non possiamo essere volontariamente esclusi dall’immunità di gregge e, nei paesi ad elevato welfare state, non possiamo essere neppure esclusi dalle cure» vale anche in «tempi normali» e, secondo molti indirizzi normativi internazionali, vale anche per i Paesi più poveri, almeno come prospettiva di pratiche di sviluppo.
    Infatti la salute 1.non è un fatto privato neppure in tempi normalissimi e 2. anche in tempi di vacche grasse le risorse hanno o acquistano caratteristiche di rivalità. 3.Tuttavia la limitazione delle risorse ha anche a che vedere con la loro distribuzione ineguale.
    Sui punti 1. e 2. ci sono a dimostrarlo a)la tradizione dei diversi modelli di welfare europei, b) un numero molto grande di indirizzi normativi, convenzioni internazionali che hanno origine, non a caso, nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani che dobbiamo ricordare non è stata redatta da Paesi libertari e che teneva conto di definizioni di beni comuni un po’ diversa da quella presentata nell’articolo.
    Sul punto 3. possiamo richiamare diversi articoli di Nature e The Lancet – dal Marzo 2020 in poi- riferiti alla gestione della pandemia e anche alle scelte errate dei Paesi Eurtopei più ricchi. Si tratta di articoli scritti da scienziati che -dall’interno delle loro ricerche e periodiche valutazioni- alzano la testa, riflettono e si dimostrano sensibili alla salute come bene comune, preoccupati delle scelte spesso confuse dei governi. Non sono degli ottusi libertari.
    L’articolo presenta un ragionamento che dimentica altri punti di vista che fanno parte della “nostra” storia, ovvero delle difficili pratiche di restare aperti ad una difesa universaliste dei beni comuni, senza voler negare i dilemmi drammatici vissuti, ad esempio, dai medici nelle terapie intensive. Ma anche a Bergamo ci sono stati “eroi” che hanno affrontato dilemmi terribili come potevano e utilitaristi che hanno pensato che ragione sanitaria e ragione economica dovessero coincidere a ogni costo.

  3. la salute 1.non è un fatto privato neppure in tempi normalissimi e 2. anche in tempi di vacche grasse le risorse hanno o acquistano caratteristiche di rivalità. 3.Tuttavia la limitazione delle risorse ha anche a che vedere con la loro distribuzione ineguale.
    Sui punti 1. e 2. ci sono a dimostrarlo a)la tradizione dei diversi modelli di welfare europei, b) un numero molto grande di indirizzi normativi,convenzioni internazionali che hanno origine, non a caso nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani che dobbiamo ricordare non è stata redatta da Paesi libertari e che teneva conto di definizioni di beni comuni un po’ diversa da quella presentata nell’articolo.
    Sul punto 3. possiamo richiamare diversi articoli di Nature e The Lancet – dal Marzo 2020 in poi- riferiti alla gestione della pandemia e anche alle scelte errate dei Paesi Eurtopei più ricchi. Si tratta di articoli scritti da scienziati che -dall’interno delle loro ricerche e periodiche valutazioni- alzano la testa, riflettono e si dimostrano sensibili alla salute come bene comune, preoccupati delle scelte spesso confuse dei governi. Non sono degli ottusi libertari.
    L’articolo presenta un ragionamento che dimentica altri punti di vista che fanno parte della “nostra” storia, ovvero delle difficili pratiche di restare aperti ad una difesa universaliste dei beni comuni, senza voler negare i dilemmi drammatici vissuti, ad esempio, dai medici nelle terapie intensive. Ma anche a Bergamo ci sono stati “eroi” che hanno affrontato dilemmi terribili come potevano e utilitaristi che hanno pensato che ragione sanitaria e ragione economica dovessero coincidere a ogni costo.

    in tempi normali la salute è un fatto privato, in una pandemia è un fatto sociale, perché ogni azione (o non azione) di qualcuno ha effetti sugli altri. Non possiamo essere volontariamente esclusi dall’immunità di gregge e, nei paesi ad elevato welfare state, non possiamo essere neppure esclusi dalle cure. Le risorse, però, sono limitate e quindi si tratta di un bene con caratteristiche di rivalità.

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