Svecchiamo mamma Rai. Idee per
un servizio pubblico nell’era digitale

Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore Domenica, del 5 ottobre 2014.

In primavera il governo Renzi disponeva un improvviso robusto taglio di 150 milioni per la Rai. Ne nasceva una polemica – verrebbe da dire la solita polemica – tra chi inneggiava al vivace politico rottamatore e chi biasimava il suo decisionismo improvvisato.
A noi, più che stigmatizzare o celebrare il carattere del nuovo leader, interessa l’oggetto delle sue attenzioni: quella che una volta era considerata la maggior azienda culturale del Paese.

E ciò poiché le risposte alle domande su come e dove “tagliare” i finanziamenti dipendono assai da quale idea di azienda televisiva il governo voglia sposare. Le opzioni ci paiono due: rimane tutto com’è, con una Rai solo un po’ più povera e quindi ancor più dipendente da chi la finanza, oppure – facciamoci contagiare dall’ottimismo del capo dell’esecutivo – osiamo pensare che la nuova amministrazione cerchi di rendere la Rai davvero un servizio pubblico, come avrebbe dovuto essere da sempre.

Ma non anticipiamo le conclusioni. Per capire, come spesso accade, è necessario fare un po’ di storia.
Sessant’anni fa iniziava la regolare programmazione televisiva, evento celebrato con pubblicazioni, trasmissioni e un profluvio di filmati d’epoca. Ma trent’anni dopo accadeva un altro fatto che, nel giornalismo italiano ossessionato dalle ricorrenze, non dovrebbe passare sotto silenzio, trattandosi di un evento fondativo della più recente storia della Repubblica. Il 6 dicembre 1984, un decreto legge del governo Craxi evitava l’oscuramento delle tre reti del gruppo Fininvest. Quasi a compensare il monopolio nelle televisioni commerciali che si andava a determinare, con tale provvedimento fu portata a termine la politica di spartizione dell’emittente pubblica iniziata nel decennio precedente. Alla DC fu attribuita la potente direzione generale e la prima rete, al PSI la seconda e al PCI Raitre, abbandonando il progetto di un canale a vocazione culturale e regionale.

Il decreto fu annunciato come provvisorio, in attesa di una legge che avrebbe dovuto introdurre seri limiti antitrust e garantire autonomia e pluralismo nel servizio pubblico radiotelevisivo. Ma in Italia, come scriveva Flaiano, niente è più definitivo del provvisorio.

E infatti, altre tre decadi, qualche legge e molta tecnologia più tardi, la televisione generalista italiana assomiglia ancora molto a quella fotografia ormai sfocata. La conferma viene dai dati della relazione AGCOM 2014 su consumo televisivo, audience e raccolta pubblicitaria. Questi mostrano anzitutto la particolare forza di penetrazione delle emittenti in chiaro (seguite dal 95% della popolazione, laddove internet raggiunge “solo” il 55%), che, per più della metà degli italiani, resta l’unico mezzo per informarsi. Il mercato è sempre caratterizzato da un elevato e durevole livello di concentrazione e il gruppo Mediaset incamera ben più della metà dei ricavi pubblicitari.

Per questo è non solo opportuno ma indispensabile occuparsi ancora della regolamentazione di questo mezzo, che con troppa fretta è stato ritenuto un ferrovecchio destinato a fare compagnia a fax e macchine da scrivere nelle bancarelle di modernariato.

Tornando alla Rai, non c’è bisogno di essere un commentatore specializzato per notare come sia tutt’ora organizzata secondo regole sorte nelle temperie di decenni orsono, negli anni settanta e ottanta. Presidente, consiglieri di amministrazione e direttore generale sono di stretta derivazione politica, scelti dalla Commissione parlamentare di vigilanza se non persino dal Governo. Addirittura, seguendo un’analisi forse un po’ rozza ma non lontana dalla realtà, sembra persistere ancora la storica inclinazione delle varie reti, figlia di una stagione politica del passato remoto: Raiuno governativa, Raidue più orientata a destra, Raitre a sinistra. Ma soprattutto, non si è ancora deciso cosa l’intera azienda farà “da grande”, nel contesto digitale: se manterrà l’odierna natura ibrida, in parte commerciale, in parte servizio pubblico, o se virerà con decisione verso l’uno o verso l’altro impianto.

E allora riformare la Rai, come si dovrebbe fare, prima ancora di sottoporla a una mirata cura dimagrante, significa sradicare le regole fissate dalla legge Gasparri sulla nomina del cda (che ha perfezionato la tecnica della lottizzazione, distribuendo scientificamente i posti tra governo, maggioranza e minoranza), ma prima ancora un equilibrio immutato da troppi lustri, che è sopravvissuto a svariati e notevoli cambiamenti politici e tecnologici, senza giovare all’economia e soprattutto alla cultura di questo paese.

Per venire al punto, ecco dove batte il cuore del problema: nell’era digitale, serve ancora la Rai? In altri termini, vale la pena mantenere un servizio pubblico, ove l’editore è lo Stato, finanziato principalmente attraverso il canone?

Dare un’occhiata a quel che succede intorno a noi, non è mai sbagliato. Se il legislatore per una volta alzasse la testa e osservasse con interesse sincero cosa sta accadendo al di là delle Alpi, si accorgerebbe che negli Stati più simili al nostro il servizio pubblico gioca ancora un ruolo assai rilevante, a condizione di accentuare la diversità dalle reti commerciali e rafforzare l’autonomia dal potere politico e dalle “leggi del mercato”. Così, Spagna e Francia si sono mosse verso media pubblici caratterizzati dall’assenza di pubblicità e da un rafforzamento dell’indipendenza dal potere politico. La stessa BBC, tuttora modello di buona televisione nel mondo, ha faticosamente ridefinito la propria legittimazione e il proprio ruolo, assumendo una posizione di avanguardia nella sperimentazione delle tecnologie trasmissive e nello sviluppo delle nuove piattaforme e al contempo aumentando le distanze da governo e politica.

In un sistema come il nostro, il modello si potrebbe senz’altro replicare. Ma, tenuto conto delle peculiarità nostrane, quali cambiamenti sono necessari per andare nella direzione indicata? Certamente è necessario uno sforzo di fantasia maggiore di quello mostrato dal Parlamento in occasione della riforma del Senato votata all’inizio di agosto.

È necessario, infatti, avere il coraggio di operare una cesura con il potere politico e recuperare quell’idea del coinvolgimento delle competenze di alto livello che avevamo sperato caratterizzasse il nuovo Senato. Occorre, cioè, interessare al governo dell’emittente pubblica i saperi provenienti dall’università, dalle istituzioni della società civile, dall’impresa, dalla scienza, dalle professioni, dai giornalisti medesimi o dagli stessi lavoratori Rai, i quali avrebbero il compito di individuare gli amministratori e garantire il rispetto degli obblighi di servizio pubblico.

Molte altre idee possono nascere: un legislatore risoluto ben potrebbe distinguere tra un soggetto finanziato dal solo canone, e un soggetto destinato a competere ad armi pari sul mercato, senza limiti alla raccolta pubblicitaria e con la possibilità di entrare nel mondo della televisione pay.

In ogni caso, serve il coraggio di intaccare un modello immutato da troppo tempo, con i due broadcasters italiani che difendono gelosamente i propri spazi nella televisione in chiaro e con programmi di qualità sempre più riservati agli abbonati alla televisione a pagamento. Altrimenti, per i prossimi trent’anni saremo ancora costretti a fischiettare malinconicamente un vecchio motivetto di Arbore – Boncompagni: no, non è la BBC, questa è la Rai, la Rai-Tv…

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