Perché le elezioni fanno guardare più tv e vendere meno libri

Non appena il Pdl ha tolto la fiducia al governo e Mario Monti ha vacillato, per gli editori di libri è suonato un drammatico campanello d’allarme. «Comincia la campagna elettorale» si son detti allargando le braccia. Per le vendite dei libri non è un buon segnale. Dopo un lungo periodo negativo, gli editori avevano appena potuto sperare in un lieve incremento, una piccola inversione di tendenza che non vedevano da tempo: all’orizzonte ci sono le feste di Natale e, nonostante la crisi economica, si potrebbe auspicare un trascinamento delle vendite di libri. Un presente che fa sempre piacere ricevere e donare. Invece… Già, perché secondo una vulgata che però non ha riscontri oggettivi e scientifici, né ricerche e indagini di mercato specifiche, elezioni e periodo della campagna elettorale – tantopiù se all’arma bianca – non fanno bene ai libri e alle vendite. Si legge poco e, se possibile, anche meno del solito. Anzi, crollano i lettori tradizionali.

Ida Meneghello, capoufficio stampa de Il Mulino, non lo sa spiegare con precisione, ma sa che in ogni caso è così, tanto da aver suggerito a un istituto di ricerca bolognese di politica-sociale di avviare un’indagine ad hoc in materia per misurare, spiegare e dare oggettività alla flessione. Alberto Galla, industriale vicentino e nuovo presidente dell’Ali, l’associazione dei librai, prova a spiegarla così: «Quando ci sono particolari eventi mediatici il pubblico tende in genere a distrarsi, parlare d’altro. Si è già verificato in passato. Il mercato del libro un tempo era anticiclico, aveva un suo trend senza particolari scossoni, ma ora è diventato anch’esso ciclico. Non ho idea se l’omologazione del mercato del libro possa essere equiparata a tutta la filiera del mercato in generale, ma quel che è certo è che la campagna elettorale finisce per distrarre, distogliere l’attenzione dalla lettura dei libri. Forse perché si leggono maggiormente i quotidiani e l’attualità obnubila le menti. Oppure si seguono di più i talk show… Il fatto è che il libro è uno strumento così fragile che anche uno stormir di fronda provoca ripercussioni sensibili…».

Filiberto Zovico, direttore del marketing della Marsilio, dice che di sicuro «la maggiore attenzione dedicata ai quotidiani e a Internet riduce i tempi di lettura dei libri, anche se in proposito dati scientifici non ve ne sono a supporto di quella che resta solo un’impressione o un’intuizione. Se però il presupposto da cui si parte, e cioè che le campagne elettorali danneggiano il mercato editoriale, si dimostrasse vero, forse questo sarebbe un buon pretesto per abolire la democrazia in questo Paese…» aggiunge con una battuta degna dei tempi politici che corrono.

Certamente i dati andrebbero rilevati di anno in anno e dovrebbero essere anche depurati da alcune crisi, contingenti o strutturali che siano, a seconda dei periodi. Un lavoro lungo, difficile. Ciò che comunque resta è che le elezioni hanno impatti diversi sui media e anche sulla loro stessa economia. Per dirne una: da sempre a trarre maggior vantaggio dai periodi elettorali sono i quotidiani, che aumentano sensibilmente vendite, diffusione, tiratura. «Anche perché c’è un oggettivo beneficio in termini di notizie» sottolinea Stefano Mignanego, direttore delle Relazioni esterne del Gruppo Espresso, che aggiunge: «Tuttavia, se in questo periodo le vendite aumentano, non aumenta in modo proporzionale la pubblicità. In campagna elettorale gli investitori pubblicitari fanno meno inserzioni, sono più guardinghi. Aspettano. Tendono, complessivamente, a contrarre un po’ le proprie uscite…».

Ogni media è a sé. Se ci si attiene alla tv, per esempio, Francesco Siliato, analista di contenuti televisivi e di flussi d’ascolto, titolare dello Studio Frasi di Milano e docente universitario in materia, è portato ad affermare che quello attuale, «è un periodo in cui di tv se ne consuma abbastanza. Non foss’altro perché è inverno e si sta più in casa. Il periodo elettorale non significa nulla… Rispetto a un anno fa, quando la tv era in crisi d’ascolti, oggi il pubblico cresce, c’è più attenzione in genere, tanto che il totale dell’audience aumenta. Ci si ferma su Ballarò al posto di un film per esempio. E poi con la crisi la gente consuma più tv. Un anno fa anche i talk show erano in crisi, poi con le dimissioni del governo Berlusconi il dato della tv si è ribaltato. Oramai Ballarò arriva a fare e talvolta anche superare i 5 milioni di telespettatori… E molto influiscono anche i nuovi media come i social network: Twitter ha per esempio un benefico effetto sulla tv, ha ridato voglia alle persone di esserci, partecipare. In una parola ha ridato voce alla tv e alla voglia di guardarla. Ci si scambia twitt anche solo per criticarla. Durante i programmi è tutto un “cinguettio”, dialoghi incrociati, con persone che magari non erano davanti allo schermo in quel preciso momento e invece sulla base dei twitt decidono di mettercisi, di sintonizzarsi per seguire il programma o l’evento. Twitter diventa uno strumento di commento “in presa diretta”, mentre i fatti accadono, gli avvenimenti sono in pieno svolgimento. Basti pensare a cosa è accaduto durante le primarie del Pd: è nato persino l’hastag, #csx». A differenza del libro, in questo caso la tv e i social network diventano centrali in campagna elettorale. Le nuove tecnologie fanno bene anche alla radio, pubblica o privata che sia: basti pensare all’uso del podcast e alla possibilità di riascoltare i programmi quando più pare e piace.

Tant’è che nel suo ultimo Rapporto dedicato a “comunicazione e media”, il Censis afferma che gli unici mezzi che riscuotono un successo crescente «sono quelli che integrano le funzioni dei vecchi media nell’ambiente di Internet, come gli smartphone e i tablet» mentre prosegue l’emorragia di lettori e acquirenti della carta stampata (-2,3% tra 2011 e 2012: erano il 67% degli italiani cinque anni fa, sono diventati oggi solo il 45,5%).

Le elezioni, invece, hanno effetti altalenanti sulla Borsa. L’addio di Monti ha subito avuto una ricaduta sui mercati azionari, freddandoli. Se il 5 dicembre Berlusconi avanza l’idea di candidarsi nuovamente per Palazzo Chigi, il 6 Monti sembra essere arrivato a un passo dalla crisi. Il 7 Alfano con il discorso alla Camera mette fine all’esperienza del “governo dei tecnici”, l’8 il premier dice al capo dello Stato di volersi dimettere, il 10 le Borse reagiscono negativamente e l’11 – infine – l’Europa boccia l’offensiva Berlusconi e il conseguente licenziamento di Monti. Il 10 dicembre, però, l’unico titolo in controtendenza è quello Mediaset (+1,8%) tanto da ridurre addirittura il collasso di Piazza Affari e attutirne la caduta fino a “solo” un -2%. Certo la Borsa non vive una stagione felice, ormai dalla crisi del 2001, prima, legata allo scoppio della bolla speculativa e al crollo delle Twin Towers a New York, e poi al raffreddamento dell’economia a partire dal 2008.

Da allora anche la pubblicità, legata al calo dei consumi, è entrata in una vorticosa spirale negativa. Oggi sul piano internazionale l’unico settore a registrare il segno “più” è quello legato a Internet, mentre il complesso del mercato pubblicitario italiano resta un malato cronico.

In Italia, nonostante la crescita complessiva, il peso di Internet è inferiore rispetto agli altri Paesi. Dal 2005 al 2009 la quota del web nel mercato pubblicitario è salita dall’1,6% al 9,3. Negli Usa, tre anni fa, il settore valeva già il 13,7% mentre nel Regno Unito addirittura il 26,7. La televisione mantiene la leadership quasi ovunque, pur perdendo terreno come i quotidiani: in Italia il piccolo schermo raccoglieva il 49,5% degli introiti complessivi nel 2005, contro il 46% del 2009. I quotidiani sono passati invece dal 19,9 del 2005 al 17,2 del 2009. Leader incontrastata del mercato, manco a dirlo, resta Mediaset con una quota del 36% nel 2010 davanti a Rai con 13,8, Rcs Mediagroup con il 5,1, il Gruppo Editoriale L’Espresso al 4,9. Quinto operatore è Google, che ha ormai superato News Corporation, Telecom Italia e Confindustria-Il Sole 24 Ore. Tanto che l’Agcom denuncia che «restano distorsioni nel funzionamento del mercato pubblicitario» e «il recente sviluppo dei servizi di media auting, attività nata per alleviare gli effetti di questi fallimenti di mercato, non appare in grado, di per sé, di riportare il sistema verso un esito efficiente del mercato».

Secondo gli analisti e le loro proiezioni, dal 2013 il mercato televisivo dovrebbe conoscere una lieve ripresa, più consistente a partire dal 2014: nel complesso dovrebbe crescere dell’1,8% tra la fine di questo 2012 e il 2014 (fonte: Rapporto It-Media Consulting pubblicato lo scorso 4 dicembre) senza però raggiungere i livelli del 2011 e lasciando a terra mediamente lo 0,6% al lordo dell’inflazione. Il 2012 segna però anche una svolta nella televisione nostrana, perché alla pesante crisi del settore pubblicitario si aggiunge per la prima volta un calo delle risorse pay, che hanno costituito il motore della crescita dell’ultimo decennio. Il risultato di questi fattori è una perdita secca del 5,2% dell’intero mercato tra il 2011 e il 2012, che in termini assoluti significa quasi 500 milioni. La crisi della pubblicità ha penalizzato soprattutto Mediaset e Rai, che alla fine dell’anno in corso fanno registrare una perdita a doppia cifra, superiore a quella dell’intero mercato mentre tengono Sky e Telecom Italia. Mediaset, Rai e Sky si spartiscono il 93% del mercato complessivo della pubblicità (il “rosso” della Rai ha intanto raggiunto nei primi nove mesi dell’anno in corso quota 184,5 milioni e la flessione della pubblicità è del 23%: -72 milioni solo nel primo semestre. La7 nei primi otto mesi del 2012 ha invece registrato un +11%. In generale sono in difficoltà le reti generaliste, mentre crescono canali specializzati e web).

Elezioni o meno, il 2012 è stato del resto l’anno nero della pubblicità. Anche il New York Times ha chiuso per esempio il terzo trimestre con un utile netto in calo dell’85% a 2,3 milioni di dollari o 2 cent per azione, a fronte dei 15,7 milioni di dollari o, se si preferisce, 10 cent per azione, dello stesso periodo dell’anno precedente, il 2011. E per la prima volta il quotidiano americano ha guadagnato più dai lettori che dalla pubblicità, crollata come dimostrano le perdite del gruppo. In Italia non va meglio: nella rubrica “Dagoreport” del sito Dagospia diretto da Roberto D’Agostino, solo pochi giorni prima di Natale si poteva leggere che la situazione dei ricavi è talmente nera che il quotidiano di Torino La Stampa dovrà correre ai ripari «e buttare a mare 32 giornalisti per alleggerire un deficit di 25 milioni» mentre a via Solferino, sede milanese del Corriere della Sera, «parlano di un piano di “ristrutturazione” che coinvolgerebbe 100 giornalisti e addirittura 400 poligrafici» mentre sembra essere fallito l’accordo tra la Repubblica e il Corriere di chiudere l’ultima edizione del giornale entro le 23.00, senza più fare ribattute nella notte, al fine di contenere i gravosi costi redazionali e tipografici notturni. Il declino dei giornali è progressivo quanto inevitabile. Qualche parametro? Se nel 1994 le vendite dei quotidiani sono diminuite del 4,1 rispetto al 1992, attestandosi sui 5.893.488 copie contro i 6.145.704 copie del 1992, oggi le vendite complessive dei quotidiani si sono attestate sotto i 4 milioni di copie giornaliere. E molte testate sono ormai palesemente a rischio di chiusura.

La crisi dell’editoria è un affaire globale, che coinvolge paesi a tradizione forte nel settore, come in Francia, Inghilterra, Germania e persino la piccola Svizzera. La causa principale è sempre la crisi della pubblicità. Basti pensare che in un Paese come la Spagna in quattro anni hanno sospeso la pubblicazione 57 testate, tra cui Publico e free press come Metro e Qué, e quasi 6.500 giornalisti sono stati lasciati a casa (146 solo a El Pais, 130 al Mundo).

«Con un Paese che soffre, è naturale che anche il libro soffra. Ora confidiamo nel Natale» ha auspicato ai primi di dicembre Marco Polillo, il presidente dell’Aie, l’Associazone italiana editori intervenendo alle giornate della Piccola e Media Editoria che si sono tenute a Roma. «Quest’anno è stato davvero un naufragio e qualcosa si sta muovendo solo ora, proprio sotto Natale» dice Giorgio Razzoli della Libreria Bastogi nel centralissimo Corso Italia di Orbetello. «Una piccola effervescenza c’è. Io non credo però che la campagna elettorale possa influenzare negativamente sul libro, secondo me influiscono di più certe condizioni climatiche, se piove, fa freddo o c’è il sole e, in generale, è determinante la crisi economica attuale. Penso invece che le elezioni, il dibattito che c’è intorno, persino gli scontri politici abbiano invece una ricaduta positiva. Se uno vuole approfondire si può sempre orientare su certi saggi o su alcuni libri di politica, le questioni non mancano e anche i titoli per poterle affrontare e soddisfare». «Questa storia del rapporto negativo elezioni-libri effettivamente circola da un po’. Che però abbia dei riscontri oggettivi non è semplice poterlo stabilire. È più che altro una vulgata» afferma Nicola Attadio, responsabile dell’ufficio stampa Laterza. «Si può dire che in campagna elettorale una certa maggiore attenzione all’informazione quotidiana e all’attualità toglie qualche lettore al libro, ma non è nulla di così diverso di quando si tengono i Mondiali di calcio… L’attenzione del telespettatore si orienta prevalentemente sul piccolo schermo. E così pure quella del lettore. Poi c’è da dire che oggi il mercato editoriale è talmente in crisi che non penso che la campagna elettorale possa incidere più di tanto. Peggio di così… In questi anni, poi, il pubblico è cambiato moltissimo, una mutazione quasi antropologica». Mutazione dovuta, forse, anche alla mutazione dei “mezzi” di diffusione e lettura, come gli e-book. Lettori, elettori oppure e-lettori?

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