Parisi e Salvati: ragioniamo sul Pd
Ora la chance è Renzi

Tre milioni e mezzo di voti persi alle ultime politiche e passati in parte a Grillo o parcheggiati nell’astensione. O transitati e dispersi altrove. Amministrative di maggio e ballottaggi di giugno vinti ovunque, 17 a zero, ma un po’ come nella “gara dei gamberi”. Indietreggiando. Il Pd non sfonda affatto, ma dove sta andando? La sinistra complessivamente non cresce, semmai arretra. Possiede ancora una sua capacità aggregante ed espansiva? E se sì, in che direzione? Con quali politiche, su quale linea e con quali alleanze? Razzolando sempre dentro il proprio ristretto orticello e recinto oppure pensando di guardare fuori e oltre da sé?

Sono le domande che incombono in questi giorni e settimane sul futuro del Partito Democratico. Al di là e ben oltre le correnti. I personalismi. I leaderismi (anche se un leader è comunque necessario), al di là dell’apparato e del suo mantenimento, delle primarie e dei riflessi che queste potrebbe avere o meno sul governo. Del segretario-segretario o del segretario pure premier. Delle regole, che sono sempre necessarie. Perché si deve vivere e agire in punta di diritto. E degli sbarramenti o dei veti. Insomma, se non direttamente di mietere iscritti, il Pd è ancora in grado di fare proseliti?

Domande, soprattutto. Tante. Alle quali si cercano risposte. Ma l’impressione è che, comunque la si metta, quando si affrontano i nodi, e questi vengono al pettine, quel che prevale è la minaccia della scissione, della separazione, dei distinguo, dei puntini di ciascuno sulle proprie “i”. Cosicché il partito non va da nessuna parte. Si paralizza tra gli opposti schieramenti. Renziani o bersaniani?, se va bene. Con tutte le sotto-ricadute.
Ma gli estremi appaiono ormai questi. Ciò che rischia di acuire le differenze in una eterna e insanabile querelle interna, estenuante quanto divisiva. Come si fa ad andare oltre il proprio confine?

«Credo che innanzitutto vada verificata la proposizione di partenza che individua come riferimenti della dialettica interna al Pd Bersani e Renzi, e subito dopo l’idea che i due “capi” rappresentino la riproposizione della stessa “eterna querelle”» interloquisce il professor Arturo Parisi, già ministro della Difesa tra i 2006 e il 2008 nel secondo governo Prodi, tra i promotori del Movimento per le Riforme istituzionali, ideatore dell’Ulivo, uno dei padri fondatori del Partito democratico. «Se Renzi deve ancora svolgere compiutamente la proposta che nelle ultime primarie ha appena abbozzato – prosegue il professore di sociologia –, Bersani ha invece a mio parere portato a termine la sua parabola. Questo non significa che non abbia più nulla da dire. Ma che il suo futuro non può in alcun modo rappresentare una continuazione del suo recente passato. Bersani deve riuscire cioè a mettere un punto e andare a capo muovendo da una riflessione sulla grave sconfitta alla quale ha associato il suo nome. Quel punto che avrebbe dovuto mettere nei cinque minuti successivi alla presa d’atto dei risultati e che purtroppo per noi non ha messo. Quanto al fatto che la dialettica Renzi-Bersani possa esser letta come una riproposizione di “quella di sempre”, andrebbe chiarito in che cosa questa consista: partito-movimento? Democrazia competitiva-democrazia consociativa? Destra-sinistra? Persona-collettivo? Nuovisti-continuisti? Ex dc-ex pci? Coalizione ulivista-cartello di partiti?

Per quel che riguarda infine la conquista di nuovi consensi, mi sembra che la domanda supponga che l’allargamento esterno sia inversamente proporzionale alla manifestazione di divergenze interne. In una democrazia competitiva fondata sulla concorrenza bipolare, quale la nostra già è in parte e soprattutto è chiamata ad essere, la competizione esterna presuppone e si nutre invece, a mio parere, della competizione interna. Naturalmente è necessario che questo avvenga in un quadro unitario. Ma la possibilità di conquistare voti del campo avverso è tanto più probabile quanto più l’elettore del centrodestra vede già rappresentate almeno parte delle sue ragioni nella competizione interna al centrosinistra».

Il professor Michele Salvati, docente di economia politica, editorialista del Corriere della sera e anche il primo intellettuale organico a teorizzare la nascita del Partito Democratico come una formazione in grado di riunire in un unico soggetto di centrosinistra il riformismo cattolico e quello socialdemocratico, prende le mosse un po’ dalle origini per dire che il Pd, appunto, «è nato tardi, in condizioni di emergenza, in una situazione in cui si capiva che il governo Prodi del ’96 non funzionava, che probabilmente sarebbe caduto e le elezioni sarebbero state imminenti». «In questo caso – prosegue – sarebbe stato indispensabile presentarsi con questa nuova denominazione che staccasse anche il nuovo Pd, la cosa che sarebbe diventata Pd, dall’alleanza che non stava funzionando a livello di governo. È nato tardi e in quelle circostanze. Doveva in verità nascere molto prima: del Pd si parla da moltissimo tempo, se ne parla almeno dagli inizi degli anni Novanta, da dopo la prima sconfitta, da dopo l’Ulivo. Con alcuni si pensava, io tra quelli, ma anche sul lato dei Popolari, Nino Andreatta soprattutto, si pensava che l’esperimento si sarebbe dovuto coagulare in un nuovo partito. Allora salta fuori questa idea di trasformare l’Ulivo in Partito e questa ipotesi aveva delle obiezioni: in particolare, al tempo della la presidenza del Consiglio D’Alema esisteva questa antinomia, Ulivo contro Partito di tipo socialdemocratico».

Poi arrivò la sconfitta, ricostruisce Salvati, «e quello fu il momento in cui si doveva rilanciare l’Ulivo pensando a un partito che facesse un’operazione complessa, difficile, ma per molti necessaria: cioè l’operazione di mettere insieme un quadro politico di sinistra, della sinistra che c’era allora – ci sarebbero dovuti stare anche i socialisti, in realtà, ma poi per varie vicende interessanti in cui non mi addentro in questo contesto, la cosa non si fece –: allora il contrasto fu tra coloro che pensarono alla sufficienza dell’ipotesi socialdemocratica con, a questo punto – visto che i socialisti non ci stavano – i socialdemocratici che erano in realtà la vecchia Fgci comunista. Questa fu una delle tante ragioni per cui la cosa non poteva funzionare, perché non era un Partito socialista, non lo avemmo mai veramente; quel che avemmo fu invece un partito che era stato distrutto e molti socialisti ritenevano anche ad opera dell’ostilità dei comunisti. Questa in realtà è una lunga e complicata storia e non ci voglio entrare».

Le ultime elezioni, facciamo presente, hanno dimostrato che elettoralmente non c’è domanda e mercato di “più sinistra”. Anzi. Da Ingroia a Vendola il contesto è questo. Però ogni volta che qualcuno si pone l’obiettivo di allargare il consenso non necessariamente “a sinistra” il Pd entra in fibrillazione. Allora la domanda è questa: un Pd capace di conquistare lo spazio politico vincente, di andare oltre se stesso, uscire dai propri confini, è comunque destinato a spaccarsi? A non riuscire più a tenere più insieme le sue anime e componenti? Come ovviare a questo continuo rischio di scissione, che finisce di diventare la classica spada di Damocle che paralizza il partito, la sua dialettica interna e delle idee, la sua azione politica e programmatica?

«Fibrillazione è la parola giusta – osserva Parisi –, se la usiamo per quello che significa nel linguaggio comune: “agitazione”, “nervosismo”. Starei invece attento a leggerla come annuncio di “spaccature”. Se la dialettica tra le diverse posizioni è all’esterno sopravvalutata, oltre che per il comprensibile interesse della stampa per la patologia, è per la sopravvivenza nella cultura politica di una idea dei partiti derivata dalla stagione della legge proporzionale, nella quale la quantità inevitabilmente parziale di ogni porzione, era associata alla aspirazione ad una riconoscibile qualità, cioè ad una distinta identità partitica percepibile in contrapposizione alle altre e fondata su una omogeneità interna. La competizione bipolare chiede invece ad ognuno dei due soggetti di rivolgersi all’esterno a tutti – questo significa appunto catch-all party – e quindi aprirsi a tutti all’interno. La maggiore quantità di voti necessari per la vittoria è pagata dalla disponibilità a sopportare una minore qualità interna. Prima si compirà il processo di cambiamento verso la democrazia competitiva e maggioritaria e prima la fibrillazione sarà compresa per quello che è: agitazione fisiologica in vista della gara. Fino a quando sopravviveranno invece logiche e regole proporzionali, ogni tensione e divergenza continuerà ad essere un “oh! dio mio, un’altra scissione!”».

«Da parte mia sono convinto che il momento alto fu quello al Lingotto con Veltroni» si inserisce a questo punto del ragionamento il professor Salvati. «Poi non si continuò – prosegue – perché lo stesso Veltroni sbagliò, mettendosi in una posizione che lo rendeva minoritario rispetto a una condizione della componente più tradizionale e che poi si stabilizzò con Bersani. Detto questo – aggiunge il docente di economia politica – la componente bersaniana ha vinto, ma tutto questo avveniva in un contesto di lotta politica e in un contesto in cui questi problemi profondi erano per così dire attenuati o comunque ridotti o comunque non considerati per il fatto che l’”eccezione berlusconiana” permetteva di non andare a fondo delle cose. Non dimentichiamo che Berlusconi fu un’incredibile collante, semplice, di tutte le possibili sinistre. Grosso modo bastava essere antiberlusconiano per trovare un’identità della sinistra. Ed è stato sbagliatissimo, perché questo atteggiamento ha finito per snaturare anche la sinistra stessa. Il guasto provocato da Berlusconi sa qual è? Non è stato tanto quel che ha fatto – per carità, pure quel che ha fatto!, anche se i danni per l’economia del Paese erano stati compiuti ben prima di Berlusconi – quanto il fatto che lui è stato una scusa facile per la sinistra per non riuscire trovare una propria identità adatta al XXI secolo. Una scusa meravigliosa, un pretesto eccezionale per non andare a fondo ai propria problemi. È la frase chiave che io sottolineerei. Perché una fetta consistente della sinistra si è schierata sulle bandiere e le posizioni di Libertà e Giustizia, di MicroMega, de la Repubblica, che per carità ha varie voci ma questa è quella predominante, ma s’è schiacciata su questo come se ciò fosse sufficiente a risolvere i suoi problemi di identità. No, non era sufficiente a risolverli. Questo è il mio assunto».

Professor Salvati, ma come fa il Pd a questo punto ad allargare il consenso? Dandosi un leader capace di parlare ai più, magari anche nel campo avverso? Bersani non ha sfondato, non s’è allargato a sinistra ma ha perso verso Grillo e quella parte che apparentemente si presentava come la sua sinistra. Non ha preso al centro, non ha rosicchiato un solo voto a destra. Però quando si tratta di discutere come, dove, verso chi allargare il consenso nel Pd nascono i distinguo, il partito entra in fibrillazione e si minacciano spaccature, perdite di pezzi. Insomma, un Pd immobile, impossibilitato a scegliere non è un po’ condannato a restare sempre al palo fino all’estinzione?
«Sì, vero, Bersani non ha sfondato» chiosa Salvati. «E non è nemmeno riuscito ad allargare il plafond dei consensi. Quel che è avvenuto invece è un’altra cosa. Sfondare nel campo avverso significa conquistare pezzi di centro o di destra, ciò non è avvenuto. Prima di tutto perché il centro ha trovato un suo campione in Monti, che ha consensi limitati, però con una grande porta di sbarramento. Di lì non passi, specie con un’operazione tentata da Bersani di sinistra che non è passata perché il discorso politico italiano per la prima volta in maniera così secca e netta non si è disposto soltanto sull’asse-destra, centro, sinistra, ma per così dire ha trovato una spaccatura verticale. Meglio, un asse verticale tra coloro i quali si collocano su quella linea in modo ragionevole e quelli che sono invece su principi radicali. Ovvero, si trovano su un asse di rifiuto totale del sistema.

Quindi, il tentativo di sfondamento a sinistra operato da Bersani – analizza ancora il professor Salvati – si è scontrato con una ben più forte emersione di un nuovo asse di coloro i quali rifiutano il principio destra-sinistra e sono per la distruzione dei partiti esistenti. Grillo, per intenderci.

Questo modo di ragionare ha fatto sì che da un lato abbia finito per sconfiggere Bersani nelle sue pretese di allargamento, dall’altro ha dato l’illusione a Bersani stesso che all’interno dell’enorme successo di Grillo ci fossero moltissime truppe per dar vita e costruire una sinistra vera, una sinistra di stampo antiberlusconiano fatta degli “smacchiatori del leopardo”, che lui sognava.

Qual è oggi la situazione in cui versa il partito democratico? «È una situazione molto, molto difficile» sospira il professor Salvati, che subito dopo aggiunge: «La mia impressione è che grosso modo ci sono varie linee per costituire il partito, tra cui una molto bella ma in parte anche utopistica se non illusoria, che è quella del ministro Fabrizio Barca. Per carità, va benissimo, la persegua, perché io credo che il partito debba rimanere e in realtà sviluppare una “rete di ascolto dal basso” come quella da lui prospettata. Ma in realtà il Pd così com’è, e di fronte al disprezzo che sale da vari segmenti della società verso i partiti, ha bisogno di un grande comunicatore. E l’unico grande comunicatore che noi abbiamo credo sia Renzi. Perciò ho l’impressione che in qualche modo il partito dovrebbe rendersi meglio conto che Renzi è l’ultima chance o comunque la più importante chance che ha. E non dovrebbe boicottarlo più di tanto. Renzi viene da una delle tradizioni del partito, di origine cattolica, ha dimostrato doti straordinarie di comunicatore, ha dimostrato lealtà, soprattutto una notevole lealtà. Cosa vogliono di più vivaddio!?

Quando lui avrebbe potuto benissimo presentarsi con una lista sua e in queste ultime elezioni avrebbe provocato uno sconquasso. Così come Sel è stata coinvolta da Bersani nell’operazione “smacchiare il leopardo”, Renzi avrebbe potuto benissimo presentarsi con una sua lista legata alla sinistra, al Pd, ma non l’ha fatto, anche se avrebbe avuto un notevole successo e avrebbe spolpato ulteriormente il Pd, ma di molto. Ha invece deciso di restare all’interno del Pd. Se lui si presentava con una lista sua alleata col Pd, il partito sarebbe stato massacrato e una enorme quantità di consensi sarebbe andata a Renzi. Lui ha deciso di essere Pd. E anche gli altri, possibile che non possano decidere che Renzi è un Pd e fa parte organica, leale e profonda di un partito democratico che sta cercando la sua identità? Il partito è anche una comunità di affetti. Di persone che vogliono stare insieme. Renzi l’ha dimostrato, per quale ragione il Partito – anche se sono ostili a molte delle affermazioni di Renzi – invece di mugugnare non accetta questa offerta? Che è un’offerta importante, senza con questo danneggiare l’esperimento che sta per essere condotto. È un’operazione ovviamente rischiosa, perché durante la fondazione del Partito democratico la persona meno contenta di tutti era ovviamente Romano Prodi.

D’altra parte, una persona che fonda un nuovo Partito nella situazione in cui gran parte della popolazione è scontenta del governo, anche del tuo governo – allora era il governo di Romano Prodi, adesso è il governo di Enrico Letta -, bé i rischi li corre comunque. Io ricordo benissimo una incazzatura di Romano Prodi che non gli è ancora passata, Romano del resto ha una memoria da elefante…, ma è un’operazione sicuramente rischiosa. Ma cosa fare altrimenti, cosa fare di diverso…?»
O così o l’immobilismo. Partito apparentemente internamente unito ma privo di consensi che contano e pesano. Elettoralmente parlando. Ma anche politicamente.

  1. Tante riflessioni politiche da parte di Salvati, che poi risolve tutto ringraziando per l’esistenza nel Pd di un grande comunicatore come Renzi? Alla fine la riflessione politica a questo si riduce? Renzi è una chanche, l’ultima per il Pd, perché sa comunicare con la gente? Nulla interessa a Salvati sapere che politica abbia in testa il sindaco di Firenze? Pare proprio di no…il problema pare essere solo la comunicazione. Se così stanno le cose, se queste sono le riflessioni che vengono dagli “ideologi”, l’agonia del Pd non durerà ancora molto, la morte è prossima…

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